Rimozione dall’impiego ed estinzione del rapporto per il magistrato colpevole

La sanzione della rimozione e la sanzione dell’estinzione del rapporto d’impiego per i magistrati sono applicabili congiuntamente, in quanto risultano gravanti su due piani distinti, una su quello disciplinare e l’altra su quello penale.

Così ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4004/16, depositata il 29 febbraio. Il caso. Un magistrato adisce la Cassazione avverso la sentenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Il ricorrente, sospeso dalle funzioni e dallo stipendio, veniva prima condannato definitivamente per il delitto di corruzione in atti giudiziari, che comportava anche l’applicazione della pena accessoria dell’estinzione del rapporto d’impiego, ex art. 32– quinquies c.p., e dell’interdizione dai pubblici uffici, e poi veniva sottoposto a procedimento disciplinare. Con la sentenza del CSM veniva condannato alla sanzione della rimozione dall’incarico, in quanto ritenuto responsabile dell’illecito di cui agli artt. 18 del R.d.l. n. 511/1946 e 4 lett. d del d.lgs. n. 109/2006. La Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, rilevava che il giudicato penale di condanna escludesse la possibilità di discutere circa l’esistenza dei fatti, di cui era incolpato il ricorrente, e che l’estinzione del rapporto d’impiego non precludesse la conclusione del procedimento disciplinare con una pronuncia sul merito delle accuse. Veniva così affermata la responsabilità per l’illecito ascritto all’imputato e ritenuto che dovesse essere applicata la sanzione della rimozione, che, ex art. 12, comma 5, d.lgs. n. 109/2006, si applica al magistrato che incorre nell’interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici a causa di una condanna penale. Motivo del ricorso è la violazione o falsa applicazione dell’art. 32- quinquies c.p., che imporrebbe di diritto l’estinzione del rapporto d’impiego alla condanna per delitti che destano notevole allarme sociale, senza attendere l’esito del procedimento disciplinare posto in essere, che quindi comporta un’estinzione de iure del rapporto di lavoro pubblico, come conseguenza accessoria della condanna penale irrevocabile. Quindi a parere del ricorrente non potrebbero risultare applicabili congiuntamente le sanzioni dell’estinzione e della rimozione dall’incarico, poiché l’estinzione farebbe decadere la giurisdizione disciplinare del CSM. Disposizioni legislative e disciplinari. La Cassazione evidenza che l’art. 5 della l. n. 97/2001 ha aggiunto al catalogo delle pene accessorie l’estinzione del rapporto di impego, così determinando, ex l’art. 32- quinquies c.p., che la condanna alla reclusione per un periodo non inferiore a tre anni, per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione, comporti anche l’estinzione del rapporto di lavoro o impiego nei confronti del dipendente pubblico. Inoltre, la disciplina relativa agli illeciti disciplinari dei magistrati, d.lgs. n. 109/2006, stabilisce all’art. 19 il principio secondo cui l’azione disciplinare è promossa indipendentemente dall’azione penale relativa allo stesso fatto . Il medesimo articolo prevede anche che, la sentenza irrevocabile di condanna ha autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell’affermazione che l’imputato lo ha commesso . I Giudici di legittimità ricordano anche che l’art. 12, comma 5, d.lgs. n. 109/2006, stabilisce che la sanzione della rimozione sia applicabile al magistrato condannato in sede disciplinare per i fatti illeciti disciplinari commessi fuori dall'esercizio delle sue funzioni, che incorre nella interdizione dai pubblici uffici in seguito alla condanna penale o che comunque incorre in una condanna penale per delitto non colposo non inferiore ad un anno. Diversità della natura delle due sanzioni. Dopo questi brevi richiami la Corte statuisce che la Sezione disciplinare del CSM ha correttamente preso atto del giudicato penale di condanna ed ha affermato la responsabilità disciplinare del magistrato, ritenendo, ex art. 12, comma 5, d.lgs. n. 109/2006, dovesse applicarsi la sanzione della rimozione, infatti, le due sanzioni risultano applicabili congiuntamente, poiché gravano su due piani distinti, una su quello penale e l’altra su quello disciplinare. Per rimarcare la diversità insita nella natura della sanzione disciplinare rispetto alla pena accessoria, la Corte sottolinea che la sanzione penale nel corso del tempo può estinguersi per amnistia o riabilitazione, mentre la sanzione disciplinare fa permanere nel tempo i suoi effetti afflittivi. Seguendo il ragionamento degli Ermellini, si osserva che la nuova disciplina sugli illeciti disciplinari dei magistrati, d.lgs. n. 109/2006, non ha previsto forme di riabilitazione per la sanzione disciplinare. La Cassazione, ricordando la sentenza n. 289/1992 della Corte Costituzionale, dichiarativa dell’inapplicabilità ai magistrati delle forme di riabilitazione previste per gli impiegati civili dello Stato, afferma che, nonostante il comune nucleo normativo tra le diverse forme di riabilitazione da sanzioni disciplinari, ciascuna di queste costituisce un modello a sé stante, frutto della diversa combinazione degli elementi costitutivi. La scelta di affidare alla riabilitazione o a meccanismi per l’eliminazione degli effetti della condanna disciplinare spetta al legislatore, che, nell’esercizio della sua discrezionalità politica, valuta quale modello sia più coerente con il sistema disciplinare considerato. Per questi motivi la Cassazione ha rigettato il ricorso sottoposto alla sua attenzione.