Anche al magistrato non si riconosce la scarsa rilevanza dell’illecito disciplinare se consegue ad un reato

Non è consentito non configurare come illecito disciplinare un fatto di scarsa rilevanza, nell’ipotesi in cui il ‘fatto disciplinarmente rilevante’ sia costituito dalla commissione di un reato.

L’accertamento del fatto-reato di diffamazione e le conseguenze disciplinari. Un pubblico ministero veniva sottoposta al giudizio della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura per rispondere dell'illecito disciplinare derivante dalla violazione dei doveri di correttezza, indipendenza ed imparzialità, commettendo il reato di cui all'art. 595 c.p. idoneo a ledere l'immagine del magistrato. In particolare, il giudice comunicando con più persone a mezzo del proprio profilo personale Facebook offendeva la reputazione di un sindaco pubblicando il seguente post non ho mai visto un sindaco plaudire bea o tamente per essere stato messo sotto tutela con tanto di annessi e connessi di assessorati alla legalità affidati a p.m. antimafia, ma qualcuno diceva che il coraggio o la dignità se non l'hai non te la puoi dare . Questa condotta, anche a seguito della pubblicazione di un post sul quotidiano La Repubblica, ledeva gravemente l'immagine dell’incolpata investita delle funzioni di pubblico ministero proprio presso la Procura della Repubblica titolare di indagini, a vario titolo, avviata nei confronti dell'amministrazione comunale de qua. La sezione disciplinare riteneva sussistente gli elementi costitutivi dell'illecito contestato vale a dire, da un lato, la consumazione del reato di diffamazione che è sempre integrata da offesa alla reputazione del sindaco e, dall'altro, in virtù della risonanza dell’episodio e della diffusione del commento, il pregiudizio alla immagine dei magistrati. Tuttavia, con valutazione ex post , la sezione osservava che il fatto nel suo complesso rivestiva scarsa rilevanza, deponendo principalmente in tal senso la dichiarazione della persona offesa il cui punto di vista, avuto riguardo all'interesse tutelato dalla norma incriminatrice, appariva sotto questo profilo altamente significativo. Pertanto, poiché si trattava di un episodio isolato nel contesto di un profilo professionale positivo, vi erano le condizioni per l'applicazione della esimente che permetteva la non configurabilità dell’illecito per essere il fatto di scarsa rilevanza. Tutela dell’immagine del magistrato. Ricorreva in Cassazione la Procura Generale presso la Suprema Corte censurando, in particolare, il fatto che la sezione disciplinare avesse ritenuto irrilevante, ai fini della valutazione della tenuità dell'offesa, la percezione della stessa da parte del soggetto diffamato e non anche il bene giuridico protetto dalla norma, che consiste nella tutela della immagine del magistrato. Sotto altro profilo, la Procura Generale rilevava che la sentenza impugnata si sarebbe posta in contrasto con l'orientamento espresso dalle Sezioni Unite secondo cui la scarsa rilevanza del fatto non potrebbe essere ravvisata nelle ipotesi di illecito disciplinare conseguenti al reato. Posto che la compromissione dell'immagine del magistrato costituisce il presupposto stesso della configurabilità dell'illecito disciplinare in parola, non risultava residuare alcuna possibilità di apprezzare la scarsa rilevanza del fatto una volta accertata la sussistenza del fatto contestato. In altri termini, poiché l’illecito sussiste solo se l'immagine del magistrato è compromessa, deve escludersi la possibilità che il fatto possa essere ritenuto irrilevante sotto il profilo disciplinare. L’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza Il ricorso viene ritenuto fondato dalle Sezioni Unite poiché non viene condiviso l'assunto dal quale muove il complesso motivo di ricorso e, cioè, che vi sarebbe una incompatibilità logica e sistematica tra l'illecito disciplinare contestato alla accusata e l'applicazione della disposizione ex art 3 bis d.lgs. n. 109/2006, a tenore del quale l’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza . Infatti, come ricordato dalla Procura Generale nel proprio ricorso, in altra occasione le Sezioni Unite hanno affermato che l'articolo 3 bis si riferisce alle condotte previste nelle disposizioni generali, cui non potrebbe trovare applicazione l’ipotesi contemplata nell’art. 4 contestato al magistrato. Tuttavia, gli Ermellini rilevano che questo orientamento si formava prima dell'entrata in vigore dell'art . 