L’adeguata valutazione del giudice del merito per il riconoscimento della protezione internazionale

Con le due ordinanze la n. 28975/19 e 28974/19 , la Suprema Corte afferma la condotta che il giudice del merito deve adottare nell’ambito di un giudizio per il riconoscimento della protezione internazionale qualora il richiedente dimostri di esser perseguitato nel proprio Paese di origine per un reato commesso o in ragione della propria religione.

Richiedente la protezione internazionale per la condanna per un furto. Con al pronuncia n. 28975/19, la Suprema Corte, nell’ambito di un procedimento avviato per il riconoscimento dello status di rifugiato e la protezione umanitaria in favore di un cittadino della Guinea Bissau, fuggito dal proprio Paese per paura di essere incarcerato senza processo dopo un furto di bestiame. La Corte territoriale, sul punto, con la sentenza impugnata aveva errato nell’affermare che la situazione della Nuova Guinea non giustificasse la richiesta di protezione internazionale, poiché l’uomo proveniva dalla Guinea Bissau. Pertanto, i Giudici di legittimità, in accoglimento del ricorso dello straniero, affermano che, la valutazione della situazione interna del Paese di provenienza del richiedente la protezione deve essere necessariamente condotta tenendo conto della effettiva ed attuale situazione del Paese stesso. Questo vale sia con riferimento al riconoscimento della protezione sussidiaria, sia con riferimento a quello della protezione umanitaria. Qualora risulti che il Giudice del merito abbia fatto riferimento ad un Paese diverso l’obbligo di cooperazione istruttoria va ritenuto sostanzialmente disatteso, senza che possano farsi derivare, dalla predetta valutazione riferita ad un Paese diverso da quello di origine del richiedente la protezione, elementi di confronto in qualsiasi modo riferibili al diverso Paese di effettiva provenienza del richiedente . Richiedente la protezione internazionale per motivi religiosi. Con l’ordinanza n. 28974/19, invece, i Giudici del Supremo Collegio si trovano a dover decidere nell’ambito del riconoscimento dello status di rifugiato e protezione umanitaria per un cittadino del Bangladesh che aveva dichiarato di aver lasciato il proprio Paese di origine perché perseguitato in ragione della sua religione Hindu. Anche in questo caso la Suprema Corte accoglie il gravame dello straniero ricorrente, poiché la Corte distrettuale ha errato nel negare il suddetto riconoscimento fondando le sue ragioni solo sull’esame della condizione interna del Bangladesh in termini del tutto generali. Al riguardo, la Suprema Corte afferma che, nelle ipotesi in cui il richiedente la protezione internazionale dichiari di essere soggetto nel Paese di origine ad una persecuzione a sfondo religioso, il giudice del merito deve effettuare un’attenta valutazione interna del Paese stesso indagando sull’esistenza o meno di fenomeni tensivi a contenuto religioso e non assume rilievo il fatto che il richiedente non si sia rivolto alle Autorità locali come nel caso di specie per ottenere tutela, poiché la decisione di non rivolgersi ad esse può derivare, concretamente, proprio dal timore di essere assoggettato, in ragione del suo credo religioso, ad ulteriori trattamenti persecutori o umanamente degradanti .

