Convivenza more uxorio e richieste di restituzione di somme prestate: il riparto dell’onere probatorio

La Suprema Corte, partendo dal caso di specie, approfondisce le tematiche afferenti al rapporto tra la convivenza more uxorio e l’onus probandi in caso di presenza di atto di ricognizione di debito è sull'autore della dichiarazione che ricade l'onere di provare l’inesistenza, l’invalidità o l'estinzione del rapporto fondamentale.

Il caso. La vicenda portata alla cognizione della Suprema Corte sentenza n. 11766/2018, depositata il 15 maggio faceva seguito al ricorso di una donna contro la sentenza della Corte territoriale che, riformando la pronuncia di primo grado, la condannava a pagare all'ex convivente, a titolo di regresso ex art. 1950 c.c., la somma di euro 5.388,15 oltre che a restituire un prestito” dal primo erogato le nella misura di € 37.500,00. In punto di fatto, la ricorrente riferiva di aver intrattenuto per circa 6 anni una convivenza more uxorio con il resistente, cimentandosi anche in una comune attività imprenditoriale per il sostentamento della vita di coppia, con scelta caduta su un negozio di abbigliamento per la cui apertura veniva stipulato un mutuo chirografario sottoscritto da entrambi ma, in relazione al quale, era l'uomo che rilasciava pure duplice garanzia fideiussoria. Pertanto secondo la ricorrente entrambi i conviventi si erano occupati, con le stesse mansioni e pari capacità di gestione, dell'esercizio commerciale suddetto, contribuendo anche economicamente alla vita di coppia nel limite delle proprie risorse. Terminata la relazione affettiva, entrambi cedevano ad un terzo acquirente l'attività commerciale creata, senza che nessuna pretesa economica, in occasione della vendita, fosse avanzata dall'uomo. Successivamente, però, veniva radicato da quest'ultimo un giudizio cautelare per la tutela del proprio diritto, ritenendo il resistente che la donna fosse propria debitrice in virtù delle fideiussioni da egli prestate oltre che per asseriti prestiti personali” ammontanti, appunto, agli € 37.500,00. Denegata la richiesta cautelare, il Tribunale respingeva anche l'azione volta all'accertamento del diritto dell’uomo a rimanere indenne e manlevato da qualsivoglia conseguenza pregiudizievole derivante dalle fideiussioni prestate o, in subordine, ad ottenere la ripetizione di tutte le somme che per effetto delle stesse fosse stato ritenuto a pagare. Ma in secondo grado, proposto l'appello, la Corte competente provvedeva in accoglimento del gravame nei termini suddetti e ciò sul rilievo della inesistenza, nel caso di specie, degli estremi per l'accertamento di una società di fatto” tra le parti. Inoltre, la sentenza della Corte di Appello, impugnata in Cassazione, sottolineava che la veste di fideiussore dell'uomo aveva un formale riscontro documentale che non era possibile superare sulla base di considerazioni meramente indiziarie, rappresentate dalla mera esistenza di una convivenza more uxorio . La prova documentale l’atto di ricognizione di debito. Con particolare riferimento, poi, alla domanda di restituzione del prestito, la stessa veniva accolta sulla base di un prospetto contabile che riportava le somme di denaro che la donna avrebbe dovuto restituire al convivente e che da quest’ultimo era stato prodotto in giudizio. La particolarità di questo documento è che risultava sottoscritto dalla stessa ricorrente per come riconosciuto in occasione dell'interrogatorio formale evenienza che ne aveva avvalorato la natura di atto formale di riconoscimento di debito e non atto meramente contabile. Ricognizione di debito. I motivi di gravame e la decisione della Suprema Corte. A seguito di questa decisione la donna contestava, ricorrendo agli Ermellini, che il documento in parola potesse considerarsi espressivo di uno specifico intento ricognitivo, trattandosi di un foglio contenente confusi dati numerici, nemmeno sommati algebricamente e, comunque, interpretati senza essere posti in relazione al comportamento delle parti ed alla loro volontà. Ma la censura proposta