Tesi giuridiche palesemente infondate? Giusta la condanna per responsabilità aggravata

La palese insostenibilità delle tesi giuridiche prospettate in giudizio ben può costituire fondamento d'una condanna ex art. 96 c.p.c

La sezione Terza civile della Cassazione sentenza n. 19298/16, depositata il 29 settembre , prendendo spunto da una controversia in materia di appalto, si sofferma in particolare sulla contestata condanna del ricorrente per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., peraltro confermando tale statuizione. Il caso un contratto di appalto avente ad oggetto l’installazione di condizionatori d’aria. Tutto nasce dalla richiesta risarcitoria fatta valere, avanti al Giudice di Pace, da un committente nei confronti di un appaltatore, per aver quest’ultimo installato nell’appartamento del primo dei condizionatori difettosi o quanto meno inefficienti. In particolare, il committente - su espressa segnalazione di alcuni incaricati dell’appaltatore secondo i quali il problema era certamente da ricollegare ad una perdita nelle tubature installate da altri – aveva di fatto effettuato verifiche su dette tubature demolendo, per metterle a nudo, vari tratti di muratura dell’appartamento. Si era poi ed invece scoperto che le tubature non avevano difetti e che il problema risiedeva in un difetto dei condizionatori d’aria. In definitiva, il committente chiedeva la condanna dell’appaltatore alla rifusione delle spese sostenute per le inutili indagini tecniche. Il Giudice di Pace accoglieva tale domanda. La sentenza di appello nessun concorso di colpa dell’appaltatore e la condanna ex art. 96 c.p.c Il tribunale, in secondo grado, confermava la decisione di prime cure ritenendo provato che incaricati del convenuto avessero indotto il committente a ritenere in buona fede che per riparare il guasto fosse necessario individuare una perdita nelle tubature, e quindi a demolire parte della muratura del proprio appartamento. Il tribunale escludeva peraltro la sussistenza di un concorso di colpa della vittima consistito nel non avere adottato meno invasive procedure , dal momento che una volta risolutamente dichiarato dall'appaltatore che il guasto era nelle tubature, per ripararlo non vi era altro mezzo che metterle a nudo. Si aggiunga che l’appaltatore veniva altresì condannato ai sensi dell’art. 96 c.p.c. responsabilità aggravata . L’appaltatore ricorre in Cassazione facendo valere alcuni motivi inammissibili. Le prime censure dell’appaltatore sono finalizzate, nella sostanza, a rimettere in discussione gli accertamenti di merito effettuati dai primi giudici sui quali la decisione si è basata. Ma la Suprema Corte ricorda che stabilire quale sia stata la causa del guasto, chi abbia suggerito al committente di mettere a nudo le tubature, se esistessero o meno altri modi per la ricerca del guasto, sono appunto accertamenti di fatto demandati al giudice del merito e non sindacabili in sede di legittimità. La condanna ex art. 96 c.p.c. era meritata? Sì, secondo gli Ermellini. Il giudice di merito aveva fondato la condanna per responsabilità aggravata sul presupposto che il ricorrente avesse sostenuto circostanze di fatto rivelatesi manifestamente infondate avesse formulato domande di manleva nei confronti di soggetti palesemente estranei alla vicenda ed avesse sostenuto tesi giuridiche non già semplicemente infondate come sostenuto dal ricorrente , ma palesemente infondate . La responsabilità aggravata e la colpa grave” qualche esempio concreto. In questo quadro, la Suprema Corte ricorda che è vero che la mera infondatezza in iure delle tesi prospettate in giudizio non può di per sé integrare gli estremi della responsabilità aggravata di cui all'art. 96 c.p.c. tuttavia, da un lato, la mera infondatezza di una tesi giuridica non va confusa con la sua manifesta insostenibilità chi sostenesse in un atto giudiziario - ad esempio - essere il testamento un contratto, o che la prescrizione ordinaria maturi in 30 anni, o che un credito si possa usucapire, non potrebbe sfuggire ragionevolmente ad una condanna ex art. 96 c.p.c. dall'altro lato, la mera infondatezza delle tesi giuridiche sostenute in giudizio non può costituire da sola e di per sé fondamento d'una condanna ex art. 96 c.p.c. ma se si associasse ad altri elementi come, nel caso di specie, la ritenuta inveridicità dei fatti invocati e la chiamata in causa di terzi del tutto pretestuosa essa ben potrebbe costituire un indice sintomatico della colpa grave. Il mutato quadro ordinamentale la ragionevole durata del processo e l’abuso. Gli Ermellini non mancano di ricordare il mutato quadro ordinamentale, per cui oggi non si può non tenere in considerazione il principio di ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 cost., che impone interpretazioni delle norme processuali idonee a rendere più celere il giudizio il principio che considera illecito l'abuso del processo, ovvero il ricorso ad esso con finalità strumentali il principio secondo cui le norme processuali vanno interpretate in modo da evitare lo spreco di energie giurisdizionali. Per cui, in definitiva, la palese insostenibilità delle tesi giuridiche prospettate in giudizio ben può costituire fondamento d'una condanna ex art. 96 c.p.c

