La rimozione dalla funzione del giudice che commette reati particolarmente deplorevoli è atto dovuto (oltre che giusto)

A seguito di giudicato penale di condanna, in casi specifici, la sezione disciplinare del Consiglio Superiore di Magistratura non può che determinarsi di applicare la sanzione della rimozione.

Così la Corte di Cassazione Sezioni Unite Civili con sentenza n. 16984/19 depositata il 25 giugno. Il caso. Interessantissimo il caso giudiziario giunto all'attenzione della Suprema Corte e di cui alla sentenza in commento nel quale si vede come protagonista un ex magistrato al quale sono stati contestati ben nove capi di incolpazione per illeciti disciplinari costituenti tutti fatti di reato commessi dall'uomo al di fuori dell'esercizio delle proprie funzioni. Più nello specifico, all'indegno giudice in questione era stato contestato oltre al resto l'aver costretto un consigliere comunale a rassegnare le dimissioni dalla propria carica, con la minaccia in caso contrario dell'arresto dei suoi prossimi congiunti, e così determinando lo scioglimento dell'amministrazione comunale e la cessazione dalla carica del sindaco all'epoca esistente l'aver indotto un altro uomo a procurargli l'indebita utilità di soggiorni gratuiti, per se stesso e per la propria famiglia, presso un villaggio residenziale appartenente ad una società amministrata dal primo, incutendo al malcapitato il timore del sequestro dell'intero complesso residenziale, prospettando il proprio interessamento per un collega di ufficio, titolare della relativa indagine, in modo da evitare il provvedimento di sequestro preventivo di avere, nel contesto del rapporto con l'uomo minacciato di cui si è testé parlato, costretto quest'ultimo ad allontanare dal villaggio residenziale il responsabile del servizio di portierato in quanto appartenente ad uno schieramento politico opposto al proprio di aver, abusando della propria qualità di sostituto procuratore della Repubblica, indotto un altro uomo, vittima di usura da parte di un parente del magistrato stesso, a non denunciare l'autore del reato di aver aiutato questo parente criminale ad eludere le indagini penali in ordine al reato di usura da lui commesso e di aver, con le condotte contestate in tutti i capi testè menzionati, fatto uso della propria qualità di magistrato per ottenere o fare ottenere a terzi indebite utilità ed ingiusti vantaggi, indicati nei vari capi di accusa, nonché di aver svolto in maniera sistematica e continuativa attività correlata ad un partito politico, partecipando alle riunioni operative di partito e prendendo parte alle relative decisioni, in vista della propria possibile candidatura alle elezioni per l'amministrazione provinciale per numerose altre condotte costituenti fatti di reato. Tutti i comportamenti oggetto di contestazione formavano oggetto di procedimento penale in cui l'infedele giudice veniva accusato di aver commesso delitti di concussione, corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio nonché diffamazione col mezzo di stampa. In ragione di ciò, il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo aver adottato nei suoi confronti la misura cautelare della sospensione delle funzioni e dello stipendio e dopo averlo collocato fuori dal ruolo organico della magistratura, disponeva la sospensione del procedimento disciplinare a carico dello stesso in attesa della definizione del giudizio penale. Quest'ultimo si concludeva dichiarando il magistrato responsabile di plurimi episodi di concussione, corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio e diffamazione col mezzo della stampa, condannandolo alla complessiva pena di quindici anni di reclusione, con la interdizione perpetua dai pubblici uffici nonché l'interdizione per la durata della pena detentiva inflitta. La sentenza di primo grado veniva confermata dalla Corte di Appello che, tuttavia, dichiarava estinti per sopravvenute prescrizioni i delitti di diffamazione contestati al magistrato, rideterminando la pena ma lasciando immutate le pene accessorie irrogate. A seguito di ciò, il procuratore generale presso la Corte di Cassazione formulava le contestazioni disciplinari alla luce delle conclusioni dei giudici penali, chiedendo alla sezione disciplinare del C.S.M. la fissazione dell'udienza dibattimentale. A conclusione del giudizio disciplinare, il Consiglio Superiore della Magistratura