in questi termini viene rigettata dalla Suprema Corte e ciò, soprattutto, in ragione delle seguenti considerazioni in diritto. Secondo la Corte sul punto va ribadito che la ricognizione di debito, come qualunque manifestazione di volontà negoziale, può risultare anche da un comportamento tacito, purché inequivoco, tale essendo il contegno che nessuno terrebbe se non al fine di riconoscersi debitore, e senza altro scopo se non quest'ultimo, dovendo -inoltre compiersi, nell'interpretazione dell'atto ricognitivo, una ricostruzione dell’intenzione delle parti afferente, in via esclusiva, alla volontà espressa dal dichiarante e non certo a quello del destinatario delle dichiarazioni. D'altra parte, spostando l'analisi dal piano della astratta idoneità ad esprimere l'intento ricognitivo, propria della dichiarazione suddetta, a quello degli effetti destinati a scaturire da essa, la Corte di Cassazione ribadisce come l'odierna ricorrente censura che il fatto della astrazione processuale, conseguente alla avvenuta ricognizione, obbligasse” il Giudice di appello a compiere l'accertamento del rapporto sottostante, ciò che il medesimo avrebbe dovuto fare senza poter prescindere dai legami esistenti tra le parti , in particolare della supposta comunione di fatto tra i già conviventi more uxorio . Ma, a tal proposito, per la Corte è sufficiente osservare come la già ricordata astrazione processuale conseguente alla ricognizione si sostanzia in una relevatio ab onere probandi che, cioè, dispensa il destinatario delle dichiarazioni dalla necessità di provare il rapporto sottostante al debito riconosciuto, che si presume fino a prova contraria. Tanto salvo che la parte da cui provenga dimostri che il rapporto medesimo non sia stato instaurato oppure sia sorto invalidamente o, ancora che esista una condizione od un altro elemento ad esso attinente che possa – comunque incidere sulla obbligazione derivante dal riconoscimento. Conseguentemente, non era il giudice a dover accertare quale fosse il rapporto sottostante ma era la ricorrente a doverne dimostrare la inesistenza, la estinzione oppure la invalidità. Infine, la Suprema Corte rigetta anche la motivazione secondo cui erronea era la decisione della Corte territoriale per aver escluso che i versamenti delle somme, da parte dell'uomo, potessero costituire adempimento di obbligazioni naturali verso la convivente. Secondo gli Ermellini se, infatti, è innegabile che le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente more uxorio effettuate nel corso del rapporto configurino l'adempimento di un'obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza, tale conclusione non giova alla ricorrente. Infatti, sarebbe stato suo onere dimostrare che gli importi pari agli € 37.500,00 risultanti dal documento dalla stessa sottoscritto e dei quali il resistente aveva reclamato la restituzione, fossero proprio quelli corrispondenti, invece, ad attribuzioni compiute dallo stesso in adempimento degli obblighi nascenti dal rapporto di convivenza. Sul punto, La Suprema Corte rileva che il destinatario della dichiarazione ex art. 1988 c.c., stante la astrazione della causa debendi , allorché agisca per l'adempimento delle obbligazioni, ha solo l'onere di provare la ricorrenza della promessa o della ricognizione di debito, e non anche la esistenza del rapporto giuridico da cui essa trae origine, mentre, invece, incombe sull'autore della dichiarazione l'onere di provare la inesistenza, la invalidità o l'estinzione del rapporto fondamentale. Pertanto, risulta di palmare evidenza che non è sufficiente perché detto onere possa dirsi adempiuto, che l’autore della dichiarazione affermi e dimostri che è stato estinto un altro rapporto fondamentale, essendo invece indispensabile non tanto la dimostrazione che in precedenza esisteva un rapporto di debito e credito e che questo, per qualunque motivo, si è estinto, ma che esisteva coincidenza concreta tra tale rapporto e quello presunto per effetto della ricognizione di debito e non una mera compatibilità tra i due titoli .

