Il dipendente pubblico imputato per corruzione non ha diritto al rimborso delle spese legali, anche se assolto

Il dipendente pubblico può chiedere all’amministrazione il rimborso delle spese legali sostenute per difendersi in un processo penale solo se il fatto di reato oggetto dell’imputazione non configura una fattispecie ontologicamente in conflitto con i doveri d’ufficio che determini ipso facto la legittimazione dell’ente di costituirsi parte civile.

Lo ha ribadito la Corte di legittimità con l’ordinanza n. 2475/19, depositata il 29 gennaio. Il caso. Il vicepresidente della Regione Puglia chiedeva al Tribunale di Bari l’accertamento del diritto al rimborso delle spese di patrocinio legale sostenute nel procedimento penale per corruzione conclusosi con l’assoluzione perché il fatto non sussiste. Il Tribunale rigettava la domanda in virtù del palese conflitto di interessi per la costituzione della Regione Puglia come parte civile. La Corte d’Appello confermava la decisione sottolineando che l’assoluzione era in realtà fondata su un giudizio dubitativo per insufficienza di prove e che l’imputazione per corruzione per condotta contraria ai doveri d’ufficio non poteva porsi in correlazione con l’espletamento del servizio o l’assolvimento di obblighi istituzionali. Il soccombente ricorre dunque in Cassazione. Nesso di strumentalità. Il Collegio ricorda che l’Amministrazione è legittimata a contribuire alla difesa di un suo dipendente imputato in un procedimento penale purchè sussista un interesse specifico al riguardo, condizione ravvisabile laddove ci sia l’imputabilità della stessa Amministrazione e dunque una diretta connessione di tale attività con il fine pubblico. Precisamente, la connessione dei fatti con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali va intesa nel senso che tali atti e fatti devono essere riconducibili all’attività funzionale del dipendente stesso in un rapporto di stretta dipendenza con l’adempimento dei propri obblighi, dovendo trattarsi di attività che necessariamente si ricollegano all’esercizio diligente della pubblica funzione . È poi indispensabile che ricorra un nesso di strumentalità tra l’adempimento del dovere e il compimento dell’atto censurato, ovvero che il dipendente non avrebbe potuto assolvere ai suoi compiti senza compiere quell’atto. In merito al conflitto di interesse, la Corte ricorda che tale elemento è rilevante indipendentemente dall’esito del giudizio penale e della relativa formula di assoluzione. Ne consegue che il dipendente penale assolto non ha diritto al rimborso delle spese legali qualora il giudice penale abbia evidenziato una grave violazione dei doveri d’ufficio. In conclusione, la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 7 novembre 2018 – 29 gennaio 2019, n. 2475 Presidente Giancola – Relatore Caiazzo Rilevato Che Con ricorso ex art. 705 bis c.p.c., D.L.F. , già vicepresidente della Regione Puglia, chiese al Tribunale di Bari l’accertamento del diritto al rimborso delle spese di patrocinio legale sostenute nel procedimento penale conclusosi con sentenza di assoluzione emessa dalla Corte d’appello di Bari, in ordine al reato di corruzione, con la formula il fatto non sussiste . Si costituì l’Amministrazione regionale della Puglia resistendo alla domanda. Con ordinanza del 2012 il Tribunale rigettò la domanda, e richiamando varia giurisprudenza sulla questione, affermò che il conflitto d’interesse, reso evidente dalla costituzione di parte civile della Regione Puglia, escludeva il diritto al richiesto rimborso. Il D.L. propose appello con atto del 28.6.12, invocando della L.R. n. 9 del 2000, art. 16, che aveva esteso agli amministratori regionali la norma del D.L. n. 67 del 1997, art. 18, comma 1, riguardante i dipendenti di Amministrazioni Statali. Con sentenza del 28.6.2013, la Corte d’appello di Bari ha respinto l’appello, escludendo l’applicabilità del suddetto art. 18, in quanto l’assoluzione del ricorrente - che, sebbene pronunciata con la formula assolutoria piena, era stata in realtà pronunciata a seguito di giudizio dubitativo d’insufficienza di prove - non poteva porsi in correlazione all’espletamento del servizio o all’assolvimento di obblighi istituzionali poiché afferente ad un’imputazione di corruzione che attiene ad un condotta contraria ai doveri d’ufficio, sicché era esclusa la strumentalità con l’adempimento del dovere, sussistendo altresì il conflitto d’interessi con l’ente di appartenenza del ricorrente, concretizzatosi con la costituzione di parte civile della Regione Puglia. Il D.L. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, illustrato con memoria. Resiste la regione Puglia con controricorso, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso. Ritenuto Che Con il primo motivo è denunziata la violazione della L.R. Puglia n. 9 del 2000, artt. 16 e segg. e del D.L. n. 67 del 1997, art. 18 -conv. nella L. n. 135 del 1997, avendo la Corte d’appello effettuato un’erronea ricognizione del principio dettato dal richiamato art. 18 atteso che la sentenza che aveva escluso la responsabilità del dipendente regionale, in ordine a fatti connessi alle sue funzioni, legittima di per sé il rimborso delle spese della difesa tecnica, a prescindere dalla questione del conflitto d’interessi, da ritenere del tutto irrilevante. Con il secondo motivo è denunziata la violazione delle stesse norme di cui al primo motivo nonché falsa applicazione del divieto di locupletatio cum aliena iactura , criticando la motivazione adottata dal giudice di secondo grado - anche in ordine al riferimento alle norme sul mandato e sulla gestione d’affari - per non aver riconosciuto il rimborso delle spese di difesa, venendo in rilievo una fattispecie de damno vitando e non di de lucro captando . Con il terzo motivo è dedotto il vizio di motivazione circa il fatto decisivo dell’imputazione o meno degli oneri derivanti dalla condotta del pubblico dipendente all’Amministrazione di appartenenza per effetto del conflitto d’interessi, nonché la violazione dell’art. 652 c.p.c., sugli effetti dell’assoluzione penale perché il fatto non sussiste nel giudizio civile. Al riguardo, il ricorrente si duole che il giudice d’appello ha male interpretato l’art. 652 c.p.c. - che esclude la condotta di reato in ogni suo elemento costitutivo-, nonché della inosservanza della stessa norma che avrebbe imposto l’esclusione di ogni forma di conflitto d’interessi preclusivo del rimborso delle spese legali. Con il quarto motivo, infine, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., nonché l’omesso esame delle questioni in tema di onere delle spese, poiché la Corte territoriale l’aveva condannato al pagamento delle spese di lite, pur in presenza di un’azione fondata sull’art. 652 c.p.c., per cui la soccombenza era da collegare ad un particolare interpretazione fornita dal giudice di merito. I primi due motivi, da esaminare congiuntamente poiché connessi, sono infondati. La Corte d’appello ha fatto corretta applicazione dei principi in materia, a tenore dei quali v. Cass. n. 2366/2016 , l’Amministrazione è legittimata a contribuire alla difesa del suo dipendente imputato in un procedimento penale sempreché sussista un interesse specifico al riguardo e tale interesse è ravvisabile qualora sussista l’imputabilità dell’attività all’Amministrazione stessa e dunque una diretta connessione di tale attività con il fine pubblico così anche Cass. n. 5718/2011 n. 24480/2013 Cass. n. 27871/ 2008 Cass., n. 20561/18 . La connessione dei fatti con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali va intesa nel senso che tali atti e fatti devono essere riconducibili all’attività funzionale del dipendente stesso in un rapporto di stretta dipendenza con l’adempimento dei propri obblighi, dovendo trattarsi di attività che necessariamente si ricollegano all’esercizio diligente della pubblica funzione, nonché occorre che vi sia un nesso di strumentalità tra l’adempimento del dovere e il compimento dell’atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti se non compiendo quel fatto o quell’atto Consiglio di Stato, 26 febbraio 2013, n. 1190, e 22 dicembre 1993, n. 1392 . Quanto