Il contratto di donazione dell’immobile non esenta dal pagamento del canone di depurazione delle acquee reflue

Non può essere previsto dalla normativa vigente che una abitazione in proprietà possa essere esentata dal pagamento del consumo dell'acqua potabile poiché gode di servitù di derivazione per contratto di donazione modale del 1936, mentre il servizio di depurazione non era prestato.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 7177, del 22 marzo 2018, ha rigettato il ricorso di un contribuente avverso il pagamento della cartella per il canone di depurazione delle acquee reflue per i Giudici di legittimità non può essere previsto in un contratto di donazione una disposizione relativa al godimento gratuito della prestazione di erogazione d'acqua potabile per la casa d'abitazione del donante. Il fatto. Un contribuente era ricorso davanti al Giudice di Pace, relativamente alla cartella esattoriale della società concessionaria del servizio notificatagli, portante la pretesa di pagamento del corrispettivo per il consumo dell'acqua potabile e del canone per la depurazione delle acquee reflue, pari ad euro 83,62. Sosteneva il contribuente che l'abitazione in sua proprietà era esentata dal pagamento del consumo dell'acqua potabile poiché godeva di servitù di derivazione per contratto di donazione modale del 1936, mentre il servizio di depurazione non era prestato. Il Giudice di Pace aveva rigettato il ricorso e il contribuente ha impugnato l’atto davanti al Tribunale che , a sua volta, aveva rigettato l'appello, osservando come dalla valutazione del contratto di donazione del 1936 non emergeva che con il modus si fosse costituito un diritto reale, bensì solamente obbligatorio in favore del donante e non anche per i successivi titolari della sua casa d'abitazione . Avverso la sentenza sfavorevole il contribuente si è rivolto, in ultima istanza in Cassazione. Servitù. I Giudici di legittimità nell’analizzare il ricorso del contribuente lo ritengono privo di fondamento giuridico e lo rigettano. Con il primo motivo di ricorso il contribuente sosteneva la non debenza del corrispettivo per la fornitura d'acqua potabile, censurando la sentenza del Tribunale perché avrebbe ritenuto che, in via generale, con il modus, apposto a donazione, non possa esser costituito un diritto reale parziario, bensì solamente un diritto obbligatorio personale. Si evidenzia che il modus modo , o onere, viene definito come un peso che il gratificato di una liberalità subisce per volontà dello stesso soggetto che fece l'attribuzione. Per i Giudici di legittimità tale censura non coglie nel segno in quanto si fonda su violazione della norma in art 793 c.c., mentre il Tribunale ha operato, anzitutto, una ricostruzione della volontà comune sottesa al contratto di donazione, così individuando, siccome modus , la disposizione relativa al godimento gratuito della prestazione di erogazione d'acqua potabile per la casa d'abitazione del donante. Con la seconda censura viene denunziato e violazione di norme e vizio di motivazione. I Giudici di legittimità osservano che relativamente alle norme di diritto violate, in effetto le stesse attengono ai rapporti fra privati e non regolano anche la derivazione d'acqua pubblica, come nella specie trattasi, e difatti il Tribunale opera riferimento alla concessione pubblica di derivazione dell'acqua immessa nell'acquedotto donato e, non già, a derivazione dall'acquedotto in favore della singola utenza, come visto questione risolta in forza di interpretazione del contratto di donazione. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale è ben evidenziata la natura prediale della servitù, ex art 1080 ss. c.c., che riguarda la possibilità di prelievo d'acqua in signoria del privato, e non già pubblica, da convogliare mediante le opere da predisporre sul fondo servente sino al fondo dominante. Nella specie, dunque, non solo difetta il negozio previsto dalla legge per poter costituire volontariamente la servitù, ma nemmeno risulta chiaramente configurato il requisito della predialità della servitù pretesa. Difatti la pretesa del contribuente risulta fondata sull'asserita gratuità dell'erogazione dell'acqua potabile pubblica, servizio reso dall'Ente pubblico resistente, e non già sul diritto di prelevare, mediante manufatti utili allo scopo, l'acqua in signoria del privato titolare del fondo servente , nemmeno individuato. Dunque l'oggetto della domanda, svolta dal contribuente, non già è il diritto di prelevare acqua appartenente al titolare il fondo servente mediante manufatti posti su fondo altrui, quanto l'obbligo dell'esercente il servizio pubblico di erogare gratuitamente l'acqua potabile pubblica alla sua abitazione.