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 24 ottobre 2017 – 15 maggio 2018, n. 11766 Presidente Vivaldi – Relatore Guizzi Fatti di causa 1. S.F. ricorre per cassazione, sulla base di quattro motivi, avverso la sentenza n. 1526/14 del 17 giugno 2014 della Corte di Appello di Bologna, che - riformando la sentenza pronunciata dal Tribunale di Ravenna n. 25/08 del 20 maggio 2008, in accoglimento del gravame proposto da P.E. - ha condannato l’odierna ricorrente sia a pagare al predetto P. , a titolo di regresso ex art. 1950 cod. civ., la somma di Euro 5.388,15 oltre interessi, nella misura legale, dal 22 gennaio 2007 al saldo , sia a restituirgli, ciò che qui interessa, un prestito dal primo erogatole nella misura di Euro 37.500,00. 2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di aver intrattenuto, per circa sei anni dal 1998 al 2004 , una convivenza more uxorio con il P. , cimentandosi anche in una comune attività imprenditoriale per il sostentamento della vita di coppia, con scelta caduta su un negozio di abbigliamento, per la cui apertura veniva stipulato - in data 4 novembre 2000 - un mutuo chirografario, sottoscritto da entrambi i conviventi, ma in relazione al quale il P. rilasciava pure duplice garanzia fideiussoria. Assume, dunque, l’odierna ricorrente che ambedue i conviventi si sarebbero occupati, con le stesse mansioni e pari capacità di gestione, dell’esercizio commerciale suddetto, contribuendo, inoltre, economicamente alla vita di coppia nei limiti delle proprie risorse. Terminata la relazione affettiva nel giugno 2004, la S. ed il P. - secondo quanto si legge sempre nel ricorso - cedevano ad un terzo acquirente, nei primi mesi del 2005, l’attività commerciale creata, senza che nessuna pretesa economica, in occasione dell’operazione di vendita, fosse avanzata dal P. . Radicato da quest’ultimo un giudizio cautelare per la tutela del suo diritto, ritenendo il P. che la S. fosse propria debitrice in forza delle fideiussioni da esso prestate, oltre che in virtù di prestiti personali ammontanti ad Euro 37.500,00, denegata la richiesta cautelare, l’adito Tribunale respingeva anche l’azione volta all’accertamento del diritto dell’attore sia a rimanere indenne e manlevato da qualsivoglia conseguenza pregiudizievole derivante dalle fideiussioni prestate o, in subordine, ad ottenere la ripetizione di tutte le somme che, per effetto delle stesse, fosse stato tenuto a pagare , sia ad ottenere la restituzione dei prestiti effettuati. Proposto appello dal P. , la Corte felsinea, in accoglimento del gravame, provvedeva nei termini sopra riassunti, e ciò sul rilievo dell’inesistenza, nel caso di specie, degli estremi per l’accertamento di una società di fatto tra le parti, ovvero per affermare l’esistenza di una comunione di fatto dal punto di vista patrimoniale estesa anche a rapporti estranei all’instaurata convivenza . Inoltre, quanto alla prima domanda attorea, la sentenza oggi impugnata sottolineava che la veste di fideiussore del P. ha un formale riscontro documentale che non è possibile superare sulla base di considerazioni meramente indiziarie . Con particolare riferimento, poi, alla domanda di restituzione del prestito, la stessa veniva accolta sulla base di un prospetto contabile, recante l’indicazione dei soldi resi ad E. e da dare ad E. , dandosi atto come siffatta scrittura fosse stata sottoscritta dalla S. che provvedeva al riconoscimento di sottoscrizione e contenuto della stessa, in occasione dell’interrogatorio formale , evenienza che ne avrebbe avvalorato la natura di atto formale e di riconoscimento di debito e non meramente contabile . 3. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna ha proposto ricorso per cassazione la S. , sulla base - come detto di quattro motivi. 3.1. Con il primo motivo, si deduce - ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 , cod. proc. civ. - violazione degli artt. 1324, 1362 e 1963 c.c. e 2697 cod. civ., nonché degli artt. 113 e 115 cod. proc. civ. , sul rilievo che sarebbero stati disattesi i criteri ermeneutici di interpretazione indicati dagli artt. 1362 cod. civ. e ss. , nonché per essere stata omessa la ricostruzione della volontà delle parti , oltre che per essere stato posto a fondamento della decisione una prova non proposta dalle parti . In particolare, si assume che il summenzionato prospetto contabile consisterebbe in un foglio non sottoscritto, contenente confusi dati numerici, nemmeno sommati algebricamente