irrogava all'infedele magistrato la sanzione disciplinare della rimozione. Ovviamente, per la cassazione di tale sentenza veniva proposto ricorso dal condannato. I motivi del ricorso. Tra i vari motivi di doglianza, il ricorrente deduceva la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata per avere il C.S.M. ritenuto operante il vincolo del giudicato penale con riferimento a tutti i capi di incolpazione, anche per quelli per i quali la corrispondenza non vi era. Tuttavia, la Suprema Corte precisa come il ricorrente non colga come, a seguito del giudicato penale di condanna, la sezione disciplinare del C.S.M. non poteva che determinarsi di applicare la sanzione della rimozione, disposizione puntualmente richiamata dal giudice della disciplina. Gli Ermellini sul punto ricordano come il legislatore abbia inteso prevedere la rimozione obbligatoria del magistrato allorché si verifichi, nei suoi confronti, una soltanto delle seguenti situazioni giuridiche, particolarmente deplorevoli perché connotate da speciale gravità rispetto alla generalità degli altri illeciti disciplinari 1 la condanna per illecito disciplinare consistente nell'aver ottenuto, direttamente oppure indirettamente, prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato sa di essere parti o indagati in procedimenti penali o civili, dai difensori di costoro, da parti offese o testimoni o, comunque, da soggetti coinvolti in procedimenti 2 la condanna penale che abbia comportato la irrogazione della pena accessoria della interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici 3 la condanna penale a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore ad un anno, la cui esecuzione non sia stata sospesa. Nella specie, pertanto -osservano gli Ermellini il ricorrente aveva riportato una condanna penale alla pena di oltre un anno che, a sua volta, aveva comportato anche la sua interdizione perpetua dai pubblici uffici, per cui ricorrevano ben due delle tre ipotesi previste dalla normativa, ciascuna delle quali sufficienti a determinare la irrogazione obbligatoria della sanzione della rimozione. Il ricorrente si doleva, inoltre, per il fatto che la normativa italiana, in violazione della C.E.D.U., non prevedesse il diritto dell'incolpato detenuto di partecipare all'udienza disciplinare. A tal proposito, la Suprema Corte rileva che nel giudizio disciplinare si applicano, in quanto compatibili, le norme del codice di procedura penale sul dibattimento, eccezion fatta per quelle che comportano l'esercizio di poteri coercitivi nei confronti dell'imputato, dei testimoni, dei periti e degli interpreti. Pertanto, si ritengono applicabili al procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati le norme del codice di procedura penale che assicurano agli imputati detenuti la possibilità di partecipare al dibattimento. Inoltre, ricorda la Suprema Corte, secondo la giurisprudenza di legittimità la mancata traduzione in udienza dell'imputato detenuto e regolarmente citato determina la nullità assoluta ed insanabile del giudizio e della relativa sentenza. Ma ciò -specificano da ultimo gli Ermellini soltanto nell'ipotesi in cui il detenuto abbia fatto espressa richiesta di comparire all'udienza. Nel caso di specie il ricorrente non aveva dedotto di avere avanzato richiesta, a seguito della citazione per il giudizio disciplinare, di comparire in udienza, con la conseguenza che la doglianza, per come formulata, risulta priva di fondamento.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 4 - 25 giugno 2019, n. 16984 Presidente Spirito – Relatore Lombardo Fatti di causa 1. - La Procura Generale presso questa Suprema Corte e il Ministro della Giustizia esercitarono l’azione disciplinare nei confronti del magistrato Dott. D.G.M.P.G. , sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, formulando nei suoi confronti nove capi di incolpazione per gli illeciti disciplinari - costituenti fatti di reato commessi al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni - di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 4, lett. d e art. 3, lett. h . In particolare, venne contestato al Dott. D.G. di avere costretto il consigliere del Comune di Castellaneta T.D. a rassegnare le dimissioni dalla sua carica, minacciando in caso contrario l’arresto dei suoi prossimi congiunti, così determinando lo scioglimento dell’amministrazione comunale e la