Protezione internazionale negata e ricorso per la violazione del dovere di collaborazione istruttoria

In tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito non è sufficiente la mera prospettazione generica di una complessiva situazione del Paese di origine difforme da quella ricostruita in sede di merito.

È il principio affermato dalla Suprema Corte con l’ordinanza n. 30952/19, depositata il 27 novembre. Il caso. La Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano respingeva l’istanza di un cittadino straniero volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria o in subordine quella umanitaria. Il Tribunale e la Corte d’Appello confermavano la decisione ritenendo che la situazione della Guinea Conakry, paese d’origine del richiedente, si fosse stabilizzata. L’istante ricorre dinanzi alla Suprema Corte. Dovere di collaborazione probatoria. Il ricorso sottolinea il fatto che la Corte territoriale abbia omesso di prendere in considerazione fonti aggiornate sulla condizione del Paese d’origine che sarebbero peggiorate, sia a livello politico che sanitario. La doglianza risulta però priva di fondamento avendo il Giudice di merito correttamente preso in esame i rapporti World Report e Human Rights Watch. Risulta dunque rispettato il principio secondo cui, nel fare riferimento alle c.d. fonti privilegiate di cui all’art. 8 d.lgs. n. 25/2008, il giudice deve indicare la fonte in concreto utilizzata e il contenuto dell’informazione ritenuta rilevante. Le diverse ed ulteriori fonti invocate dal ricorrente rapporti di Amnesty International e ACLED , già prodotte in secondo grado, vengono in realtà richiamate senza alcuna precisazione circa il contenuto di esse, la cui valutazione è però preclusa alla Corte di legittimità. In conclusione, la pronuncia in oggetto cristallizza il principio di diritto secondo cui, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito in tema di protezione internazionale, non può essere ritenuta sufficiente la mera prospettazione generica di una complessiva situazione del Paese di origine difforme da quella ricostruita in sede di merito. Non è in tal senso determinante il riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal giudice e risultanti nella decisione impugnata. Occorre invece che il ricorrente dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, irrilevanti o inattendibili. In altre parole, la censura deve contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire alla Corte di Cassazione l’effettiva verifica circa la predetta violazione del dovere di collaborazione istruttoria . In conclusione, la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 25 giugno – 27 novembre 2019, n. 30952 Presidente Bisogni – Relatore Oliva Fatti di causa Con provvedimento del 19.11.2015 la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano respingeva l’istanza dell’odierno ricorrente, volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria o in subordine quella umanitaria. Con ordinanza del 29.11.2016 il Tribunale di Milano rigettava l’opposizione proposta da C.S. contro il provvedimento reiettivo della Commissione territoriale. Con la sentenza oggi impugnata, n. 420/2018, la Corte di Appello di Milano rigettava l’impugnazione proposta da C.S. avverso la decisione di prime cure, limitatamente al solo riconoscimento della protezione umanitaria, in quanto la situazione della Guinea Conakry, Paese di origine dell’odierno ricorrente, si era stabilizzata a seguito delle elezioni svoltesi nel 2010 e, sulla base delle notizie ricavate dai rapporti World Report e Human Rights Watch del 2016, si erano registrati miglioramenti nel sistema giudiziario e nella tutela dei diritti umani, pur persistendo episodi non rari di violenza. Propone ricorso per la cassazione di detta decisione C.S. affidandosi a due motivi. Resiste con controricorso il Ministero dell’Interno. Ragioni della decisione Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 116 c.p.c., del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3 e art. 5, art. 8, comma 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 perché la Corte di Appello avrebbe omesso di prendere in esame le fonti aggiornate sulla condizione del Paese di origine del ricorrente, che evidenzierebbero un peggioramento sia delle condizioni politiche che della situazione sanitaria generale della omissis . La doglianza non è fondata. Ed invero la sentenza impugnata indica cfr. in particolare pag.5 le fonti prese in esame dalla Corte di Appello - nella specie, i rapporti World Report e Human Rights Watch del 2016 - in base alle quali è stata esclusa la sussistenza, in concreto, delle condizioni di instabilità generale e di pericolo di violazione dei diritti umani nel Paese di provenienza del ricorrente. Questa Corte ha affermato, con le ordinanze n. 13449/2019, n. 13450/2019, n. 13451/2019 e n. 13452/2019, la prima delle quali massimata cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13449 del 17/05/2019, Rv.653887 il principio per cui il giudice di merito, nel fare riferimento alle cd. fonti privilegiate di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 deve indicare la fonte in concreto utilizzata nonché il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità dell’informazione predetta rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione sul punto, cfr. anche Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 11312 del 26.4.2019, non massimata . Nel caso di specie, la decisione impugnata soddisfa i suindicati requisiti, posto che essa indica le fonti utilizzare dal giudice di merito - in particolare, i rapporti World Report e Human Rights Watch del 2016 - ed il contenuto delle notizie sulla condizione del Paese tratte da dette fonti cfr. in particolare pag. 5 della sentenza impugnata , consentendo in tal modo alla parte la duplice verifica della provenienza e della pertinenza dell’informazione. Nel motivo di censura il ricorrente lamenta che le informazioni sulla base delle quali la Corte di Appello ha deciso sarebbero superate da più recenti rapporti di Amnesty International e ACLED, che evidenzierebbero un