e comunque interpretati senza essere posti in relazione al comportamento delle parti e alla loro volontà . Più esattamente, la completa assenza di sottoscrizione , comporterebbe che il giudice di appello, in violazione di quanto imposto dall’art. 115 cod. proc. civ. , avrebbe posto a fondamento della propria decisione un documento inesistente, mai offerto in produzione dalle parti . Inoltre, la decisione impugnata avrebbe riconosciuto valore ricognitivo ad un calcolo tot. Euro 37.500,00 che non ha neppure alcuna connessione con i dati numerici che lo precedono, sommando algebricamente i quali si giunge ad un risultato differente e pure inferiore . Infine, si nega che da detto documento possa trasparire una specifica intenzione ricognitiva a favore del P. , atteso che - secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità - per l’applicazione dell’art. 1988 cod. civ. sarebbe necessaria la consapevolezza del riconoscimento desunta da una dichiarazione univoca, tale da escludere che la relativa dichiarazione possa avere finalità diverse o che il riconoscimento resti condizionato da elementi estranei alla volontà del debitore. Con specifico riferimento a tale ultimo profilo di doglianza, va rimarcato come la ricorrente censuri la sentenza impugnata giacché avrebbe omesso di considerare che la dichiarazione de qua era riferita ad un’attività gestita in comune dalle parti il negozio di abbigliamento , come sarebbe stato agevole accertare sulla base di una serie di dati, idonei a rivelare la effettiva volontà delle parti, e la cui mancata valorizzazione integrerebbe, dunque, violazione dei criteri ermeneutici indicati dalla legge. Rileverebbero, infatti, in tal senso la disponibilità, da parte del P. , del conto corrente intestato alla ditta S.F. , avendo delega completa ad operare su di esso, con potere di emissione di assegni la conduzione e definizione, sempre ad opera del medesimo, degli accordi per la cessione a terzi dell’azienda l’espresso consenso, manifestato, per iscritto, a tale operazione, senza avanzare alcuna rivendicazione in merito a propri asseriti crediti verso la S. la fattiva ed assidua presenza del P. nella gestione dell’esercizio commerciale. 3.2. Il secondo motivo, sempre prospettato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 , cod. proc. civ., ipotizza violazione e falsa applicazione degli artt. 1987 e 1988 cod. civ. , segnatamente laddove la sentenza impugnata ha ritenuto che il suddetto prospetto contabile fosse di per sé fonte di obbligazione di pagamento , così omettendo ogni accertamento sul rapporto in cui detta dichiarazione risultava intervenuta. Sul presupposto secondo cui la promessa di pagamento e la ricognizione di debito non costituiscono promesse unilaterali ai sensi dell’art. 1987 cod. civ. e dunque non sono fonti di obbligazioni , essendo la loro efficacia limitata al tema della prova del rapporto fondamentale che ne costituisce l’oggetto , producendo solo una inversione dell’onere probatorio circa l’esistenza dell’obbligazione sottostante , la ricorrente censura la sentenza impugnata perché avrebbe disatteso tali principi. In base ad essi, si ipotizza nel ricorso, il riconoscimento del debito comporta unicamente l’inversione dell’onere della prova , e ciò in quanto la sua esistenza, estensione, validità ed efficacia dipende dalla prova del rapporto obbligatorio in cui interviene . Orbene, nel caso di specie, la Corte di Appello di Bologna avrebbe completamente omesso l’accertamento del rapporto sottostante alla ritenuta ricognizione , e ciò prescindendo dai legami esistenti tra le parti , ed in particolare omettendo ogni opportuno accertamento con riguardo alla comunione di fatto dal punto di vista patrimoniale , esistente tra i conviventi more uxorio ed estesa anche ai rapporti estranei all’instaurata convivenza . 