CORTE di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 25 giugno – 8 novembre 2019n. 28974 Presidente Bisogni – Relatore Oliva Fatti di causa La Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano respingeva l’istanza dell’odierno ricorrente, volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria o in subordine quella umanitaria. Con ordinanza del 21.4.2017 il Tribunale di Milano rigettava l’opposizione proposta da D.B. contro il provvedimento reiettivo della Commissione territoriale. Con la sentenza oggi impugnata, n. 2725/2018, la Corte di Appello di Milano rigettava l’impugnazione proposta da D.B. avverso la decisione di prime cure, ritenendo in particolare che la storia raccontata dal richiedente la protezione, cittadino del Bangladesh che aveva dichiarato di aver lasciato il proprio Paese di origine in quanto perseguitato in ragione della sua religione [], non fosse credibile, anche perché il ricorrente non aveva dichiarato di essersi rivolto invano alle Autorità locali per ricevere tutela. Inoltre, la Corte territoriale riteneva che la situazione generale del Bangladesh, non oggetto di specifiche direttive UNHCR al momento della decisione, non fosse tale da comportare l’esposizione del ricorrente medesimo a rischio per la sua incolumità personale. Propone ricorso per la cassazione di detta decisione D.B. affidandosi ad un unico motivo. Il Ministero dell’Interno, intimato, non ha svolto attività difensiva in questo giudizio di legittimità. Ragioni della decisione Con l’unico motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 8 perché la Corte di Appello avrebbe condotto la valutazione sulla credibilità del racconto del richiedente la protezione e sulla sua vulnerabilità considerando solo in astratto la situazione del suo Paese di origine, senza tener conto della condizione personale del ricorrente stesso. La doglianza è fondata. Risulta invero che la Corte di Appello ha condotto l’esame della condizione interna del Bangladesh in termini generali, senza considerare in alcun modo l fatto che D.B. avesse narrato di esser stato costretto ad abbandonare il Paese in conseguenza di una persecuzione di carattere religioso. In proposito, va evidenziato che l’affermazione, contenuta a pag.4 della decisione impugnata, secondo cui In ogni caso, anche a voler prescindere dai rilievi sulla credibilità della vicenda, è evidente che si tratta di una vicenda non ascrivibile nel novero delle condizioni richieste per il riconoscimento dello status di rifugiato è in sé erronea perché non tiene conto che la persecuzione religiosa è espressamente ricompresa tra le cause che giustificano il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra. Inoltre, la condizione di soggetto esposto a persecuzione religiosa è comunque rilevante, quantomeno ai fini della concessione della protezione internazionale sussidiaria, posto che la persona ammissibile alla protezione sussidiaria è definita dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g come il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese . Dal quadro normativo nazionale e internazionale emerge pertanto che la persecuzione a sfondo religioso costituisce causa legittimante sia per il riconoscimento dello status di rifugiato, che nei casi meno gravi per la concessione della tutela sussidiaria. La differenza tra le due forme di protezione va individuata nelle modalità concrete con cui si esplica il trattamento persecutorio o discriminante. Laddove esso si atteggi con modalità che espongono in concreto il richiedente la protezione al rischio di subire un danno grave e diretto alla sua persona, sussistono certamente i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18353 del 23/08/2006, Rv.591535, secondo cui Requisito essenziale per il riconoscimento dello status di rifugiato è il fondato timore di persecuzione personale e diretta nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate . Quando invece la persecuzione si manifesta con modalità tali da non causare il predetto rischio diretto all’incolumità del richiedente la protezione, ma tuttavia implica il pericolo di compromissione dei diritti fondamentali dell’individuo, essa può rilevare ai fini della concessione della tutela sussidiaria. Non può essere infatti trascurato che la libertà di professare il proprio credo religioso appartiene all’ambito più intimo dei diritti della persona umana e rappresenta una delle modalità principali in cui si esplica la personalità dell’individuo, espressamente tutelata dall’art. 2 Cost. Vertendosi in materia di protezione internazionale, alla luce del consolidato principio di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, quest’ultimo è tenuto, quando il