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 18 dicembre 2017 – 22 marzo 2018, n. 7177 Presidente Manna – Relatore Gorjan Fatti di causa P.A. ebbe a proporre opposizione, avanti il Giudice di Pace di Varallo, relativamente alla cartella esattoriale, portante la pretesa di pagamento del corrispettivo per il consumo dell’acqua potabile e del canone per la depurazione delle acque reflue, pari ad e 83, 62, lui notificata dal C.O.D.A.R. Valsesia spa, Ente erogatore dei servizi in questione. Sosteneva il P. che l’abitazione in sua proprietà era esentata dal pagamento del consumo dell’acqua potabile poiché godeva di servitù di derivazione per contratto di donazione modale del 1936, mentre il servizio di depurazione non era prestato. Il Giudice di Pace ebbe a rigettare l’opposizione ed il P. propose gravame avanti il Tribunale di Vercelli-Varallo riproponendo le sue argomentazioni. Il Tribunale con la sentenza impugnata ebbe a rigettare l’appello, osservando come dalla valutazione del contratto di donazione del 1936 non emergeva che con il modus si fosse costituito un diritto reale, bensì solamente obbligatorio in favore del donante e non anche per i successivi titolari della sua casa d’abitazione. Quanto al pagamento delle spese di depurazione delle acque reflue, rilevava il Tribunale come il privato non avesse osservato le prescrizioni della legge regionale n. 13/1990 per ottenere l’esenzione dal pagamento del contributo. Ha interposto ricorso per cassazione il P. , articolando quattro motivi di impugnazione. Resisteva con controricorso l’Ente impositore, che instava per il rigetto del ricorso. Parte impugnante ha depositata nota difensiva il 7.12.2017. All’odierna udienza pubblica, sentite le parti presenti ed il P.G., che instava per il rigetto del ricorso, la Corte adottava decisione siccome illustrato in presente sentenza. Ragioni della decisione Il ricorso proposto dal P. s’appalesa privo di fondamento giuridico e va rigettato. Con il primo mezzo d’impugnazione, afferente la non debenza del corrispettivo per la fornitura d’acqua potabile, il P. deduce violazione della norma in art. 793 cod. civ. in quanto il Tribunale piemontese avrebbe ritenuto che, in via generale, con il modus, apposto a donazione, non possa esser costituito un diritto reale parziario, bensì solamente un diritto obbligatorio personale. Ma un tanto risultava contrario a quanto ritenuto da dottrina e giurisprudenza ed alla circostanza che la prestazione, a favore del donante, risulta contenuta in contratto di donazione, che ben può contenere anche il patto costitutivo del diritto reale parziario. Il secondo mezzo d’impugnazione denunzia violazione delle norme in artt. 1027 1080 e segg. cod. civ. nonché vizio di motivazione per illogicità e contraddittorietà in quanto da dette disposizioni di legge discenderebbe comunque la possibilità di costituire la servitù prediale pretesa dall’impugnante. Le due censure in quanto connesse possono esser esaminate congiuntamente e s’appalesano per parte inammissibili e per parte prive di fondamento. La prima censura non coglie nel segno in quanto si fonda su violazione della norma in art. 793 cod. civ., mentre il Tribunale ha operata, anzitutto, una ricostruzione della volontà comune sottesa al contratto di donazione, così individuando, siccome modus, la disposizione relativa al godimento gratuito della prestazione di erogazione d’acqua potabile per la casa d’abitazione del donante. Al riguardo l’impugnate non solleva critica fondata sulla violazione dei canoni ermeneutici legali, anzi conferma che la disposizione de quo vada qualificata, secondo il disposto ex art. 793 cod. civ., quale modus. In questa