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 20 luglio - 29 settembre 2016, n. 19298 Presidente Chiarini – Relatore Rossetti Svolgimento del processo 1. Nel 2008 F.R. convenne dinanzi al Giudice di pace di Monza M.G. , allegando che - aveva affidato al convenuto l’incarico di installare dei condizionatori d’aria - l’impianto, una volta messo in funzione, si rivelò inefficiente - su erronea indicazione di un incaricato di M.G. , era stato indotto a ritenere che la causa del guasto fosse da ricercare in una perdita delle tubazioni, installate da altra impresa, ed aveva di conseguenza demolito vari tratti di muratura per metterle a nudo - all’esito di tali ricerche emerse che non una perdita delle tubazioni era la causa del guasto, ma un difetto del condizionatore. Concluse pertanto chiedendo la condanna del convenuto al risarcimento del danno consistito nelle spese inutilmente sostenute per ricercare la perdita e ripristinare l’appartamento. 2. Il Giudice di pace di Monza con sentenza 3.1.2011. n. 3 accolse la domanda. La sentenza venne impugnata da M.G. . Il Tribunale di Monza con sentenza 12.3.2012 rigettò il gravame. Il Tribunale ritenne provato in punto di fatto che incaricati del convenuto avessero indotto il committente a ritenere in buona fede che per riparare il guasto fosse necessario individuare una perdita nelle tubature, e quindi a demolire parte della muratura del proprio appartamento. Né, ha soggiunto il Tribunale, poteva dirsi sussistente un concorso di colpa della vittima consistito nel non avere adottato men invasive procedure , dal momento che una volta risolutamente dichiarato dall’appaltatore che il guasto era nelle tubature, per ripararlo non vi era altro mezzo che metterle a nudo. 3. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da M.G. , con ricorso fondato su tre motivi. Ha resistito F.R. con controricorso. Motivi della decisione 1. Il primo motivo di ricorso. 1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta formalmente sia il vizio di ultrapetizione, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., sia che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di illogicità al presente giudizio si applica l’art. 360, n. 5, c.p.c. nel testo precedente le modifiche introdotte dall’art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 134 . Il motivo, pur formalmente unitario, contiene in realtà due censure così riassumibili a il Tribunale avrebbe errato nel ritenere che il committente fu inutilmente indotto a mettere a nudo le tubazioni per ricercare il guasto. In realtà il guasto era effettivamente dovuto ad una perdita nelle tubazioni, sicché le mura si sarebbero dovute comunque rompere per ripararlo soggiunge che ciò sarebbe dimostrato dalla circostanza che le tubazioni furono sostituite, e ciò dimostra che erano rotte b in ogni caso, per stabilire se una tubazione di gas fosse rotta non era necessario rompere i muri, ma sarebbe bastata una prova di pressione con un manometro. 1.2. Il motivo è manifestamente inammissibile. Stabilire quale sia stata la causa del guasto, chi abbia suggerito al committente di mettere a nudo le tubature, se esistessero meno altri modi per la ricerca del guasto, sono altrettanti accertamenti di fatto demandati al giudice del merito, e non sindacabili in questa sede. Anche prima della modifica dell’art. 360 n. 5 c.p.c., infatti, tale norma non consentiva affatto in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747 Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004 Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230 Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019 Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448 Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677 Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021 Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557 Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229 Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706 Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486 Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214 e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni e cioè che la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione . 2. Il secondo motivo di ricorso. 2.1. Col secondo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c Deduce, al riguardo, che il Tribunale non ha ammesso la prova da lui richiesta da M.G. , e volta a dimostrare l’assenza di responsabilità. 2.2. Il motivo è manifestamente inammissibile ai sensi dell’art. 366, n. 6, c.p.c., oltre che improcedibile ai sensi dell’art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c Le norme appena ricordate, infatti, imponendo al ricorrente per cassazione l’onere di indicazione nel ricorso degli atti processuali su cui il ricorso si fonda , comporta l’obbligo per chi lamenti l’erroneità del rigetto d’una richiesta istruttoria di indicare dove tale richiesta venne formulata, quale ne fosse il contenuto, se venne reiterata in appello. Indicazioni, queste, omesse nel ricorso oggi in esame. 