Utilizzo lecito di una parola contenuta in un marchio come ditta dell’impresa concorrente

L’inserimento nella ditta o nell’insegna di una parola facente parte di un marchio brevettato da altro imprenditore ma non usato dallo stesso anche come ditta o insegna è lecito, in considerazione della diversa funzione dei rispettivi segni distintivi e della mancanza di una diversa previsione normativa, sempre che quella ditta od insegna vengano utilizzate solo quali strumenti di individuazione dell’impresa o dello stabilimento, non anche per identificare o pubblicizzare prodotti e cioè sostanzialmente come marchi, così da determinare violazione dell’altrui privativa.

Questo l’orientamento ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 22350, depositata il 2 novembre 2015. Marchio forte. Nel caso di specie la Corte di Appello territoriale, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava la nullità dei marchi Tazza d’Oro” e Caffè Tazza d’Oro”, di cui ribadiva inoltre l’interdizione al loro utilizzo come segni. Infatti, secondo i giudici dell’appello, i due marchi, acquisiti per successione ereditaria, dovevano essere qualificati come forti, nonostante il generico riferimento al caffè in ragione della fantasia e dell’originalità espresse nell’accostamento tra le parole e la raffigurazione grafica di una tazzina stilizzata, che attribuiva un’elevata portata individualizzante all’attributo d’oro”, privo di legami diretti con il prodotto. Contro questa sentenza, la ricorrente si lamentava su diversi punti di decisione tra i quali, il più interessante, appare quello richiamato in principio del presente commento. Infatti, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2563 c.c. e degli artt. 4, 17, 22 e 47 del r.d. n. 929/42, lamentando che i giudici di merito avevano erroneamente dichiarato la nullità dei marchi The Original Tazza d’Oro coffee” e La casa del Caffè Tazza d’Oro”, riproduttivi dell’insegna Tazza d’Oro” da lei utilizzati sin dal 1946, prima che il dante causa nel 1984 registrasse l’analogo marchio. Funzione della ditta, dell’insegna e della denominazione sociale. Come ricordano e insegnano i giudici del Palazzaccio, la ditta ha la funzione di identificare l’imprenditore come soggetto di diritti. Per questo motivo l’art. 2563 c.c. esige che ne includa almeno il cognome o la sigla. L’insegna ha invece la funzione di identificare un determinato stabilimento nel quale l’attività imprenditoriale viene esercitata. Si ribadisce inoltre – come si legge nel corpo della sentenza in commento – che la denominazione sociale è il nome necessario di una società di capitali, in qualche misura equivalente al nome della persona fisica, ed è perciò possibile tenerla distinta dalla ditta, che individuando l’impresa non deve necessariamente coincidere con la denominazione sociale. In tal modo risulta del tutto legittimo che la stessa società possa utilizzare diverse ditte, destinate ad identificare sue eventualmente diverse attività imprenditoriali, purché nel rispetto del principio di verità imposto dall’art. 2563 vi sia una connessione con la denominazione sociale. Come si diceva poco sopra, secondo i giudici di Piazza Cavour, risulta lecito inserire una parola del marchio brevettato da altro imprenditore nella ditta o nell’insegna. Infatti, il concetto di ditta, diretto a designare genericamente ed unitariamente il nome sotto cui l’imprenditore esercita l’impresa, non ha una diretta attinenza con i prodotti fabbricati o venduti o con i servizi prestati, e si distingue, pertanto, sia del marchio in generale, sia del cosiddetto marchio di servizio”, destinato a contraddistinguere una specifica attività o branca di attività tra quelle esercitate dall’impresa, sia dall’insegna, che non identifica né il prodotto né l’attività o branca di attività, bensì un bene aziendale presso il quale o mediante il quale un prodotto viene posto in commercio. Utilizzo lecito della ditta. Nel caso in esame – concludono i giudici della Corte di Cassazione – la ricorrente poteva legittimamente continuare nell’uso della ditta Tazza d’Oro” anche dopo la registrazione di un marchio identico, mentre non poteva utilizzare anche come marchio la sua ditta, in ciò accogliendo il principio, pacifico in giurisprudenza, secondo cui anche nell’ipotesi in cui due imprese operino nello stesso mercato, è lecito inserire nella propria ditta una parola che già faccia parte di un marchio di cui sia titolare altro imprenditore, ma non risulta consentito usare quella parola anche come marchio, in funzione di presentazione immediata o mediata attraverso forme pubblicitarie dei prodotti o servizi offerti. Da qui il rigetto del ricorso principale.