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 22 settembre 2015 – 29 febbraio 2016, n. 4004 Presidente Rovelli – Relatore Greco Svolgimento del processo Il magistrato G.L., già sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e quindi condannato definitivamente per il delitto di corruzione in atti giudiziari alla pena principale di quattro anni e nove mesi di reclusione ed alle pene accessorie dell'estinzione del rapporto d'impiego, come previsto dall'art. 32-quinquies del codice penale, e dell'interdizione dai pubblici uffici per tre anni, a nonna dell'art. 29 dello stesso codice, è stato sottoposto a procedimento disciplinare. Ritenuto responsabile dell'illecito di cui agli artt. 18 del r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511, e 4, lettera d , del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, è stato condannato alla sanzione della rimozione. La Sezìone disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, rilevato che il giudicato penale di condanna escludeva potesse porsi in discussione l'esistenza dei fatti di cui l'incolpato era chiamato a rispondere, e che l'estinzione del suo rapporto di impiego con l'amministrazione della giustizia non precludeva una conclusione del procedimento disciplinare con una pronuncia sul merito delle accuse, ne ha infatti affermato la responsabilità per l'illecito ascrittogli ed ha ritenuto che dovesse essergli necessariamente irrogata la detta sanzione della rimozione, la quale, a norma dell'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, si applica al magistrato che incorre nella interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale . Ha osservato, infatti, che l'art. 32-quínquies del codice penale prevede che, salva la interdizione dai pubblici uffici, importa l'estinzione del rapporto d'impiego la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni per i delitti di cui agli artt. 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater, primo comma, e 320 c.p. Poiché la sanzione disciplinare della rimozione è prevista dall'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006 per gli stessi fatti che comportano l'estinzione del rapporto d'impiego a norma dell'art. 32-quinquies c.p., deve ritenersi che estinzione del rapporto d'impiego, a nonna dell'art. 32-quinquies c. p., e rimozione, ai sensi dell'art. 12, cortina 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, siano due sanzioni che possono risultare applicate congiuntamente, rispettivamente sul piano penale e su quello disciplinare. Nei confronti della decisione il Lamberti ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, illustrati con successiva memoria. Motivi della decisione Con il primo motivo, denunciando violazione o falsa applicazione dell'art. 32-quínquíes c.p. in relazione all'art. 19, primo cormia, n. 5-bis, c.p., il ricorrente assume che intento del legislatore, con l'introduzione nel 2001 dell'art. 32-quinquies c.p., sarebbe far conseguire di diritto l'estinzione del rapporto d'impiego alla condanna per delitti che destano notevole allarme sociale senza attendere l'esito del procedimento disciplinare, vale a dire l'estinzione de iure del rapporto di lavoro pubblico, sotto forma di mera conseguenza accessoria della condanna penale irrevocabile del pubblico dipendente per alcuni delitti contro la p.a., e che quindi apodittica ed incongrua sarebbe l'affermazione secondo cui le due sanzioni possono risultare applicate congiuntamente, rispettivamente sul piano penale e su quello disciplinare. L'intervenuta definitiva estinzione del rapporto d'impiego ai sensi dell'art. 32 quinquies c.p. farebbe infatti decadere la giurisdizione disciplinare del C.S.M. così come ad esempio la decadenza dall'ufficio per assenza protratta oltre quindici giorni o l'accoglimento delle dimissioni , che non può pertanto rimuovere chi già non appartiene più all'Ordine Giudiziario per ormai sopravvenuta estinzione del rapporto d'impiego . Con il secondo motivo, denunciando violazione di legge per mancante o apparente motivazione art. 111, comma 6, Cost. e art. 125 c.p.p. , il ricorrente assume che la motivazione della sentenza impugnata, redatta in forma confusa, sarebbe palesemente assertiva e tautologica, non offrendo alcuna dimostrazione logico giuridica o normativa delle ragioni su cui fonda l'affermazione per cui le due sanzioni possano essere applicate congiuntamente. I due motivi del ricorso, che siccome strettamente legati vanno esaminati congiuntamente, sono infondati. La legge 27 marzo 2001, n. 97, con l' art. 5 ha aggiunto al catalogo delle pene accessorie per i delitti contenuto nel primo comma dell'art. 19 del codice penale, al numero 5-bis , l'estinzione del rapporto di impiego o di lavoro , stabilendo, con un art. 32-quinquies Casi nei quali alla condanna consegue l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego introdotto nel codice, che la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni per i delitti di cui agli artt. 