cessazione dalla carica di Sindaco di L.R. , in vista della propria ascesa politica nell’ambito locale capo A di avere indotto D.M. , nell’estate del 2008, a procurargli l’indebita utilità di soggiorni gratuiti, per sé e per la famiglia, presso il villaggio residenziale omissis appartenente ad una società amministrata dal D. , incutendo in quest’ultimo il timore del sequestro dell’intero complesso residenziale e prospettando il proprio interessamento presso un collega di ufficio, titolare della relativa indagine, in modo da evitare il provvedimento di sequestro preventivo capo B di avere, nel contesto del rapporto col D. , costretto quest’ultimo ad allontanare dal villaggio residenziale omissis il responsabile del servizio di portierato, P.V.F. , in quanto appartenente a schieramento politico opposto al proprio, nonché indotto il D. a proporre all’assemblea dei condomini di non accettare la proposta contrattuale di rinnovo del servizio formulata dal P. , benché maggiormente favorevole rispetto alle altre capo C di avere, abusando della propria qualità di sostituto procuratore della Repubblica, indotto D.F.G. , vittima di usura da parte di Pe.An. parente del magistrato , a non denunciare l’autore del reato capo D di avere, con la condotta di cui sopra, aiutato Pe.An. ad eludere le indagini penali in ordine al reato di usura da lui commesso in danno del D.F. capo E di avere, in concorso col Sindaco del comune di omissis e col Comandante della Polizia municipale dello stesso comune, in contropartita della promessa rivolta a C.G. di un generale trattamento di favore relativamente alla gestione abusiva di un pubblico esercizio, alla elargizione di contributi economici e alla assunzione della figlia , ricevuto l’utilità della ritrattazione delle dichiarazioni accusatorie precedentemente formulate dal C. nei confronti del Dott. D.G. nell’ambito di un procedimento penale pendente a carico dello stesso presso l’Autorità giudiziaria di Potenza nonché l’ulteriore utilità della proposizione di denunce del C. contro L.R. , avversario politico del D.G. capo F di avere, con le condotte contestate nei capi di cui sopra, fatto uso della propria qualità di magistrato per ottenere o fare ottenere a terzi le indebite utilità e gli ingiusti vantaggi indicati nei medesimi capi capo G di avere svolto in maniera sistematica e continuativa attività correlata ad un partito politico, partecipando alle riunioni operative di partito e prendendo parte alle relative decisioni, in vista della propria possibile candidatura alle elezioni per l’amministrazione provinciale di Taranto del 2009 capo H di avere, infine, nei giorni 26 e 27 maggio 2007, nel corso di tre interviste rilasciate a quotidiani ed emittenti televisive, offeso la reputazione di L.P. e L.A. , assumendo, contrariamente al vero, che essi avevano minacciato il nipote M.A. , nonché di aver offeso la reputazione di L.R. , assumendo contrariamente al vero, che lo stesso aveva rivolto minacce a suo figlio P. e che aveva investito denaro all’estero in attività funerarie capo I . Fatti commessi in omissis . I fatti hanno formato oggetto di procedimento penale iscritto presso la Procura della Repubblica di Potenza competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p., che contestò al Dott. D.G. i delitti di concussione art. 317 c.p. , corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio art. 319 c.p. , diffamazione col mezzo della stampa art. 595 c.p., comma 3 . In ragione di ciò, il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo aver adottato nei confronti del Dott. D.G. la misura cautelare della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio e dopo averlo collocato fuori dal ruolo organico della Magistratura, dispose la sospensione del procedimento disciplinare a carico dello stesso in attesa della definizione del giudizio penale. Il Tribunale di Potenza dichiarò il Dott. D.G. responsabile di plurimi episodi di concussione capi A, B e C , corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio capo G , diffamazione col mezzo della stampa capi 1 e 2 e lo condannò alla complessiva pena di anni quindici di reclusione, con la interdizione perpetua dai pubblici uffici e la interdizione legale per la durata della pena detentiva inflitta. La sentenza di primo grado fu confermata dalla Corte di Appello di Potenza, che tuttavia dichiarò estinti per sopravvenuta