3.3. Il terzo motivo è, invece, proposto simultaneamente ai sensi dei nn. 3 e 5 del comma 1 dell’art. 360 cod. proc. civ., denunciandosi, da un lato, violazione e falsa applicazione degli artt. 2034 e 430, comma 2, cod. civ., nonché, dall’altro, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero l’esistenza di obbligazioni naturali a carico del P. , statuendo erroneamente la Corte felisinea il diritto dello stesso a ripetere quanto pagato in forza del loro adempimento. Si censura il fatto che il giudice di appello, nell’ambito di un’interpretazione riduttiva dei doveri morali e sociali ravvisabili nelle relazioni more uxorio, avrebbe erroneamente escluso che i versamenti di somme da parte del P. potessero costituire adempimento di detti obblighi, disattendendo quella giurisprudenza di legittimità che nega il diritto del convivente di ripetere le eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso o in relazione alla convivenza. La sentenza impugnata, inoltre, non avrebbe ritenuto opportuno valutare l’adeguatezza delle elargizioni rispetto alle consistenze patrimoniali del P. e della S. , limitandosi a vedere il rapporto tra le parti come una sterile interazione tra un soggetto creditore e un soggetto debitore , mentre il primo contribuiva alla gestione del negozio assiduamente e fattivamente , giovandosi anche dei suoi ricavi. 3.4. Infine, il quarto motivo - proposto a norma dell’art. 360, comma 1, n. 5 , cod. proc. civ. - censura la sentenza impugnata per avere completamente omesso di accertare l’esistenza di una comunione di fatto tra i due conviventi more uxorio, essendo mancato nel ragionamento del giudice di seconde cure ogni riferimento a dati che lo hanno indotto ad una simile conclusione. 4. Ha proposto controricorso P.E. , per resistere all’avversaria impugnazione. In punto di fatto, il controricorrente precisa che il documento prodotto nel presente giudizio dalla S. il prospetto contabile , del quale ella contesta l’idoneità a costituire ricognizione di debito, in ragione, tra l’altro, dell’assenza di sottoscrizione, costituirebbe solo l’estratto di un più ampio documento già presente agli atti dei due gradi di merito del presente giudizio. Si tratterebbe, infatti, solo della prima di tre complessive pagine dell’agenda su cui l’odierna ricorrente teneva la propria contabilità, l’ultima delle quali recante non solo la sottoscrizione dell’interessata, ma anche la stampigliatura della data in cui fu trasmessa via fax al commercialista. Ciò premesso, e non senza ulteriormente precisare come controparte non abbia mai confutato esistenza ed ammontare delle elargizioni ricevute dal P. , essendosi limitata unicamente a contestare la natura di prestito , l’odierno controricorrente ribadisce come la S. , nel corso dell’interrogatorio formale effettuato nel primo grado di giudizio, abbia confermato il contenuto e la sottoscrizione del documento de quo. Evidenzia, inoltre, che contrariamente a quanto sostenuto nell’avversario ricorso - la somma algebrica degli importi indicati nel predetto documento Euro 37.622,73 corrisponde, sostanzialmente, a quella cifra di Euro 37.500,00 per la cui ripetizione esso P. ha agito in giudizio, al netto di un piccolo arrotondamento al ribasso. Quanto, poi, al merito delle censure avanzate dalla ricorrente, il P. sottolinea come essa insista a sostenere, per non restituire quanto ricevuto , che i prestiti ricevuti rientrano nell’alveo delle obbligazioni naturali . Così, tuttavia, non sarebbe, giacché una cosa sono le spese sostenute per le necessità familiari delle quali esso P. , difatti, si è mai sognato di tenere una contabilità analitica e dettagliata durante il rapporto di convivenza, né si è mai sognato di chiedere la restituzione dopo , altro, invece, i prestiti effettuati in favore dell’attività commerciale della S. . Infondata, poi, sarebbe la doglianza relativa alla omissione in cui la Corte di Appello sarebbe incorsa quanto all’accertamento delle obbligazioni naturali, giacché il giudice di seconde cure avrebbe, piuttosto, espressamente escluso qualsiasi ricostruzione dei rapporti intercorsi tra le parti che richiami il disposto dell’art. 2034 cod. civ. Inoltre, si evidenzia come l’odierna ricorrente non abbia mai offerto il benché minimo elemento di prova, atto a far ipotizzare che le somme le fossero state corrisposte dal P. in adempimento di un’obbligazione naturale . Infine, quanto all’omesso esame della questione relativa all’esistenza di una comunione di fatto tra i conviventi more uxorio, il P. - non senza previamente evidenziare come l’accertamento della stessa non sarebbe stato richiesto da nessuno, né in primo né in secondo grado, costituendo, così, una domanda nuova - esclude, in ogni caso, che le risultanze istruttorie ne abbiano confermato la ricorrenza. Si sottolinea, infine, come siffatta tesi non possa - in ogni caso - trovare giuridico accoglimento, giacché ciò equivarrebbe ad ipotizzare per i conviventi more uxorio un regime di comunione legale in automatico , senza neppure la possibilità di scegliere un diverso regime patrimoniale, a differenza di quanto avviene per i coniugi , in disparte ogni altro rilievo circa le conseguente aberranti soprattutto in termini di incertezza sulla circolazione dei beni derivanti dall’applicazione delle regole dettate dall’art. 177 cod. civ. 5. Entrambe le parti hanno presentato memorie ex art. 378 cod. proc. civ., ribadendo quanto già affermato. Ragioni della decisione 6. Il ricorso è da respingere. 