È negligente il giudice che nei casi previsti dalla legge non provvede a scarcerare l’imputato

La disapplicazione della norma che impone la liberazione dell’indagato può essere giustificata solo dal ricorso ad una esimente connessa a circostanze di fatto o a provvedimenti che giustifichino la permanenza nella detenzione del soggetto e la sua mancata liberazione, dovendosi attribuire a gravissima negligenza del giudice ogni violazione del diritto alla libertà non dovuta a cause eccezionali ovvero già determinate per legge.

E’ quanto affermato dalle SS. UU. della Corte di Cassazione con sentenza n. 1544 depositata il 21 gennaio 2019. Il fatto. Un giudice dell’udienza preliminare territorialmente competente veniva assolto - con sentenza del Consiglio Superiore della Magistratura - dall’illecito disciplinare previsto dal codice sugli illeciti disciplinari dei magistrati d.lgs. n. 109/2006 per grave violazione degli artt. 306 c.p.p. e 91 disp. att. c.p.p. determinata da negligenza inescusabile, per non avere scarcerato una detenuta, nonostante la decorrenza dei termini di scarcerazione preventiva. In particolare, la Sezione disciplinare rilevava che in fase di esecuzione del provvedimento di carcerazione, era avvenuto l’interrogatorio per rogatoria con assegnazione del fascicolo all’incolpato il quale aveva provveduto prontamente alla fissazione dell’udienza preliminare nella quale era stata accolta la richiesta di giudizio abbreviato, con la conseguenza che agli originari tre mesi seguiva l’apertura di un ulteriore termine di tre mesi di custodia cautelare. Da ciò la Sezione disciplinare faceva discendere la considerazione che il ritardo complessivo da computare era di soli quattro giorni e non già di ventisei giorni come contestato. Con la conseguenza, che secondo i giudicanti, in applicazione della norma del citato codice sugli illeciti disciplinari, non vi era stata una lesione dell’immagine e del prestigio del magistrato, trattandosi, peraltro, di un unico ed isolato episodio. Il Ministero della Giustizia e la Procura Generale proponevano ricorso per Cassazione. Gli ermellini, hanno ritenuto fondato l’unico motivo di ricorso proposto per violazione e/o falsa applicazione di norme di cui al codice sugli illeciti disciplinari dei magistrati, nonché quelle del codice di rito, sul rilievo che la definizione assolutoria dell’incolpato per scarsa rilevanza si fonda sull’errato argomento che l’incolpato, nella veste di GIP, sarebbe incorso in un ritardo nel provvedere alla scarcerazione dell’imputata di soli quattro giorni, poiché essendo iniziata l’esecuzione della custodia in carcere la scadenza del termine di fase andava individuata trascorsi i previsti tre mesi non potendo ritenersi la legittimità della persistenza dello stato cautelare oltre i termini di fase, in quanto non sanata dal passaggio ad una fase successiva. In particolare, nel caso all’esame, secondo i giudici di legittimità, la Sezione disciplinare ha chiaramente ritenuto di attribuire carattere dirimente, al fine di ravvisare la sussistenza dell’esimente in questione, nel computo dei termini massimi di custodia cautelare, al cumulo di quelli della prima fase d’indagine con quelli della nuova fase, avviata con l’accoglimento dell’istanza di giudizio abbreviato, così riducendo il tempo da valutare quale detenzione senza titolo a soli quattro giorni e non già ai complessivi ventisei giorni originariamente contestati. Peraltro, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza penale di legittimità in materia di misure cautelari perché possano cumularsi i termini di fasi processuali diverse occorre, quale presupposto indefettibile, che il termine della fase in corso non sia scaduto, altrimenti si determina la perdita di efficacia della misura stessa, in quanto prevale comunque, per espressa previsione normativa, l’interesse dell’indagato alla libertà. Concludendo. Ciò posto i giudici concludono affermando che in via di principio il comportamento del magistrato che – come nella specie - omette di rilevare la scadenza dei termini custodiali è sicuramente idoneo ad integrare la grave violazione di legge” derivante da palese negligenza inescusabile” violativa anche del dovere di diligenza” dei magistrati nell’esercizio delle funzioni di cui all’art. 1, co, 1 del citato decreto legislativo sugli illeciti disciplinari, in quanto lesivo del diritto fondamentale di libertà del soggetto trattenuto in carcere oltre i termini di legge.