prescrizione i due delitti di diffamazione contestatigli capi 1 e 2 e rideterminò la pena nella misura di anni dodici e mesi sei di reclusione, ferme le pene accessorie irrogate. Il procedimento penale si concluse con la sentenza n. 47602 del 2017 emessa da questa Suprema Corte, che annullò senza rinvio la sentenza di appello limitatamente al delitto di concussione contestato al capo A perché estinto per sopravvenuta prescrizione, nonché in ordine al delitto di diffamazione ascritto al capo 2 già dichiarato estinto per prescrizione perché il fatto non sussiste, rigettando nel resto il ricorso del D.G. e rideterminando la pena nella misura di anni otto di reclusione. 2. - A seguito di tale sentenza, il Procuratore generale presso questa Corte riformulò le contestazioni disciplinari alla luce delle conclusioni dei giudici penali e chiese, alla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, la fissazione dell’udienza dibattimentale. A conclusione del giudizio disciplinare, il Consiglio Superiore della Magistratura, con sentenza n. 187 del 2018, ha irrogato al Dott. D.G. - ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, la sanzione disciplinare della rimozione. 3. - Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso D.G.M.P.G. sulla base di quattro motivi. Il Ministero della Giustizia non ha svolto attività difensiva. In prossimità dell’udienza, il ricorrente ha depositato memoria, con la quale ha formulato ulteriori censure. Ragioni della decisione 1. - Col primo motivo, si deduce ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, per avere la Sezione disciplinare ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., laddove non prevede la sospensione obbligatoria del procedimento disciplinare nel caso in cui l’incolpato, condannato in sede penale, abbia chiesto la revisione del processo ai sensi gli artt. 629 c.p.p. e segg La censura non è fondata. Com’è noto, l’istituto della revisione, previsto dagli artt. 629 c.p.p. e segg., costituisce un mezzo di impugnazione straordinario, che - dando priorità all’esigenza di giustizia sostanziale rispetto a quella di certezza dei rapporti giuridici - consente, in casi tassativi, di rimuovere gli effetti del giudicato da ultimo, Cass., Sez. Un. pen., n. 6141 del 25/10/2018 . Il D.Lgs. n. 109 del 2006 prevede già la sospensione del procedimento disciplinare nei casi in cui i fatti contestati costituiscano anche fatti di reato per i quali l’incolpato sia sottoposto a procedimento penale D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4 e art. 15, comma 8 e la previsione di una ulteriore sospensione obbligatoria come pretesa dal ricorrente - per il fatto che il condannato in via definitiva in sede penale abbia proposto richiesta di revisione della sentenza di condanna si porrebbe in patente conflitto con la necessità di assicurare la tempestività del giudizio disciplinare. Invero, posto che corrisponde ad un pregnante interesse pubblico sanzionare disciplinarmente il magistrato che ha tenuto una condotta contraria ai propri doveri d’ufficio, sarebbe certamente irrazionale, per il sistema, prevedere che il procedimento disciplinare rimanga sospeso a seguito della mera iniziativa unilaterale del condannato che proponga richiesta di revisione, quando si è concluso l’iter del processo penale, si sono esaurite le impugnazioni ordinarie e si è pervenuti ad una condanna definitiva. Piuttosto, il giusto bilanciamento con le esigenze di garanzia dell’incolpato è assicurato dalla previsione dell’istituto della revisione della condanna disciplinare divenuta definitiva D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25 , che è ammesso in una serie di ipotesi in gran parte coincidenti con quelle previste dall’art. 630 c.p.p. cosicché il condannato che abbia ottenuto la revisione della condanna penale può successivamente chiedere la revisione anche della condanna disciplinare. D’altra parte, il fatto che il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20 non preveda la sospensione obbligatoria del giudizio disciplinare per la proposizione della richiesta di revisione della condanna penale non appare porsi in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto alla sospensione prevista per la pendenza del processo penale, data la diversità di situazione che si determina dopo formazione del giudicato penale nè appare configurare una violazione dell’art. 