6.1. In particolare, i motivi primo, secondo e terzo - da trattare congiuntamente, in quanto censurano, sotto diversi angoli visuali, la sentenza impugnata, laddove ha ritenuto il prospetto contabile inviato dalla S. al proprio commercialista idoneo ad integrare riconoscimento del debito, ai fini ed agli effetti di cui all’art. 1988 cod. civ. - non sono fondati. 6.1.1. In particolare, con il primo motivo si contesta che il documento de quo possa considerarsi espressivo di uno specifico intento ricognitivo , trattandosi di un foglio non sottoscritto, contenente confusi dati numerici, nemmeno sommati algebricamente e comunque interpretati senza essere posti in relazione al comportamento delle parti e alla loro volontà . Proposta la censura in questi termini e non, invece, lamentando che la ricognizione, perché possa spiegare i suoi effetti, deve essere rimessa direttamente dall’obbligato al creditore, senza intermediazioni , cfr. Cass. Sez. 3, sent. 14 febbraio 2012, n. 2104, Rv. 621529-01 , la stessa va rigettata. E ciò non soltanto perché i dubbi sull’assenza della sottoscrizione e sulla congruità, dal punto vista algebrico, delle cifre in esso riportate, sono superabili sulla scorta dei rilievi proposti dal controricorrente P. , ma soprattutto in ragione delle considerazioni che seguono. Sul punto, infatti, va ribadito che la ricognizione di debito, come qualsiasi altra manifestazione di volontà negoziale, può risultare anche da un comportamento tacito, purché inequivoco, tale essendo il contegno che nessuno terrebbe se non al fine di riconoscersi debitore, e senza altro scopo se non quest’ultimo Cass. Sez. 3, sent. 21 luglio 2016, n. 14993, Rv. 641448-01 , dovendo inoltre compiersi, nell’interpretazione dell’atto ricognitivo, una ricostruzione dell’ intenzione delle parti rilevante sotto il profilo di cui all’art. 1362 cod. civ. afferente, in via esclusiva, alla volontà espressa dal dichiarante, e non certamente a quella - peraltro, del tutto ipotetica del destinatario di quelle dichiarazioni Cass. Sez. 3, sent. 1 agosto 2002, n. 11433, Rv. 556500-01 . Proprio a tale ultima volontà, per contro, pretenderebbe di attribuire rilievo la ricorrente, richiamando il contributo del P. alla gestione della asseritamente comune attività imprenditoriale. Corrobora, d’altra parte, l’esito del rigetto anche il rilievo secondo cui l’indagine sul contenuto e sul significato della dichiarazione al fine di stabilire se importino ricognizione di debito ai sensi dell’art. 1988 cod. civ. rientra nel potere discrezionale del giudice di merito cfr. Cass. Sez. 1., sent. 1 febbraio 2007, n. 2205, Rv. 595044-01 , potere ormai sindacabile solo entro le strette maglie del novellato testo dell’art. 360, comma 1, n. 5 , cod. proc. civ. 6.1.2. Ciò premesso, spostando l’analisi dal piano della astratta idoneità ad esprimere l’intento ricognitivo , propria della dichiarazione suddetta, a quello - evocato dal secondo motivo di ricorso - degli effetti destinati a scaturire da essa, deve qui ribadirsi come l’odierna ricorrente censuri il fatto che l’astrazione processuale, conseguente all’avvenuta ricognizione, obbligasse il giudice di appello a compiere l’accertamento del rapporto sottostante alla ritenuta ricognizione”, ciò che il medesimo avrebbe dovuto fare senza poter prescindere dai legami esistenti tra le parti , ed in particolare dalla supposta comunione di fatto tra i già conviventi more uxorio. Ai fini del rigetto del motivo, tuttavia, è sufficiente osservare come la già ricordata astrazione processuale conseguente alla ricognizione si sostanzi in una relevatio ab onere probandi che dispensa il destinatario della dichiarazione dalla necessità di provare il rapporto sottostante al debito riconosciuto, che si presume fino a prova contraria, salvo, appunto, che la parte da cui provenga dimostri che il rapporto medesimo non sia stato instaurato, o sia sorto invalidamente Cass. Sez. 1, sent. 13 giugno 2014, n. 13506, Rv. 631306-01 , ovvero che esista una condizione o un altro elemento ad esso attinente che possa comunque incidere sull’obbligazione derivante dal riconoscimento Cass. Sez. 1, sent. 13 ottobre 2016, n. 20689, Rv. 642050-03 . Conseguentemente, non era il giudice a dover accertare quale fosse il rapporto sottostante, ma essa S. a doverne dimostrare l’inesistenza, l’estinzione o l’invalidità. 