3. Il terzo motivo di ricorso. 3.1. Col terzo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c Anche questo motivo, formalmente unitario, contiene in realtà due censure. 3.2. Con una prima censura il ricorrente sostiene che il Tribunale avrebbe illegittimamente condannato l’appellante al risarcimento per responsabilità aggravata, ex art. 96, comma 3, c.p.c., in quanto - la soccombenza dell’appellante è stata affermata sulla base di valutazioni erronee - in ogni caso la mera opinabilità delle argomentazioni non può integrare gli estremi della lite temeraria - il quantum del danno ex art. 96 c.p.c. è stato liquidato in modo abnorme, ovvero in percentuale rispetto all’importo delle spese legali. 3.3. Con una seconda censura il ricorrente lamenta che le spese di lite sono state liquidate dal Tribunale in misura eccedente i massimi tariffari. 3.4. Nella parte in cui lamenta la violazione dell’art. 96 c.p.c. il motivo è inammissibile. Anche ad ammettere, infatti, che la condanna prevista all’art. 96, comma 3, c.p.c., esiga quale presupposto, al pari del risarcimento del danno previsto dai primi due commi della medesima norma, il requisito del dolo o della colpa grave, l’accertamento di questi ultimi implica un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, salvo - per i ricorsi proposti avverso sentenze depositate prima dell’11.9.2012 - il controllo di sufficienza della motivazione Sez. 2, Sentenza n. 327 del 12/01/2010, Rv. 610816 . Nel caso di specie, il giudice di merito ha fondato la condanna per responsabilità aggravata sul presupposto che l’odierno ricorrente abbia sostenuto circostanze di fatto rivelatasi manifestamente infondate abbia formulato domande di manleva nei confronti di soggetti palesemente estranei alla vicenda, ed abbia sostenuto tesi giuridiche non già semplicemente infondate come sostiene il ricorrente , ma palesemente infondate così la sentenza impugnata, foglio 11, ultimo capoverso . Si tratta dunque di valutazioni non illogiche e non insufficienti, come tali non sindacabili in questa sede. 3.5. V’è solo aggiungere, per amor di verità, non essere sostenibile quanto impetrato dal ricorrente a p. 14 del proprio ricorso, secondo cui la condanna per lite temeraria non non può essere fondata sulla opinabilità delle argomentazioni . È ben vero che questa Corte ha già stabilito che la mera infondatezza in iure delle tesi prospettate in giudizio non può di per sé integrare gli estremi della responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c. Sez. U, Ordinanza n. 25831 del 11/12/2007, Rv. 600837 . E tuttavia, da un lato, la mera infondatezza d’una tesi giuridica non va confusa con la sua manifesta insostenibilità chi sostenesse in un atto giudiziario - ad esempio - essere il testamento un contratto, o che la prescrizione ordinaria maturi in 30 anni, o che un credito si possa usucapire, non potrebbe sfuggire ragionevolmente ad una condanna ex art. 96 c.p.c. dall’altro lato la mera infondatezza delle tesi giuridiche sostenute in giudizio non può costituire da sola e di per sé fondamento d’una condanna ex art. 96 c.p.c. ma se si associasse ad altri elementi come, nel caso di specie, la ritenuta inveridicità dei fatti invocati e la chiamata in causa di terzi del tutto pretestuosa essa ben potrebbe costituire un indice sintomatico della colpa grave. Inoltre l’orientamento sopra ricordato secondo cui sostenere tesi infondate in giudizio non sarebbe di per sé indice di colpa grave , ai fini della condanna per responsabilità aggravata , quale che ne fosse la condivisibilità all’epoca in cui fu formulato, in ogni caso oggi non è più coerente né con la natura e la funzione del giudizio di legittimità, né col quadro ordinamentale. Non è coerente con le prime, perché non considera come il legislatore abbia, negli ultimi anni, proceduto ad un progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia assegnato alla Corte di cassazione sono dimostrazione di questa tendenza, ad esempio, l’art. 360 bis, n. 1, c.p.c., il quale sanziona con la dichiarazione di inammissibilità rectius, manifesta infondatezza il ricorso che censuri un orientamento consolidato, senza offrire elementi per sostenerne il mutamento la novella dell’art. 363, comma primo, c.p.c., che ha ampliato il novero dei casi in cui è consentito alla Corte di pronunciare il principio di diritto nell’interesse della legge od ancora all’introduzione dell’art. 374, terzo comma, c.p.c., che inibisce alle singole sezioni della Corte di cassazione di porsi in contrasto con gli orientamenti delle Sezioni Unite, senza previamente rimettere la questione a queste ultime. Da queste modifiche emerge l’intento del legislatore di rafforzare e qualificare la funzione di legittimità e il suo scopo di nomofilachia, intento che resterebbe ovviamente frustrato se la Corte non fosse investita solo di ricorsi che meritino e rendano necessario il suo intervento. L’orientamento