131 bis c.p. introdotto d.lgs. n. 28/2015 che disponeva al primo comma che nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità viene esclusa quando, per le modalità della condotta e per la esiguità del danno o del pericolo, l'offesa è di particolare tenuità ed il comportamento risulta non abituale . Come questa Corte ha avuto modo di affermare il su richiamato art. 3 bis introduce nella materia disciplinare il principio di offensività, tipico del diritto penale, secondo il quale la sussistenza dell'illecito va comunque riscontrata alla luce della lesione o della messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma con accertamento da effettuarsi ex post . Si tratta, in sostanza, di disposizione che tende ad attenuare la rigidità di quella tipizzazione in riferimento a tutte le ipotesi in cui la condotta, pur astrattamente rientrante in una delle fattispecie individuate, costituisce in concreto fatto disciplinarmente rilevante solo se supera la soglia della non scarsa rilevanza. Pertanto, appare evidente che, una volta che la offensività di un fatto-reato possa essere in concreto esclusa, non può più in alcun modo predicarsi la preclusione della operatività della disposizione che nell'ordinamento disciplinare della magistratura può consentire di non configurare come illecito disciplinare un fatto di scarsa rilevanza, per il caso in cui il fatto disciplinarmente rilevante sia costituito dalla commissione di un reato. In conclusione, nella valutazione rimessa al giudice disciplinare deve ritenersi ricompreso anche il compito di apprezzare se quel fatto sia, a sua volta, di particolare tenuità con conseguente applicabilità della previsione ex art. 3 bis d.lgs. n. 109/2006. Nel caso di specie, pertanto, la sentenza risulta erronea nella parte in cui -anche in presenza di un reato del quale ha accertato la commissione ha in concreto ritenuto di scarsa rilevanza il fatto disciplinarmente rilevante avuto riguardo alla percezione dell'offesa che il destinatario della stessa aveva avuto. In questo modo, la sezione disciplinare, da un lato, non ha tenuto conto che in tema di diffamazione ciò che rileva è l'uso di parole od espressioni socialmente interpretabili come offensive, cioè adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere dall'altro, ha anche omesso di considerare che il bene protetto dalla previsione è costituito dalla immagine del magistrato, risultando rilevante a tal fine il fatto che i destinatari delle parole -obiettivamente diffamatorie possano non averle percepite in tal senso.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 25 maggio – 31 luglio 2017, n. 18987 Presidente Rordorf – Relatore Petitti Fatti di causa 1. D.D. , sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di , è stata sottoposta al giudizio della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura per rispondere dell’illecito disciplinare di cui all’art. 4, primo comma, lett. d , d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, per avere, in violazione dei doveri di correttezza, indipendenza ed imparzialità, commesso il reato di cui all’art. 595 cod. pen., idoneo a ledere l’immagine del magistrato. La D. , in particolare, comunicando con più persone a mezzo del proprio profilo personale del social network denominato Facebook, ha offeso la reputazione del Sindaco di , pubblicando il seguente post Non ho mai visto un sindaco plaudire bea o tamente per essere stato messo sotto tutela con tanto di annessi e connessi di assessorati alla legalità affidati a pm antimafia, ma qualcuno diceva che il coraggio o la dignità se non la hai non te lo puoi dare . Tale condotta, anche a seguito della pubblicazione del post sul quotidiano omissis del omissis , ha gravemente leso l’immagine dell’incolpata, investita delle funzioni di pubblico ministero proprio presso quella Procura della Repubblica titolare di indagini a vario titolo avviate nei confronti dell’Amministrazione comunale di . 1.1. La Sezione disciplinare ha ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi dell’illecito contestato, e cioè, da un lato, la consumazione del reato di diffamazione, essendo integrata l’offesa alla reputazione del Sindaco di dall’altro, per la risonanza dell’episodio e la diffusione del commento, il pregiudizio dell’immagine del magistrato. Tuttavia, la Sezione ha osservato, con valutazione ex post, che nel suo complesso il fatto ha rivestito scarsa rilevanza, deponendo principalmente in tal senso la dichiarazione della persona offesa, il cui punto di vista, avuto riguardo all’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, appare sotto questo profilo altamente significativo. Pertanto, poiché si trattava di un episodio isolato nel contesto di un profilo professionale positivo, vi erano le condizioni per l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006 non configurabilità dell’illecito per essere il fatto di scarsa rilevanza. 