6.1.3. Ne deriva, pertanto, che il discorso finisce - di nuovo - con il traslare su di un ulteriore piano al quale fa riferimento il terzo motivo di ricorso , ovvero quello della supposta erroneità della decisione impugnata nell’escludere che i versamenti di somme da parte del P. potessero costituire adempimento di obbligazioni naturali verso la convivente S. . Nondimeno, anche questo motivo è destinato al rigetto. Se, infatti, è innegabile - come argomenta la ricorrente nel proprio atto di impugnazione - che le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente more uxorio effettuate nel corso del rapporto configurino l’adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., purché a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza cfr. Cass. Sez. 1, sent. 22 gennaio 2014, n. 1277, Rv. 629802-01 Cass. Sez. 2, sent. 13 marzo 2003, n. 3713, Rv. 651116-01 , siffatta conclusione non giova, di per sé, alla S. . Sarebbe stato, infatti, suo onere dimostrare che gli importi - pari, complessivamente, a Euro 37.500,00 - risultanti dal documento dalla stessa sottoscritto ed indicati, tra l’altro, come da dare ad E. , dei quali il P. ha reclamato la restituzione, fossero proprio quelli corrispondenti, invece, ad attribuzioni compiute dallo stesso in adempimento degli obblighi nascenti dal rapporto di convivenza. Valga, sul punto, rilevare che se il destinatario della dichiarazione ex art. 1988 cod. civ., stante l’astrazione della causa debendi , allorché agisca per l’adempimento della obbligazione , ha soltanto l’onere di provare la ricorrenza della promessa o della ricognizione di debito, e non anche la esistenza del rapporto giuridico da cui essa trae origine , incombe, invece, all’autore della dichiarazione l’onere di provare la inesistenza o la invalidità o l’estinzione del rapporto fondamentale di conseguenza, è di palmare evidenza che non è sufficiente perché detto onere possa dirsi adempiuto, che lo stesso affermi e dimostri che altro rapporto fondamentale è stato estinto , essendo, invece, indispensabile non tanto la dimostrazione che in precedenza esisteva un rapporto di debito e credito e questo, per qualsiasi motivo, si è estinto, ma che esista coincidenza - concreta tra tale rapporto di cui è data la prova e quello presunto per effetto della ricognizione di debito e non una mera compatibilità astratta tra i due titoli così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 23 febbraio 2006, n. 4019, Rv. 587935-01 . 6.2. Infine, il quarto motivo è inammissibile. Esso, a tacer d’altro ovvero al profilo di novità denunciato dal controricorrente, idoneo a comportare il medesimo esito processuale cfr., ex multis, Cass. Sez. 1, sent. 25 ottobre 2017, n. 25319 Rv. 645791-01 , si sostanzia nella censura, più che dell’omesso esame di un fatto , della mancata disamina, da parte della Corte felsinea, della questione giuridica della configurabilità di una comunione di fatto a somiglianza della comunione patrimoniale tra i coniugi tra i conviventi more uxorio. Così intesa, dunque, la censura non appare idonea ad integrare, neppure astrattamente, il vizio suscettibile di riconduzione al novellato testo dell’art. 360, comma 1, n. 5 , cod. proc. civ., visto che esso deve investire non una questione o un punto della sentenza come avvenuto, invece, nel presente caso , ma un fatto vero e proprio, e quindi un fatto principale, ex art. 2697 c.c. cioè, un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo , oppure secondario cioè, dedotto in funzione di prova di un fatto principale cfr., da ultimo, in motivazione Cass. Sez. 1, sent. 8 settembre 2016, n. 17761, R. 641174-01 in senso analogo - sulla necessità che l’omesso esame investa sempre un fatto storico, principale o secondario - si veda anche Cass. Sez. 6-5, ord. 4 ottobre 2017, n. 23238, Rv. 646308-01. 7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo, ai sensi del d.m. 10 marzo 2014, n. 55. 8. A carico della ricorrente, rimasta soccombente, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale e condanna S.F. a rifondere ad P.E. le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 9.600,00, più Euro 200,00 per esborsi e spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.