24 Cost. sotto il profilo della violazione del diritto di difesa, il cui pieno esercizio è invece assicurato dalla possibilità di richiedere in ogni tempo la revisione della condanna disciplinare D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25 tantomeno si profila una violazione del principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., neppure adeguatamente sviluppata nel motivo dal ricorrente. Esattamente, dunque, la Sezione disciplinare ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione di legittimità del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, sollevata dall’incolpato, in riferimento ai parametri costituzionali degli artt. 3, 24 e 111 Cost 2. - Col secondo motivo, si deduce ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b ed e l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, comma 2, nonché la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, per avere il Consiglio Superiore della Magistratura ritenuto operante il vincolo del giudicato penale, non solo con riferimento al capo di incolpazione disciplinare denominato con la lettera C rispetto al quale vi era corrispondenza tra il fatto materiale contestato disciplinarmente e quello oggetto di condanna penale, ma anche con riferimento agli altri capi di incolpazione per i quali tale corrispondenza non vi era capi A, B, D, E, F, G, H, I . Il motivo è inammissibile, per un verso, per difetto di specificità e, per altro verso, per difetto di interesse sotto il profilo della mancata censura della ratio decidendi della sentenza impugnata . Sotto il primo profilo, va rilevato che il ricorrente non riporta i fatti posti a fondamento degli illeciti disciplinari contestati e quelli per i quali vi è stata condanna penale, non consentendo così alla Corte di cogliere il tenore delle doglianze, di verificarne la fondatezza e, in definitiva, di svolgere il proprio sindacato. Il ricorrente, per di più, richiama esclusivamente i capi di incolpazione originari, senza considerare che, a seguito della conclusione del giudizio penale, il Procuratore generale presso questa Corte ha formulato un capo di incolpazione nuovo , col quale ha tenuto conto dell’esito del giudizio penale. Sotto il secondo profilo, poi, il ricorrente non coglie come, a seguito del giudicato penale di condanna con la irrogazione della pena finale di anni otto di reclusione, la interdizione perpetua dai pubblici uffici e la interdizione legale per la durata della pena inflitta , la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura non poteva che determinarsi ad applicare la sanzione della rimozione ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, disposizione puntualmente richiamata dal giudice della disciplina. Sul punto, va ricordato che il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12 intitolato Sanzioni applicabili al comma 5 stabilisce Si applica la sanzione della rimozione al magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, comma 1, lett. e , che incorre nella interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale o che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli artt. 163 e 164 c.p. o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’art. 168 c.p. . Si tratta di una disposizione che prevede tre distinte ipotesi nelle quali la rimozione del magistrato è obbligatoria Cass., Sez. Un., n. 23677 del 06/11/2014 . Sul punto, va ricordato che, con la sentenza n. 197 del 12 novembre del 2018, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. sotto il profilo del difetto di ragionevolezza, della disparità di trattamento e della proporzionalità della sanzione. In tale occasione, il giudice delle leggi ha osservato come vada ripudiata la tesi della natura cumulativa dei presupposti previsti dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, ai fini della rimozione, perché conduce all’illogica conseguenza che, a far scattare la sanzione della rimozione obbligatoria - prevista, nell’intero impianto del D.Lgs. n. 109 del 2006, soltanto dalla disposizione qui censurata - non sarebbe sufficiente che il magistrato incorra in una condanna penale che ne comporti l’interdizione dai pubblici uffici, ovvero in una condanna a pena detentiva non condizionalmente sospesa, occorrendo altresì che i fatti per i quali il magistrato sia stato penalmente condannato integrino anche l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. e . Conseguenza, questa, anch’essa palesemente assurda, posto che impedirebbe di ravvisare un’ipotesi di rimozione obbligatoria – ad esempio - nel caso in cui il magistrato venisse condannato per reati gravissimi, come l’omicidio volontario o la violenza sessuale, le cui rispettive fattispecie astratte tuttavia nulla hanno a che fare con quella dell’illecito disciplinare di cui è discorso . Deve perciò ritenersi che il legislatore abbia inteso prevedere la rimozione obbligatoria del magistrato allorché si verifichi, nei suoi confronti, una soltanto delle seguenti situazioni giuridiche, connotate da speciale gravità rispetto alla generalità degli altri illeciti disciplinari 1 la condanna per l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. e , la cui condotta consiste nell’aver ottenuto, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato sa essere parti o indagati in procedimenti penali o civili, dai difensori di costoro, da parti offese o testimoni o comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti 2 la condanna penale che abbia importato la irrogazione della pena accessoria della interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici pena accessoria, questa, la cui esecuzione risulta evidentemente incompatibile con l’esercizio delle funzioni giudiziarie per tutto il tempo in cui essa opera 3 la condanna penale a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa sin dall’inizio ovvero a seguito di revoca della sospensione già concessa . Sul punto, va enunciato, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, il seguente principio di diritto In tema di sanzioni disciplinari dei magistrati, il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, prevede tre diverse ipotesi, alternative tra di loro, ricorrendo una sola delle quali va disposta obbligatoriamente la rimozione del magistrato . Nella specie, il Dott. D.G. ha riportato condanna penale alla pena di anni otto di reclusione, che ha comportato la sua interdizione perpetua dai pubblici uffici. Ricorrevano, pertanto, ben due delle tre ipotesi previste dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, ciascuna sufficiente a determinare la irrogazione obbligatoria della sanzione della rimozione. Ed è evidente che il Consiglio Superiore della Magistratura non avrebbe potuto determinarsi altrimenti. 3. - Col terzo mezzo, si deduce l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 24, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., art. 6, par. 1 della C.E.D.U. e art. 2 del protocollo n. 7 della C.E.D.U., per la mancata previsione, in seno al procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, di un doppio grado di giurisdizione di merito. Il motivo è privo di fondamento. La Corte costituzionale ha affermato e costantemente ribadito che il principio del doppio grado di giurisdizione non gode di copertura costituzionale, non essendo riconosciuto dalla Costituzione quale necessaria garanzia di difesa Corte Cost., nn. 243 del 2014 351 del 2007 42 del 2014, 190 del 2013, 410 del 2007 e 84 del 2003 , spettando piuttosto al legislatore ampia discrezionalità in tema di conformazione degli istituti processuali Corte Cost. nn. 65 del 2014, 216 del 2013, 48 del 2014 e 190 del 2013 . Anche questa Suprema Corte, con specifico riferimento al procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, ha statuito che il principio del doppio grado di giurisdizione di merito non è costituzionalmente sancito, sicché, dalla circostanza che il processo disciplinare nei confronti dei magistrati - secondo la struttura delineata con il D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 - si svolga in un unico grado di merito, con facoltà per l’incolpato di impugnare la sentenza che lo definisce davanti alle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, non può ricavarsi alcun giudizio di incongruenza od aporia del sistema, con conseguente manifesta infondatezza della relativa eccezione di legittimità costituzionale Cass., sez. Un., n. 22610 del 24/10/2014 . In ordine alle pretese violazioni della C.E.D.U., la censura è inammissibile quanto alla denunciata violazione dell’art. 6 della C.E.D.U., perché del tutto generica è, invece, manifestamente infondata quanto alla pretesa violazione dell’art. 2 del protocollo n. 7 allegato alla C.E.D.U. che garantisce ad ogni persona dichiarata colpevole da un tribunale il diritto a far esaminare la dichiarazione di colpevolezza da una giurisdizione superiore , sia perché trattasi di disposizione specificamente dettata per la materia penale e non estensibile alla materia disciplinare, sia perché la garanzia del ricorso per cassazione, assicurata dall’art. 111 Cost., soddisfa comunque la garanzia del riesame sia pure limitatamente alle questioni di diritto della sentenza di condanna Cass. pen., Sez. 6, n. 30059 del 05/06/2014 . 