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 17 aprile 2018 – 21 gennaio 2019, n. 1544 Presidente Petitti – Relatore Falaschi Ritenuto in fatto Il dott. B.A. , nella qualità di giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Foggia, con sentenza della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura del 24 ottobre 2017, veniva assolto dall’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, lett. a e g , per grave violazione dell’art. 306 c.p.p. e art. 91 disp. att. c.p.p., determinata da negligenza inescusabile , per non avere scarcerato una detenuta, nonostante la decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Rilevava la Sezione disciplinare che eseguito il provvedimento di carcerazione il 26.10.2012, l’interrogatorio per rogatoria era avvenuto il 29.10.2012, con trasmissione, in pari data, per competenza dal GIP del Tribunale di Teramo, e il fascicolo era stato assegnato all’incolpato solo il 19.11.2012 tale magistrato, a seguito di astensione di altro magistrato, in data 30.01.2013, aveva provveduto prontamente alla fissazione dell’udienza preliminare in tale udienza aveva poi accolto la richiesta di giudizio abbreviato, con la conseguenza che agli originari 3 mesi seguiva l’apertura di un ulteriore termine di tre mesi di custodia cautelare decorrente dal medesimo giorno. Da ciò la Sezione disciplinare faceva discendere la considerazione che il ritardo complessivo da computare era di soli 4 giorni e non già di 26 giorni come contestato per essere stata rimessa in libertà la detenuta con provvedimento assunto all’udienza del 20.02.2013, data in cui veniva pronunciata sentenza, a seguito di istanza della medesima difesa di rimessione in libertà , per cui limitato il ritardo a detto breve periodo, ai sensi dell’art. 3 bis D.Lgs. n. 109 del 2006 inserito dalla L. 24 ottobre 2006, n. 269, art. 1, comma 3 , non vi era stata una lesione dell’immagine e del prestigio del magistrato, trattandosi, peraltro, di un unico ed isolato episodio. Il Ministero della giustizia e la Procura Generale hanno proposto separati ricorsi avverso la predetta assoluzione, entrambi sulla base di un unico complessivo motivo, cui ha resistito il B. con controricorso. Il Ministero ha anche depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c. in prossimità della pubblica udienza. Considerato in diritto Con unico motivo entrambi i ricorrenti lamentano la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. g e art. 3 bis, nonché dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b ed e in conseguenza di erronea interpretazione di legge processuale penale, segnatamente dell’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. a , n. 1 oltre a mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Ad avviso dei ricorrenti la definizione assolutoria dell’incolpato per scarsa rilevanza si fonderebbe sull’errato argomento per il quale il dott. B. , nella veste di giudice delle indagini preliminari sarebbe incorso in un ritardo nel provvedere alla scarcerazione dell’imputata di soli quattro giorni, giacché essendo iniziata l’esecuzione della custodia in carcere il 26.10.2012, la scadenza del termine di fase andava individuata nella data del 26.01.2013, non potendo ritenersi la legittimità della persistenza dello stato cautelare oltre i termini di fase, in quanto non sanata dal passaggio ad una fase processuale diversa. La censura è fondata. L’esimente di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis si applica - sia per il suo tenore letterale che per la sua collocazione sistematica - a tutte le ipotesi di illecito disciplinare, allorché la fattispecie tipica sia stata realizzata ma il fatto, per particolari circostanze anche non riferibili all’incolpato, non risulti in concreto capace di ledere il bene giuridico tutelato, secondo una valutazione che costituisce compito esclusivo della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, soggetta a sindacato di legittimità soltanto ove viziata da un errore di impostazione giuridica oppure motivata in modo insufficiente o illogico cfr Cass., Sez. Un., 29 marzo 2013 n. 7934 Cass., Sez. Un., 26 settembre 2017 n. 2803 . Nel caso all’esame la Sezione disciplinare ha chiaramente ritenuto di attribuire carattere dirimente, al fine di ravvisare la sussistenza della esimente de qua, nel computo dei termini massimi di custodia cautelare, al cumulo di quelli della prima fase d’indagine con quelli della nuova fase, avviata con l’accoglimento della istanza di giudizio abbreviato, così riducendo il tempo da valutare quale detenzione senza titolo a solo quattro giorni dal 26.01 al 30.1 e non già ai complessivi ventisei giorni originariamente contestati dal 26.1 al 20.02 . Come è noto, la questione riguardante la individuazione della ipotesi - tra quelle previste dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2 nella quale si debba far rientrare il comportamento del magistrato che ometta di disporre o di richiedere la revoca della custodia cautelare dopo che i termini massimi previsti dalla legge sono scaduti ha trovato da tempo una soluzione consolidata e costante in sede di Sezioni Unite vedi, per tutte Cass. Sez. Un. 12 marzo 2015 n. 4954 21 maggio 2014 n. 11228 27 novembre 2013 n. 26548 22 aprile 2013 n. 9691 11 marzo 2013 n. 5943 . Ciò posto, la condotta omissiva ascritta al controricorrente consiste nell’infrazione di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. g , in combinato disposto con la lett. a del medesimo art. 2, per avere omesso di disporre la scarcerazione