Riconoscimento della protezione umanitaria: non basta dedurre l’instabilità del Paese di provenienza

Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, è onere dell’istante dedurre specificatamente le lesioni alla sfera dei propri diritti personalissimi poiché sul giudice non incombe il dovere di cooperazione nell’accertamento dei fatti rilevanti nel caso specifico.

Così ribadito dal Supremo Collegio con l’ordinanza n. 231/19, depositata l’8 gennaio a fronte del ricorso presentato da un cittadino senegalese. Il caso. Prima in Tribunale e poi in Appello veniva rigettata la richiesta avanzata da un cittadino senegalese, circa il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. L’istante ricorre in Cassazione lamentando che i Giudici del riesame, a fronte del significativo livello di instabilità socio-economica del Senegal e dell’integrazione socio-lavorativa intrapresa in Italia dallo stesso istante, non avessero adempiuto al dovere di cooperazione nell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria. Un esame specifico del caso concreto. La S.C. in primo luogo ribadisce che il tema della violazione dei diritti umani nel Paese di provenienza rappresenta un elemento significativo e dunque da prendere in considerazione nella definizione della domanda di protezione umanitaria avanzata dal richiedente straniero. Tuttavia, la violazione dei diritti umani – violazione che, nel caso di specie, veniva lamentata circa il diritto alla salute e all’alimentazione nel territorio senegalese – deve necessariamente essere valutata correlativamente alla vicenda personale dell’istante in caso contrario una generica e astratta” valutazione tenderebbe a considerare unicamente la situazione attinente al Paese d’origine. Tale orientamento del Supremo Collegio demanda, dunque, al giudice la verifica delle specifiche peculiarità attinenti al caso concreto come, ad esempio, le ragioni che indussero lo straniero ad abbandonare il proprio Paese e le circostanze di vita che, anche in ragione della sua storia personale, egli si troverebbe a dover affrontare nel medesimo Paese , circostanze che devono essere indicate dall’istante pena, l’impossibilità per il giudice di indurle d’ufficio nel giudizio. In conclusione, poiché l’istante ha mancato di dedurre specifiche lesioni della sfera dei propri diritti personalissimi, il S.C. rigetta il ricorso non riscontrando alcuna censura nel provvedimento impugnato.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza 4 dicembre 2018 – 8 gennaio 2019, n. 231 Presidente Scaldaferri – Relatore Falabella Fatti di causa 1. - È impugnata per cassazione la sentenza con cui la Corte di appello di Bari ha respinto il gravame proposto da S.F. avverso l’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c. pronunciata dal Tribunale del capoluogo pugliese il gravame aveva ad oggetto il mancato riconoscimento, in capo all’istante, dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. 2. - Il ricorso si fonda su di un unico motivo. Resiste con controricorso il Ministero dell’interno. Ragioni della decisione 1. - Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2 Cost., dell’art. 11 del Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966, ratificato con L. n. 881 del 1977, in relazione all’art. 5, comma 6, t.u. immigrazione, e violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 32 nonché violazione del t.u. immigrazione, art. 19 lamenta, altresì, l’omesso esame della domanda di protezione umanitaria. Il ricorrente contesta, in sintesi, l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, circa l’insussistenza delle condizioni di vulnerabilità atte a dar ragione della suddetta forma di protezione e rileva come egli avesse intrapreso un meritevole percorso di integrazione socio-lavorativa in Italia percorso che la Corte di merito aveva mancato di valorizzare. Sottolinea come la situazione del Senegal si caratterizzasse per un significativo livello di instabilità e di conflittualità interna e come in quel paese i diritti fondamentali non fossero adeguatamente tutelati. Evidenzia, in proposito, come in materia di protezione internazionale il giudice debba svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, essendo svincolato da preclusioni processuali e risultando munito del potere di assumere informazioni e di acquisire tutta la documentazione necessaria alla decisione di cui è investito in tal senso l’istante imputa al giudice di appello di non aver adempiuto al dovere di cooperazione cui lo stesso era tenuto nell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria. 2. - Il motivo è infondato, sicché il ricorso va respinto. Premesso che il mancato esame della domanda di protezione umanitaria - astrattamente rilevante, sul piano dell’art. 112 c.p.c., quale vizio di omessa pronuncia - non trova riscontro, stante la decisione espressamente assunta sul punto dalla Corte di appello, deve osservarsi che l’istante pare non avvedersi di un dato dirimente ai fini che qui interessano. Il ricorrente ha molto insistito, nell’atto di impugnazione, sul punto della situazione del Senegal richiamando quanto dedotto in appello, ha sottolineato come tale situazione fosse attualmente connotata da gravissime ed oggettive difficoltà economiche, di diffusa povertà e di limitato accesso per la maggior parte della popolazione ai più elementari diritti inviolabili della persona, tra cui il diritto alla salute e il diritto all’alimentazione . Lo stesso istante ha tuttavia mancato di dedurre alcunché quanto alla specifica lesione della sfera dei propri diritti personalissimi, limitandosi alla formulazione di un cenno, del tutto generico, non comprensibile, ad una menomazione delle proprie condizioni di salute pag. 4 del ricorso e a un richiamo, altrettanto laconico, al rischio di subire nuove violenze profilo, quest’ultimo, rispetto al quale risulterebbe comunque insuperabile l’accertamento dei giudici di merito, i quali hanno motivatamente escluso la credibilità della narrazione del richiedente circa l’asserita persecuzione che lo stesso avrebbe subito per motivi religiosi . Ora, il tema della generale violazione dei diritti umani nel Paese di provenienza costituisce senz’altro un necessario elemento da prendere in esame nella definizione della posizione del richiedente tale elemento, tuttavia, deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale dell’istante, perché altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 2007, art. 5, comma 6, che nel predisporre uno strumento duttile quale il permesso umanitario, demanda al giudice la verifica della sussistenza dei seri motivi attraverso un esame concreto ed effettivo di tutte le peculiarità rilevanti del singolo caso, quali, ad esempio, le ragioni che indussero lo straniero ad abbandonare il proprio Paese e le circostanze di vita che, anche in ragione della sua storia personale, egli si troverebbe a dover affrontare nel medesimo Paese, con onere in capo al medesimo quantomeno di allegare i suddetti fattori di vulnerabilità Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455 . Infatti, la proposizione del ricorso al tribunale nella materia della protezione internazionale dello straniero non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio Cass. 28 settembre 2015, n. 19197 . Ne consegue che la doglianza formulata dal ricorrente, connotata dalla richiamata genericità, non poteva indurre il giudice del merito all’auspicata pronuncia di accoglimento e la carenza del quadro assertivo non giustificava nemmeno la spendita, da parte dello stesso, dei poteri istruttori officiosi a lui assegnati nel giudizio vertente sulle diverse forme del diritto di asilo poteri che, del resto, proprio in ragione della indeterminatezza della condizione di vulnerabilità dell’istante, non si sarebbe saputo ove indirizzare . La censura va pertanto disattesa, a prescindere da ogni approfondimento della questione relativa all’immediata applicabilità, o meno, delle modifiche recentemente introdotte col D.L. n. 113 del 2018. 3. - Le spese di giudizio seguono la soccombenza. Parte ricorrente, in quanto ammessa al patrocinio a spese dello Stato, non è tenuta al pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato contemplato dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00, oltre alle spese prenotate a debito.