4. - Col quarto motivo, si deduce ancora la violazione degli artt. 24 e 111 Cost. e art. 6 C.E.D.U., nonché la mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, per avere la Sezione disciplinare omesso di prendere in esame la doglianza dell’incolpato con la quale si lamentava che la Corte di Appello penale aveva utilizzato atti contenuti nel fascicolo del P.M. e non transitati nel fascicolo per il dibattimento, il cui esame, perciò, le era precluso. Il motivo è inammissibile, perché con esso si deducono pretese nullità della sentenza penale di condanna, che avrebbero dovuto essere dedotte con apposito motivo di impugnazione e che sono ormai coperte dal giudicato penale. 4. - Come si è detto, con la memoria il ricorrente ha formulato ulteriori censure alla sentenza della Sezione disciplinare. 4.1. - Innanzitutto, il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, perché la Sezione disciplinare non avrebbe considerato che gli illeciti di cui ai capi di incolpazione contrassegnati con le lettere D , E , G, ed F erano estinti per prescrizione. La censura è inammissibile per difetto di specificità. Il ricorrente, infatti, non riporta i fatti contestati con i capi di incolpazione disciplinare e quelli contestati con i capi di imputazione per i quali vi è stata condanna in sede penale, e non considera che, a seguito della conclusione del giudizio penale, il Procuratore generale presso questa Corte ha formulato un nuovo capo di incolpazione col quale ha espunto diversi dei capi di incolpazione originari. Parimenti, il ricorrente non considera che la Sezione disciplinare ha inteso sanzionare l’incolpato limitatamente ai fatti per i quali vi è stata condanna penale, non considerando gli altri. 4.2. - Il ricorrente deduce poi la illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 17, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 Cost. e art. 6 C.E.D.U., per il fatto di non prevedere il diritto dell’incolpato detenuto di partecipare all’udienza disciplinare. Anche questa questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata. Invero, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, nel giudizio disciplinare si applicano, in quanto compatibili, le norme del codice di procedura penale sul dibattimento eccezion fatta per quelle che comportano l’esercizio di poteri coercitivi nei confronti dell’imputato, dei testimoni, dei periti e degli interpreti . Devono pertanto ritenersi applicabili, al procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, le norme del codice di procedura penale che assicurano agli imputati detenuti la possibilità di partecipare al dibattimento art. 484, comma 2 bis, in relazione agli artt. 420 bis, 420 ter, 420 quater e 420 quinquies c.p.p., nonché art. 22 disp. att. c.p.p. con la conseguenza che l’asserito vuoto normativo e la pretesa lesione del diritto di difesa non sussistono. 4.3. - Il ricorrente deduce, infine, la nullità della sentenza impugnata per l’omessa traduzione dell’incolpato detenuto dinanzi alla Sezione disciplinare. Anche questa censura è destituita di fondamento. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, la mancata traduzione in udienza dell’imputato detenuto e regolarmente citato determina la nullità assoluta ed insanabile del giudizio e della relativa sentenza solo nell’ipotesi in cui il detenuto abbia formulato espressa richiesta di comparire all’udienza Cass. pen. Sez. 4, n. 51517 del 21/06/2013 Sez. 2, n. 28780 del 22/06/2016 Sez. 2, n. 5950 del 22/01/2014 . Nella specie, il ricorrente non ha dedotto di aver avanzato richiesta, a seguito della citazione per il giudizio disciplinare, di comparire in udienza cosicché la doglianza, come formulata, risulta priva di fondamento. 3. - Il ricorso va pertanto rigettato. Nulla va disposto sulle spese, non avendo il Ministero della Giustizia svolto attività difensiva. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.