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, e 320 del codice penale importa altresì l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni o enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica. Con riguardo alla disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati e delle relative sanzioni, il d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, fissa all'art. 19 il principio secondo cui l'azione disciplinare è promossa indipendentemente dall'azione penale relativa allo stesso fatto , e secondo cui la sentenza irrevocabile di condanna ha autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell'affermazione che l'imputato lo ha conmesso . Segnatamente, in ordine alla sanzione della rimozione - abrogando, tra l'altro, l'art. 19 del r.d. 31 maggio 1946, n. 511, secondo cui il magistrato, al quale è attribuito un fatto che può importare la rimozione o la destituzione, non ha diritto di sottrarsi al procedimento disciplinare e ai conseguenti provvedimenti per effetto delle sue dimissioni, che il Ministro per la grazia e giustizia ha facoltà di respingere -, il detto d.lgs. n. 109 del 2006, all'art. 12, coana 5, stabilisce che si applica la sanzione della rimozione al magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall'art. 3, correa 1, lettera e , che incorre nella interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale o che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore ad un anno . Ciò posto, deve anzitutto escludersi che la sentenza impugnata non abbia dato conto delle ragioni dell'applicabilità, e dell'applicazione nella fattispecie, della sanzione disciplinare della rimozione del magistrato, anche dopo l'irrogazione, ad opera del giudice penale, della sanzione penale accessoria dell'estinzione del rapporto d'impiego. La Sezione disciplinare, infatti, preso atto del giudicato penale di condanna in ordine all'esistenza dei fatti dei quali il magistrato era chiamato a rispondere , ed affermata la responsabilità anche disciplinare del magistrato, ha ritenuto che in base all'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, che espressamente prevede la sanzione della rimozione per gli stessi fatti che comportano l'estinzione del rapporto d'impiego a norma dell'art. 32 bis del codice penale , all'incolpato doveva essere necessariamente irrogata la sanzione della rimozione , potendo risultare le due sanzioni applicate congiuntamente, rispettivamente sul piano penale e su quello disciplinare . Nell'avere dunque diversa natura, ed in sintonia con il principio secondo cui l'azione disciplinare è promossa indipendentemente dall'azione penale relativa allo stesso fatto , risiede la ragione dell'applicabilità congiunta delle due sanzioni. Per connotare la diversa natura della sanzione disciplinare rispetto alla pena accessoria è sufficiente ricordare che quest'ultima, come la generalità delle sanzioni penali, nel corso del tempo può estinguersi, in forza di amnistia art. 151, primo correva, del codice penale o per effetto della riabilitazione art. 178 c.p. , laddove la permanenza degli effetti della sanzione disciplinare ne rivela, con evidenza nel caso della più severa di esse quale è la rimozione, la specifica afflittività. Ciò comporta che in tali ipotesi non è dato ravvisare la sopravvenuta carenza di interesse da parte dell'amministrazione alla prosecuzione del giudizio disciplinare, posta da queste Sezioni unite in altri casi di cessazione dal servizio - pervero non in presenza di estinzione del rapporto di impiego ai sensi dell'art. 32 bis c.p. - a fondamento della dichiarata improseguibilità del procedimento disciplinare. Ora, la nuova disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, dettata dal d.lgs. n. 109 del 2006, non ha previsto forme di riabilitazione o analoghi istituti in proposito non è superfluo rilevare che, nel dichiarare con la sent. n. 289 del 1992 l'illegittimità costituzionale della norma che consentiva l'applicazione ai magistrati della riabilitazione prevista per gli impiegati civili dello Stato colpiti da sanzione disciplinare, la Corte costituzionale osservava che se è ben vero che in ciascuna delle forme di riabilitazione previste nell'ordinamento vigente - segnatamente sia nella riabilitazione penale art. 178 c.p. e in quella civile art. 466 c.c. , sia nella riabilitazione dei pubblici impiegati art. 87, del d.P.R. n. 3 del 1957 e in quella del fallito artt. 142 145 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 - si riscontra un nucleo normativo comune, tanto con riferimento ai presupposti per l'applicazione decorso del tempo e valutazione della buona condotta quanto con riferimento agli effetti estinzione di specifiche incapacità giuridiche e di effetti ulteriori rispetto alla sanzione principale della condanna , non è meno vero che ciascuna delle forme di riabilitazione indicate costituiscono un modello a sé, composto da una diversa combinazione e da una diversa determinazione degli elementi essenziali sopra ricordati. E non vi è dubbio che la scelta di un modello ovvero di un altro e, persino, la scelta di affidare alla riabilitazione ovvero a meccanismi diversi l'eliminazione degli effetti ulteriori della condanna disciplinare spettano al legislatore, il quale, nell'esercizio non irragionevole della sua discrezionalità politica, deve valutare quale istituto o quale modello sia più coerente con il sistema disciplinare considerato . In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. P.Q.M. La Corte, a sezioni unite, rigetta il ricorso.