di una detenuta nonostante la scadenza dei termini custodiali. L’assunto della Sezione disciplinare, secondo cui la detenuta sarebbe stata legittimamente sottoposta a custodia cautelare in epoca prossima allo scadere dei termini della prima fase avendo avuto ingresso la seconda fase del procedimento, è privo di fondamento giuridico. È incontestato che essendo iniziata l’esecuzione della custodia cautelare in carcere in data 26 ottobre 2012, la scadenza del termine di fase andava individuato nel giorno 26 gennaio 2013. Per orientamento consolidato della giurisprudenza penale di questa Corte, in materia di misure cautelari perché possano cumularsi i termini di fasi processuali diverse occorre, quale presupposto indefettibile, che il termine della fase in corso non sia scaduto, altrimenti si determina la perdita di efficacia della misura stessa, in quanto prevale comunque, per espressa previsione normativa, l’interesse dell’indagato alla libertà. Infatti dal combinato disposto dell’art. 274 c.p.p. con l’art. 303 c.p.p. emerge che i termini di custodia cautelare sono cadenzati in relazione alle singole fasi del procedimento e che l’attivazione dei termini della fase successiva presuppone che non siano già decorsi quelli della fase precedente e che, perciò, l’indagato non abbia già conseguito il diritto alla scarcerazione automatica. Secondo il delineato continuum così espresso, il passaggio, dunque, ai termini della fase successiva comporta che l’organo giurisdizionale abbia reso il provvedimento all’uopo richiesto dalla legge nella persistente vigenza dei termini normativamente stabiliti per la fase precedente. Tant’è che per i casi eccezionali, in cui, per fatto e circostanze non addebitabili a colpevole inerzia dell’organo inquirente, quel provvedimento non sia stato possibile richiedere nei termini di legge e, tuttavia, sussiste persiste il periculum libertatis, vi è l’istituto della proroga dei termini della custodia cautelare nel corso delle indagini preliminari, che obbedisce proprio alla esigenza di disciplinare siffatti casi questo è requisito fondamentale per la privazione della libertà dell’indagato e connota, senza distinzioni, tutte le esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p. v. in termini, Cass., Sez. Un. pen., 11 settembre 2001 n. 33541 . D’altra parte la scarcerazione dell’imputato per decorrenza dei termini di fase della custodia cautelare alla quale non si sia tempestivamente provveduto deve essere disposta nella fase successiva c.d. scarcerazione ora per allora , onde tutelare l’interesse concreto dell’imputato a un provvedimento cui consegua il riacquisto della libertà cfr Cass. pen. 18 febbraio 2008 n. 18148 . Ciò posto e considerato che in via di principio il comportamento del magistrato che omette di rilevare la scadenza dei termini custodiali è sicuramente idoneo a integrare la grave violazione di legge derivante da palese negligenza inescusabile , violativa anche del dovere di diligenza dei magistrati nell’esercizio delle funzioni di cui all’art. 1, comma 1 del decreto legislativo sugli illeciti disciplinari del 2006, in quanto lesivo del diritto fondamentale di libertà del soggetto trattenuto in carcere oltre i limiti di legge, si osserva che per consolidata giurisprudenza di questa Corte la disapplicazione della norma che impone la liberazione dell’indagato può essere giustificata solo dal ricorso di una esimente connessa a circostanze di fatto o a provvedimenti che giustifichino la permanenza nella detenzione del soggetto e la sua mancata liberazione, dovendosi attribuire a gravissima negligenza del giudice ogni violazione del diritto di libertà non dovuta a cause eccezionali ovvero già determinate per legge v. in termini, Cass. Sez. Un. 29 luglio 2013 n. 18191 In tale prospettiva nessun accertamento risulta svolto nella vicenda descritta, considerato che sussiste un danno ingiusto anche nell’ipotesi di limitazione della libertà personale con la misura degli arresti domiciliari. Da quanto suddetto si desume la erroneità dei presupposti su cui il giudice disciplinare ha fondato l’applicabilità nella specie del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 3-bis, valutazione che peraltro ben potrà essere svolta sotto altri profili. In conclusione, va cassata la decisione impugnata e la causa rinviata alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, la quale procederà al riesame e, quindi, deciderà nuovamente adeguandosi ai richiamati principi. Le spese del giudizio di legittimità vanno interamente compensate fra le parti stante la eccezionalità della questione, con accezione da interpretarsi alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 2018, che ha reintrodotto il riferimento alle gravi ed eccezionali ragioni . P.Q.M. La Corte, decidendo a sezioni unite, accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia per il riesame alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura dichiara interamente compensate fra le parti le spese di legittimità.