richiedente prospetta una situazione potenzialmente rilevante sub specie di persecuzione o trattamento discriminatorio a contenuto religioso, a svolgere accurate indagini al fine di verificare la fondatezza e la credibilità del racconto. È dunque necessario, quantomeno ai fini dell’eventuale concessione della protezione sussidiaria, condurre una disamina della situazione interna del Paese di provenienza del richiedente che sia espressamente diretta ad apprezzare se siano presenti fenomeni di tensione a sfondo religioso che possano confermare l’esistenza del rischio di persecuzione, o anche soltanto di trattamento umanamente degradante fondato su motivazioni esclusivamente religiose, paventato dal richiedente la protezione. Laddove il giudice di merito rilevi l’esistenza dei fenomeni di cui anzidetto, non si può dare esclusivo rilievo, ai fini del diniego della protezione invocata, alla circostanza che il richiedente non si sia rivolto all’Autorità locale per chiedere tutela, poiché tale fatto può rappresentare uno degli elementi nei quali si articola, in concreto, il trattamento degradante e persecutorio cui il soggetto deduce di essere sottoposto. In una situazione di tensione religiosa, infatti, sarebbe irragionevole richiedere al soggetto potenzialmente esposto ad un trattamento ingiustamente discriminatorio di rivelare pubblicamente la propria fede religiosa, rivolgendosi alle Autorità, così esponendosi ad ulteriori rischi di persecuzione o discriminazione. Ne deriva che, nel caso di specie, la Corte di Appello ha errato da un lato nel ritenere ininfluente, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato o quantomeno della protezione sussidiaria, la persecuzione o discriminazione a sfondo religioso, e dall’altro lato nel dare esclusivo rilievo, ai fini della valutazione della credibilità del racconto del richiedente la protezione, alla circostanza che egli non avesse dedotto di essersi vanamente rivolto alle Autorità del proprio Paese, senza considerare che tale mancata allegazione - o, più in generale, la decisione di non rivolgersi alle predette Autorità - potesse essere motivata proprio dal timore di essere soggetto a persecuzione. Va quindi affermato, in conclusione, il principio secondo cui Quando il richiedente la protezione internazionale o umanitaria alleghi il timore di essere soggetto, nel suo Paese di origine o, se apolide, in quello di effettivo domicilio ad una persecuzione a sfondo religioso, o comunque ad un trattamento umanamente degradante fondato su motivazioni a contenuto religioso che rappresentano circostanze legittimanti lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria , il giudice di merito deve - nell’ambito del generale dovere di collaborazione istruttoria che contraddistingue i procedimenti in materia di protezione internazionale e umanitaria - condurre la valutazione sulla situazione interna del Paese di origine del richiedente indagando espressamente l’esistenza di fenomeni di tensione a contenuto religioso. Non assume, in tale valutazione, decisiva rilevanza il fatto che il richiedente la protezione internazionale non si sia rivolto alle Autorità locali per invocare tutela, o non abbia dedotto di averlo fatto, in quanto la decisione di non rivolgersi alle predette Autorità può derivare, in concreto, proprio dal timore di essere assoggettato, in ragione del suo credo religioso, ad ulteriori trattamenti persecutori o umanamente degradanti . Il ricorso va pertanto accolto e la causa va rimessa alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, affinché riesamini la situazione alla luce del principio appena enunciato. Le spese del presente giudizio di legittimità saranno regolate dal giudice del rinvio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 25 giugno – 8 novembre 2019n. 28975 Presidente Bisogni – Relatore Oliva Fatti di causa Con provvedimento notificato il 12.11.2015 la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano respingeva l’istanza dell’odierno ricorrente, volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria o in subordine quella umanitaria. Con ordinanza del 19.1.2017 il Tribunale di Milano rigettava l’opposizione proposta da J.K. contro il provvedimento reiettivo della Commissione territoriale. Con la sentenza oggi impugnata, n. 749/2018, la Corte di Appello di Milano rigettava l’impugnazione proposta da J.K. avverso la decisione di prime cure, ritenendo in particolare che la storia raccontata dal ricorrente, cittadino della Guinea Bissau fuggito dal proprio Paese di origine per timore di essere incarcerato senza processo in conseguenza di un furto di bestiame, come già accaduto per il padre e il fratello, si risolvesse in una vicenda