all’ulteriore requisito costituito dall’assenza di un conflitto di interessi con l’Amministrazione di appartenenza, preme rilevare che questa Corte ha affermato che il conflitto d’interessi è rilevante indipendentemente dall’esito del giudizio penale e dalla relativa formula di assoluzione ne consegue che al dipendente comunale, assolto dall’imputazione, non compete il rimborso delle spese legali qualora il giudice penale abbia evidenziato che i fatti ascrittigli esulavano dalla funzione svolta e costituivano grave violazione dei doveri d’ufficio Cass. n. 2297/2014 . Pertanto, i motivi in esame non hanno fondamento in quanto vertono esclusivamente sulla censura della decisione impugnata che non avrebbe tenuto conto dell’assoluzione con la formula perché il fatto non sussiste , formula ritenuta erroneamente, di per sé, legittimante il rimborso delle spese legali della difesa nel processo penale invece, il presupposto cui è subordinato tale rimborso consiste nel fatto che la condotta di reato, come ascritta all’imputato, si ponga in violazione dei doveri d’ufficio, con conseguente dissoluzione del rapporto d’immedesimazione organica del dipendente con l’Ente di appartenenza. In altri termini, ai fini del rimborso richiesto è necessario che il fatto di reato oggetto dell’imputazione penale non configuri una fattispecie ontologicamente in conflitto con i doveri d’ufficio che determini ipso facto la legittimazione dello stesso Ente di costituirsi parte civile. Da tale argomentazione discende che l’assoluzione, ancorché con la formula piena , non legittima il richiesto rimborso il principio è stato ribadito da questa Corte, secondo il cui orientamento se l’accusa è quella di aver commesso un reato che contempli l’ente locale come parte offesa e, quindi, in oggettiva situazione di conflitto di interessi , il diritto al rimborso non sorge affatto, escludendo dunque che esso emerga solo nel momento in cui il dipendente sia stato, in ipotesi, assolto dall’accusa Cass., ord. n. 18256/18 in termini anche Cass. S.U., 4.6.2007 n. 13048 . Il terzo e quarto motivo sono parimenti destituiti di fondamento. Al riguardo, non sussiste il vizio di motivazione, avendo la Corte d’appello pronunciato con esaustive argomentazioni sull’insussistenza dei presupposti del rimborso. Né è configurabile la violazione dell’art. 652 c.p.c., richiamato impropriamente poiché tale norma disciplina solo gli effetti del giudicato relativo all’assoluzione penale nell’ambito dei giudizi, civile di risarcimento del danno derivante dal reato, e amministrativo, fondati sui medesimi fatti. Invero, l’efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione, è invocabile, ex art. 654 c.p.p., nel giudizio civile tra coloro che parteciparono al processo penale purché la soluzione del primo dipenda dagli stessi fatti materiali del secondo e la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa Cass., n. 16080/16 . Ne deriva chiaramente che l’art. 652 c.p.c., non è applicabile alla diversa questione del rimborso delle spese legali del dipendente assolto in giudizio penale il cui presupposto è subordinato al fatto che l’imputazione penale non riguardi fatti che siano espressione di grave violazione dei doveri d’ufficio come per il delitto di corruzione, oggetto del giudizio penale in esame , prospettandosi, in tali casi, anche un conflitto d’interessi dell’Ente di appartenenza, legittimato a chiedere il risarcimento dei danni nei confronti dello stesso dipendente. Nel caso concreto, la Corte d’appello ha correttamente rilevato che dalla motivazione penale assolutoria non emergeva la doverosità della condotta ascritta al ricorrente ed era dunque da escludere la strumentalità tra l’adempimento del dovere e il compimento dell’atto. Infine, il quarto motivo è infondato, poiché la condanna alle spese è stata correttamente pronunciata in virtù della soccombenza del D.L. . Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida nella somma di Euro 5200,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% per il rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.