peggioramento della condizione interna della OMISSIS nel 2017, e di Freedom in the World 2016, tutti già prodotti in secondo grado. Tuttavia il motivo non riporta in modo preciso il contenuto di dette fonti alternative, ma si limita a riferire che da esse emergerebbe che la Guinea subito uno sciopero generale, con la morte di otto persone, danni alle infrastrutture e paralisi della capitale, e dà atto genericamente di episodi di attacchi contro persone sospettate di essere portatori del virus ebola. Questa Corte non può spingersi sino alla valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dal giudice del merito, laddove nel motivo di censura non vengano evidenziati precisi riscontri idonei ad evidenziare che le informazioni sulla cui base la Corte territoriale ha deciso siano state effettivamente superate da altre e più aggiornate fonti qualificate. Solo laddove dalla censura emerga la precisa dimostrazione di quanto precede, infatti, potrebbe ritenersi violato il cd. dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice del merito, nella misura in cui venga cioè dimostrato che quest’ultimo abbia deciso sulla scorta di notizie ed informazioni tratte da fonti non più attuali ovvero palesemente irrilevanti o inattendibili. In caso contrario, la semplice e generica allegazione dell’esistenza di un quadro generale del Paese di origine del richiedente la protezione differente da quello ricostruito dalla Corte di Appello si risolve nell’implicita richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie e nella prospettazione di una diversa soluzione argomentativa, entrambe precluse in questa sede. Può quindi affermarsi il principio secondo cui Ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito in tema di protezione internazionale non è sufficiente la mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quello ricostruita dal giudice di merito, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal predetto giudice e risultanti dal provvedimento decisorio, ma occorre che la censura dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali ovvero palesemente irrilevanti o inattendibili. A tal riguardo, la censura deve contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire alla Corte di Cassazione l’effettiva verifica circa la predetta violazione del dovere di collaborazione istruttoria . Con la seconda doglianza il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.P.R. n. 394 del 1999, artt. 19 11 e 28, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e art. 8, comma 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, perché la Corte di Appello avrebbe omesso di valutare, in termini comparativi, le condizioni di vita del richiedente la protezione in Italia rispetto a quelle che egli avrebbe, in caso di rimpatrio, nel proprio Paese di origine. La censura è infondata, posto che la sentenza impugnata, a differenza di quanto dedotto dal ricorrente, tiene conto dalle attività da lui svolte durante la sua permanenza in Italia, ma afferma che i percorsi di formazione e tirocinio non sono di per sé soli sufficienti a dimostrare il radicamento nel territorio nazionale. Sotto questo profilo, la decisione è coerente con quanto affermato da questa Corte, secondo cui la comparazione tra la condizione del richiedente la protezione umanitaria nel Paese di origine e in Italia va condotta in modo rigoroso, perché la ratio della protezione umanitaria rimane quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona che ne integrano lai dignità. Ne consegue che il raggiungimento di un livello d’integrazione sociale, personale od anche lavorativa nel paese di accoglienza può costituire un elemento di valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza di una delle variabili rilevanti della vulnerabiltà ma non può esaurirne il contenuto. Non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel paese di accoglienza, sotto il profilo del radicamento affettivo, sociale e/o lavorativo, indicandone genericamente la carenza nel paese d’origine, ma è necessaria una valutazione comparativa che consenta, in concreto, di verificare che ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il 9 profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili. Solo all’interno di questa puntuale indagine comparativa può ed anzi deve essere valutata, come fattore di rilievo concorrente, l’effettività dell’inserimento sociale e lavorativo e/o la significatività dei legami personali e familiari in base alla loro durata nel tempo e stabilità. L’accertamento della situazione oggettiva del Paese d’origine e della condizione soggettiva del richiedente in quel contesto, alla luce delle peculiarità della sua vicenda personale costituiscono il punto di partenza ineludibile dell’accertamento da compiere. cfr. Cass. n. 420/2012, n. 359/2013, n. 15756/2013 cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298, alle pagg.9 e s. della motivazione . Solo a queste condizioni vale quindi il principio secondo cui Il riconoscimento della protezione umanitaria, secondo i parametri normativi stabiliti dall’art. 5, comma 6 T.U. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 32 al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale nel nostro paese, non può escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, dovendosi fondare su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza , affermato dalla sopra richiamata decisione n. 4455 del 2018 di questa Corte. Ne consegue l’insufficienza della generica allegazione della migliore condizione di cui il richiedente la protezione godrebbe in Italia rispetto a quella che avrebbe nel proprio Paese di origine, in quanto la comparazione va condotta non in termini astratti ma concreti, calata cioè sulla specifica condizione di vita e di vulnerabilità del richiedente medesimo, e quindi in ultima analisi sulla sua vicenda personale. Da tanto deriva il rigetto del secondo motivo di ricorso. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore del Ministero controricorrente delle spese del presente giudizio di Cassazione, che liquida in Euro 2.100 oltre rimborso delle spese prenotate a debito.