privata inidonea a dimostrare la sussistenza di profili di vulnerabilità tali da consentire il riconoscimento della protezione invocata dal J. . Propone ricorso per la cassazione di detta decisione J.K. affidandosi a due motivi. Resiste con controricorso il Ministero dell’Interno. Ragioni della decisione Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 10 Cost., comma 3 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perché la Corte di Appello avrebbe omesso di valutare la sua condizione di vulnerabilità tenendo conto della situazione del suo Paese di origine. Ad avviso del ricorrente, la Guinea Bissau sarebbe interessata dall’assenza di protezione giudiziaria e dalla corruzione diffusa delle forze di sicurezza inoltre tutta l’area dell’Africa sub-sahariana sarebbe percorsa da fenomeni di violenza, conflitto etnico ed insufficiente controllo del territorio da parte delle Autorità statali, con conseguente condizione di vulnerabilità dei cittadini dei Paesi compresi nella predetta zona. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 perché la Corte ambrosiana avrebbe dovuto tener conto che aì fini della concessione della protezione sussidiaria o umanitaria non occorre la dimostrazione del pericolo personale in capo al richiedente, come per il riconoscimento dello status di rifugiato, ma è sufficiente il riferimento alla condizione generale del Paese e al pericolo per l’incolumità dei cittadini che da esso deriva. Ad avviso del ricorrente, la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto in alcun modo della predetta condizione della Guinea Bissau. I due motivi, che per la loro connessione meritano una trattazione congiunta, sono fondati nei limiti di quanto segue. Dall’esame della sentenza gravata risulta che la Corte di Appello ha condotto al contrario di quanto affermato dal ricorrente una valutazione delle condizioni interne del Paese di provenienza del richiedente la protezione. Tuttavia detto approfondimento è stato erroneamente condotto con riferimento ad un Paese tutt’affatto diverso da quello dal quale l’odierno ricorrente proveniva. La Corte ambrosiana infatti ha affermato cfr. pag. 5 della decisione impugnata che La situazione attuale della Nuova Guinea, in ogni caso, non giustifica la richiesta di protezione internazionale . Il riferimento alla Nuova Guinea è evidentemente erroneo, in quanto il ricorrente proviene dalla Guinea Bissau, che si trova in Africa equatoriale, mentre la Nuova Guinea è situata in Oceania. In assenza di ulteriori elementi ricavabili dalla sentenza appellata che possano dimostrare che la Corte territoriale abbia in realtà riferito sua valutazione alla Guinea Bissau e non alla Nuova Guinea, come invece emerge testualmente dalla decisione impugnata si deve ritenere che predetta valutazione sia stata erroneamente condotta con riferimento ad uno Stato assolutamente diverso da quello di provenienza dell’odierno ricorrente. Da ciò deriva l’accoglimento delle censure proposte dal ricorrente, posto che l’accertamento della condizione del Paese di provenienza, tanto ai fini della concessione della tutela sussidiaria che di quella umanitaria, va condotto necessariamente con riferimento allo Stato di origine del richiedente la protezione, dovendosi in caso contrario ritenere omessa l’attività di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito nell’ambito del giudizio finalizzato alla concessione della protezione internazionale o umanitaria. Può conseguentemente affermarsi il seguente principio di diritto La valutazione della situazione interna del Paese di provenienza del richiedente la protezione internazionale o umanitaria deve essere condotta, sia con riferimento al riconoscimento della protezione sussidiaria, sin con riguardo al riconoscimento della protezione umanitaria, tenendo conto della situazione effettiva ed attuale del Paese di origine del richiedente. Quando dalla sentenza impugnata risulti che il giudice di merito abbia fatto riferimento ad un Paese diverso da quello di provenienza del richiedente la protezione, l’obbligo di cooperazione istruttoria va ritenuto sostanzialmente disatteso, senza che possano farsi derivare, dalla predetta valutazione riferita ad un Paese diverso da quello di origine del richiedente la protezione, elementi di confronto in qualsiasi modo riferibili al diverso Paese di effettiva provenienza del richiedente . Il ricorso va pertanto accolto e la causa va rimessa alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, affinché riesamini la situazione alla luce del principio appena enunciato. Le spese del presente giudizio di legittimità saranno regolate dal giudice del rinvio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.