2. Per la cassazione di questa sentenza la Procura generale presso questa Corte ha proposto ricorso affidato ad un motivo. L’intimata non ha resistito con controricorso, ma ha depositato atto di costituzione ai fini della partecipazione all’udienza di discussione. Ragioni della decisione 1. - Con l’unico complesso motivo di ricorso la Procura generale presso questa Corte denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 4, comma 1, lettera d , del d.lgs. n. 109 del 2006, nonché vizio di carenza o contraddittorietà della motivazione, in relazione all’art. 606, comma 1, lettere b ed e , cod. proc. pen La ricorrente censura, in particolare, il fatto che la Sezione disciplinare abbia ritenuto rilevante, ai fini della valutazione della tenuità dell’offesa, la percezione dell’offesa da parte del soggetto diffamato e non anche il bene giuridico protetto dalla norma, che consiste nella tutela dell’immagine del magistrato. 1.1. Sotto altro profilo, la Procura generale rileva che la sentenza impugnata si porrebbe in contrasto con l’orientamento espresso da queste Sezioni Unite, secondo cui la scarsa rilevanza del fatto non potrebbe essere ravvisata nelle ipotesi di illecito disciplinare conseguenti a reato. D’altra parte, prosegue la ricorrente, posto che la compromissione dell’immagine del magistrato costituisce il presupposto stesso della configurabilità dell’illecito disciplinare di cui all’art. 4, comma 1, lettera d , del d.lgs. n. 109 del 2006, non residuerebbe alcuna possibilità di apprezzare la scarsa rilevanza del fatto una volta accertata la sussistenza del fatto contestato. In altri termini, poiché l’illecito sussiste solo se l’immagine del magistrato è compromessa, deve escludersi la possibilità che il fatto possa essere ritenuto irrilevante sotto il profilo disciplinare. 1.2. La sentenza impugnata, inoltre, ad avviso della Procura generale, limitandosi ad affermare che si è trattato di un episodio isolato nel contesto di un profilo professionale positivo , avrebbe del tutto obliterato il quadro probatorio emerso nel corso della istruttoria e ribadito in sede di discussione dibattimentale, e segnatamente la preoccupazione espressa dal Procuratore della Repubblica di Roma in relazione alla esternazione della incolpata. 2. Il ricorso è fondato, nei limiti di seguito indicati. 2.1. Non può, invero, essere condiviso l’assunto dal quale muove il complesso motivo di ricorso, e cioè che vi sarebbe una incompatibilità logica e sistematica tra l’illecito disciplinare di cui all’art. 4, comma 1, lettera d , del d.lgs. n. 109 del 2006 e l’applicazione della disposizione di cui all’art. 3-bis del medesimo decreto legislativo, a tenore del quale l’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza . È ben vero, come ricordato dalla Procura generale nel proprio ricorso, che queste Sezioni Unite hanno affermato che l’art. 3-bis si riferisce alle condotte previste nelle disposizioni generali, sicché non potrebbe trovare applicazione per l’ipotesi contemplata nell’art. 4 cit. Cass., S.U., n. 16541 del 2008 sentenza, alla quale deve aggiungersi Cass., S.U., n. 7934 del 2013, a tenore della quale la previsione dell’art. 3-bis del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 . risulta applicabile a tutte le ipotesi previste negli artt. 2 e 3 del medesimo decreto ed è altrettanto vero che in una successiva pronuncia si è ribadito che l’art. 3-bis non trova applicazione - anche nell’eventualità il reato sia estinto per qualsiasi causa o l’azione penale non può essere iniziata o proseguita - in presenza di fatto costituente reato idoneo a ledere l’immagine del magistrato in caso di illeciti disciplinari conseguenti a reato affermazione, questa, contenuta in Cass., S.U., n. 14889 del 2010, che ha però dichiarato inammissibile il ricorso del magistrato per difetto di interesse in quanto destinatario dell’applicazione dell’art. 3-bis . Tuttavia, occorre rilevare che tale orientamento si è formato prima della entrata in vigore dell’art. 131-bis cod. pen., introdotto dal d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, il quale, sotto la rubrica Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto , dispone al primo comma che Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale , prevedendo poi nei commi successivi ipotesi nelle quali non può essere ravvisata la particolare tenuità del fatto e specificando cosa sia, ai fini del primo comma, il comportamento abituale. Si tratta, invero, di modificazione normativa che certamente spiega efficacia sul piano della interpretazione sistematica degli artt. 3-bis e 4, comma 1, lettera d , del d.lgs. n. 109 del 2006. Come questa Corte ha avuto modo di affermare, l’art. 3-bis - ispirato ad un criterio di ragionevolezza e di proporzione, in un sistema che prevede un regime di stretta tipizzazione degli illeciti - introduce nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, secondo il quale la sussistenza dell’illecito va comunque riscontrata alla luce della lesione o della messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, con accertamento in concreto effettuato ex post Cass., S.U., n. 14800 del 2016, e sentenze ivi richiamate . Si tratta di disposizione che tende ad attenuare la rigidità di quella tipizzazione in riferimento a tutte le ipotesi previste dagli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 109 del 2006, la condotta, pur astrattamente rientrante in una delle fattispecie astratte colà individuate, costituisce, in concreto, fatto disciplinarmente rilevante soltanto se supera la soglia della non scarsa rilevanza Sez. Un., 31 maggio 2016, n. 11372 . Orbene, appare evidente che, una volta che la offensività di un fatto reato possa - nel concorso delle circostanze descritte dall’art. 131-bis cod. pen. - essere in concreto esclusa, non può più in alcun modo predicarsi la preclusione della operatività della disposizione che nell’ordinamento disciplinare della magistratura può consentire di non configurare come illecito disciplinare un fatto di scarsa rilevanza, per il caso in cui il fatto disciplinarmente rilevante sia costituito dalla commissione di un reato anche se lo stesso sia estinto o l’azione penale non possa essere iniziata o proseguita . Nella valutazione rimessa al giudice disciplinare, deve quindi ritenersi ricompreso anche il compito di apprezzare - soprattutto nelle ipotesi in cui per il fatto reato non sia stata esercitata l’azione penale - se quel fatto sia a sua volta di particolare tenuità, con conseguente applicabilità della previsione di cui all’art. 3-bis d.lgs. n. 109 del 2006. La sentenza impugnata si sottrae, dunque, alla radicale censura di non applicabilità dell’art. 3-bis per gli illeciti disciplinari di cui all’art. 4, comma 1, lettera d . 2.2. La sentenza impugnata risulta tuttavia erronea nella parte in cui, muovendo dalla applicabilità dell’art. 3-bis pur in presenza di un reato del quale ha accertato la commissione, ha in concreto ritenuto di scarsa rilevanza il fatto disciplinarmente rilevante avuto riguardo quale elemento sintomatico della scarsa rilevanza del fatto - alla percezione della offesa che il destinatario della stessa aveva avuto. In tal modo, la Sezione disciplinare, da un lato, non ha tenuto conto che in tema di diffamazione ciò che rileva è l’uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere dall’altro, ha omesso di considerare che il bene protetto dalla previsione di cui all’art. 4, comma 1, lettera d , è costituito - come è fatto palese dalla stessa formulazione della disposizione - dalla immagine del magistrato, risultando quindi irrilevante, a tali fini, il fatto che il destinatario di parole oggettivamente diffamatorie possa non averle percepite in tal senso. Su tale punto le censure della Procura generale risultano dunque fondate. 3. La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata in relazione alla censura accolta - elementi rilevanti ai fini della valutazione della scarsa rilevanza del fatto disciplinarmente rilevante, ai sensi dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, allorquando questo consegua alla commissione di un fatto reato -, con rinvio alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura perché, in diversa composizione, proceda a nuovo esame dell’azione disciplinare. In ragione della natura di parte in senso formale che la Procura generale della Corte di cassazione assume anche nelle ipotesi in cui proponga ricorso avverso una decisione della Sezione disciplinare, non vi è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte, decidendo a Sezioni Unite, accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, in diversa composizione.