prospettiva la conclusione tratta dal Giudice d’appello - non venne costituito con detta diposizione un diritto reale di servitù, bensì un obbligazione personale a favore del solo donante - s’appalesa siccome corretta. Difatti la disposizione modale, per dettato normativo, è un accessorio al negozio gratuito rimesso al mera volontà del donante e, non già, espressione di un patto tra le parti contraenti, sicché - comma 2 art. 793 cod. civ. - il donatario deve osservare l’onere nei limiti del valore del bene ricevuto in donazione. Inoltre le servitù prediali, a sensi degl’artt. 1027 e 1058 cod. civ., possono essere costituite volontariamente mediante contratto ovvero testamento il dato normativo positivo, quindi, non prevede il modus tra i modi di costituzione delle servitù prediali. In effetti con la disposizione modale - come rettamente ricordato dal Tribunale -, in quanto onere unilateralmente posto con il limite normativamente previsto all’entità dell’obbligo assunto dall’onerato, si può imporre solamente prestazioni di carattere obbligatorio, siccome anche insegna questo Supremo Collegio - Cass. sez. 2 n. 12959/14 - e non anche costituire un diritto reale parziario, siccome sostenuto dall’impugnante. L’argomento fondato sulla natura pattizia della donazione, portato dal P. a sostegno della sua impugnazione, appare incoerente rispetto alla petizione base fondate la sua critica, ossia che la servitù pretesa abbia la sua fonte costitutiva nel modus. Difatti, se indubbiamente nel contratto di donazione le parti ben possono anche, con apposito patto, costituire diritto di servitù, la disposizione modale, in quanto espressione unilaterale di volontà di imposizione di un onere al beneficato, ex se non può assumere forma e struttura di patto. Dunque la donazione modale, come rettamente ritenuto dal Tribunale piemontese, non può esser individuata siccome la fonte genetica del preteso diritto reale parziario, ponendo il modus unicamente un onere di carattere personale. Con la seconda censure viene denunziato e violazione di norme e vizio di motivazione. - Il dedotto vizio di motivazione si appalesa inammissibile poiché non declinato secondo l’unica figura tipica, ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., consentita ovvero l’omessa motivazione. Relativamente alle norme di diritto, in tesi, violate, in effetto le stesse attengono ai rapporti fra privati e non regolano anche la derivazione d’acqua pubblica, come nella specie trattasi, e difatti il Tribunale opera riferimento alla concessione pubblica di derivazione dell’acqua immessa nell’acquedotto donato e, non già, a derivazione dall’acquedotto in favore della singola utenza, come visto questione risolta in forza di interpretazione del contratto di donazione - come detto oggetto non sottoposta all’esame della Corte con specifico mezzo d’impugnazione -. In effetto il costante insegnamento di questo Supremo Collegio - Cass. SU n. 2949/16, Cass. sez. 2 n. 1315/03, Cass. sez. 2 n. 7475/95 - ben evidenza la natura prediale della servitù, ex art. 1080 e segg. cod. civ., che riguarda la possibilità di prelievo d’acqua in signoria del privato, e non già pubblica, da convogliare mediante le opere da predisporre sul fondo servente sino al fondo dominante. Nella specie, dunque, non solo difetta il negozio previsto dalla legge per poter costituire volontariamente la servitù, ma nemmeno risulta chiaramente configurato il requisito della predialità della servitù pretesa. Difatti la pretesa del P. risulta fondata sull’asserita gratuità dell’erogazione dell’acqua potabile pubblica - servizio reso dall’Ente pubblico resistente -, e non già sul diritto di prelevare, mediante manufatti utili allo scopo, l’acqua in signoria del privato titolare del fondo servente - nemmeno individuato - in favore del suo perdio. Dunque l’oggetto della domanda, svolta dal P. , non già è il diritto di prelevare acqua appartenente al titolare il fondo servente mediante manufatti posti su fondo altrui, quanto l’obbligo dell’esercente il servizio pubblico di erogare gratuitamente l’acqua potabile pubblica alla sua abitazione. Con il terzo mezzo d’impugnazione il P. deduce violazione degli artt. 8 e 22 della