qui in discussione, inoltre, non è coerente col mutato quadro ordinamentale, perché non tiene conto a del principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 cost., che impone interpretazioni delle norme processuali idonee a rendere più celere il giudizio b del principio che considera illecito l’abuso del processo, ovvero il ricorso ad esso con finalità strumentali ex multis, da ultimo, Sez. 2, Sentenza n. 10177 del 18/05/2015, Rv. 635418 c del principio secondo cui le norme processuali vanno interpretate in modo da evitare lo spreco di energie giurisdizionali così, da ultimo, Sez. U, Sentenza n. 1.2310 del 15/06/2015, Rv. 635536, in motivazione . Vale la pena, infine, soggiungere che l’orientamento qui in contestazione, in ogni caso, risulta essere stato abbandonato dalle decisioni più recenti di questa Corte, che si sono allineate al diverso principio secondo cui la palese insostenibilità delle tesi giuridiche prospettate in giudizio ben può costituire fondamento d’una condanna ex art. 96 c.p.c. ex anis, Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 3376 del 22/02/2016, Rv. 638887 Sez. 5, Sentenza n. 15030 del 17/07/2015, Rv. 636051 Sez. 3, Sentenza n. 4930 del 12/03/2015, Rv. 634773 Sez. 3, Sentenza n. 817 del 20/01/2015, Rv. 634642 . 3.6. Nella parte in cui censura il quantum debeatur della condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., il motivo è infine inammissibile, investendo una valutazione equitativa non sindacabile in questa sede. 3.4. Nella parte in cui lamenta la violazione della tariffa forense il terzo motivo di ricorso è in parte inammissibile, ed in parte infondato. 3.5. Nella parte in cui lamenta la sovrastima delle spese del primo grado di giudizio, il motivo è inammissibile. Nel ricorso infatti non si indica per quale ragione fu impugnata la relativa statuizione dalla sentenza d’appello parrebbe che la sentenza di primo grado fu censurata per non avere compensato le spese, non per il quantum di queste ultime . Il ricorso, dunque, è aspecifico e per ciò inammissibile ai sensi dell’art. 366, nn. 3 e 6, c.p.c 3.6. Nella parte in cui lamenta la sovrastima delle spese del giudizio di appello il motivo è infondato. Per quanto concerne gli onorari di avvocato, la Corte d’appello li ha liquidati in Euro 1.200 è la stessa parte ricorrente ad allegare che la misura massima sarebbe stata di Euro 1.365, dunque violazione di legge non vi fu. Stabilire, poi, quale debba essere la giusta misura dell’onorario professionale, all’interno della forbice prevista dalla legge tra minimo e massimo, è valutazione riservata al giudice di merito, e costituisce un apprezzamento di fatto. 3.7. Per quanto concerne la misura dei diritti, la motivazione della sentenza impugnata deve essere corretta, ma il ricorso va comunque rigettato. Il Tribunale di Monza, infatti, ha affermato di voler liquidare i diritti in via equitativa , a causa della sopravvenuta abrogazione delle tariffe professionali. Ma tale affermazione è erronea in lure, dal momento che ai sensi dell’art. 9, comma 3, d.l. 24.1.2012 n. 1, le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2 e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto . Essendo stata la sentenza d’appello depositata il 12.3.2012, il Tribunale avrebbe dovuto dunque applicare la tariffa di cui al d.m. 127/04 in via diretta, e non in via equitativa. Cionondimeno, il ricorso va rigettato perché il dispositivo della sentenza d’appello è conforme a diritto. Il Tribunale ha infatti liquidato a titolo di diritti di avvocato , di cui alla Tabella B allegata al d.m. 8.4.2004 n. 127, la somma di Euro 700. L’applicazione della tariffa in via diretta, invece che in via equitativa, avrebbe dato un risultato sostanzialmente analogo. Sarebbero stati infatti dovuti al difensore dell’appellato vincitore i seguenti importi Voce Diritti dovuti. esame dispositivo sentenza 23 posizione e archivio 45 disamina 11 comparsa 45 autentica 11 costituzione 11 esame scritti c.t.p. per tre 69 esame documenti 23 per ogni scritto 90 esame ordinanza 11 formazione del fascicolo 11 partecipazione alle udienza 46 consultazioni col cliente 45 deposito in cancelleria 22 precisazione delle conclusioni 45 esame delle conclusioni avverse 135 ritiro conclusionali avverse 33 deposito della nota spese 23 ritiro fascicolo e sentenza 11 Totale 710. La liquidazione, dunque, non ha ecceduto la tariffa. 4. Le spese. 4.1. Le spese del presente grado di giudizio vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c., e sono liquidate nel dispositivo. 4.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228 . P.Q.M. la Corte di cassazione, visto l’art. 380 c.p.c. - rigetta il ricorso - condanna M.G. alla rifusione in favore di F.R. delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro 1.500, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, d.m. 10.3.2014 n. 55 - dà atto che sussistono i presupposti previsti dall’art. 13, comma 1 quater, d.p.r. 30.5.2002 n. 115, per il versamento da parte di M.G. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.