legge regionale n. 13/1990 ed omessa motivazione con riguardo alla fondamentale asserzione - con proposizione di apposita prova al riguardo - che il punto di allaccio alla pubblica fognatura era sito a distanza superiore ai metri 100 previsti dalla norma regionale per esservi l’obbligo all’utilizzo del servizio. In effetto a ragione il Giudice vercellese ha ritenuto che la legge regionale evocata imponesse l’obbligo ad ogni titolare di fondo urbano di presentare apposita denuncia della sua posizione, anche se, per la distanza dell’allaccio, non tenuto obbligatoriamente allo stesso. Difatti un tanto si ricava con chiarezza dal tenore testuale della disposizione in comma 3 art. 8 legge regionale citata che suona i titolari degli scarichi di cui al comma 1 - ossia gli insediamenti civili - sono tenuti a notificare la loro posizione all’Ente gestore . L’esenzione dall’obbligatorietà dell’utilizzo del servizio per gli insediamenti civili, siti a determinata distanza dall’allaccio al collettore principale della fognatura, risulta portata in comma 2 citato articolo, ma tale norma non è richiamata nel testo al terzo comma, il quale invece si ricollega alla disposizione in primo comma art. 8, avente carattere universale poiché relativo a tutti i potenziali utenti. Quindi, rettamente, i Giudici del merito hanno ritenuto irrilevante l’accertamento chiesto - e dedotto siccome vizio di omesso esame - circa la distanza dal collettore fognario pubblico dell’utenza del P. , poiché il suo obbligo al pagamento, comunque, del corrispettivo per il trattamento delle acque reflue consegue all’omessa notificazione della sua posizione all’Ente resistente. Difatti la disposizione in comma 2 art. 8 legge regionale citata impone al titolare di scarico di allacciarsi alla pubblica fognatura, se non nei casi di sua esenzione, sicché l’obbligo del pagamento del corrispettivo segue all’omessa notificazione della propria posizione, quale situazione rientrante nei casi specifici di esenzione. Irrilevante in questa prospettiva appare il cenno alle sanzioni, ex art. 22 legge regionale, in quanto, per il perspicuo richiamo alla legge 319/1976, tra le condotte sanzionate non compare l’omessa notificazione ex art. 8 legge reg. poiché alla stessa - stante la riconosciuta facoltà delle utenze domestiche di effettuare senz’altro lo scarico in fognatura - consegue solamente l’obbligo del pagamento del corrispettivo in assenza di chiesta ed ottenuta esenzione. Con il quarto mezzo d’impugnazione il P. denunzia vizio di nullità processuale poiché violato il disposto, ex art. 112 cod. proc. civ., in quanto l’Ente resistente appena in sede d’appello ebbe a segnalare la mancanza dell’autorizzazione a non effettuare l’allacciamento obbligatorio, sicché detta eccezione appariva tardivamente proposta e non andava presa in esame, anche perché non s’erano potute spiegare le difesa contro la stessa. Pure detta ragione di doglianza risulta priva di pregio poiché non vien revocato in dubbio che la questione correlata all’applicazione nella specie della normativa portata in art. 8 legge reg. citata risulta introdotta tempestivamente in causa e la mera specificazione - già in corso di causa avanti in Giudici di Pace come ammesso dal ricorrente - dell’obbligo di notificazione per comunque poter godere d’esenzione configura, non già, eccezione, bensì argomentazione giuridica correlata allo svilupparsi del contraddittorio tra le parti. Al rigetto del ricorso, ex art. 385 cod. proc. civ., segue la condanna del P. al pagamento in favore della spa C.O.R.D.A.R. Valsesia delle spese di questo giudizio di legittimità, tassate in globali Euro 900, 00 oltre accessori di legge e rimborso forfetario, siccome indicato in dispositivo. Concorrono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità in favore della parte resistente che liquida in Euro 900, 00 di cui Euro 200, 00 per esborsi oltre accessori di legge e rimborso forfetario nella misura del 15%. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater dPR 115/2002 si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale del’ulteriore importo dovuto a tutolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis art. 13 dPR 115/02.