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 21 ottobre – 2 novembre 2015, numero 22350 Presidente Forte – Relatore Nappi Svolgimento del processo Con la sentenza impugnata la Corte d'appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado e in accoglimento di domande proposte da F.M. e dalla Tazza d'Oro s.r.l., dichiarò la nullità dei marchi The Original Tazza d'Oro coffee e La casa del Caffè Tazza d'Oro registrati da F.N., cui ribadì altresì l'interdizione all'utilizzazione dei segni Tazza d'Oro e Caffè Tazza d'Oro . Ritennero i giudici d'appello che i inarchi Tazza d'Oro e Caffè Tazza d'Oro , acquisiti per successione ereditaria, dovevano essere qualificati come forti, nonostante il generico riferimento al caffè, in ragione della fantasia e dell'originalità espresse nell'accostamento tra le parole e la raffigurazione grafica di una tazzina stilizzata, che attribuiva un'elevata portata individualizzante all'attributo d'oro , privo di legami diretti con il prodotto. Sicché i marchi The Original Tazza d'Oro coffee e La casa del Caffè Tazza d'Oro , privi del requisito della novità, erano nulli. Quanto alle domande di risarcimento dei danni e di pubblicazione della sentenza, già avanzate in primo grado da F.M. e Tazza d'oro s.r.l., i giudici d'appello ne ribadirono il rigetto, per la mancata allegazione di elementi utili a determinare il danno lamentato e per il tempo decorso dai fatti, che rendeva inattuale l'invocata pubblicazione. Contro questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione F.N. sulla base di cinque motivi di impugnazione, cui resistono con controricorso F.M. e Tazza d'oro s.r.l., proponendo altresì ricorso incidentale affidato a tre motivi. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 345 ultimo comma c.p.c. e vizi di motivazione della decisione impugnata. Lamenta che i giudici d'appello abbiano accolto la domanda di nullità dei suoi marchi The Original Tazza d'Oro coffee e La casa del Caffè Tazza d'Oro in ragione della ritenuta natura forte dei contrapposti marchi Tazza d'Oro e Caffè Tazza d'Oro , fondata sulla produzione solo in appello della domanda proposta da Massimiliano Fiocchetto e Tazza d'Oro s.r.l. per la loro registrazione, dalla quale risultava che i marchi includevano anche il disegno stilizzato di una tazzina. E di tale produzione la corte non aveva valutato l'indispensabilità al fine di ammetterne le tardiva produzione. Il motivo è infondato. Occorre premettere che, secondo la giurisprudenza di questa corte formatasi prima della riforma del 2012, il giudizio di indispensabilità della prova nuova in appello - previsto dall'art. 345, terzo comma, c.p.c. con riferimento al rito di cognizione ordinaria e dall'art. 437, secondo comma, in relazione al processo del lavoro - non attiene al merito della decisione, ma al rito, in quanto la relativa questione rileva ai fini dell'accertamento della preclusione processuale eventualmente formatasi in ordine all'ammissibilità di una richiesta istruttoria di parte ne consegue che, nel caso in cui venga dedotta in sede di legittimità l'erronea ammissione di una prova documentale non indispensabile da parte del giudice di appello, la Corte di cassazione, chiamata ad accertare un error in procedendo, è giudice anche del fatto, ed è quindi tenuta a stabilire essa stessa se si trattasse di prova indispensabile” Cass., sez. I, 17 giugno 2009, numero 14098, m. 609187, Cass., sez. III, 24 febbraio 2011, numero 4478, m. 616057 . Ciò posto, deve ritenersi che in un giudizio promosso per l'accertamento della contraffazione di un marchio e per la conseguente dichiarazione di nullità del marchio contrapposto, è prova documentale indispensabile quella relativa alla registrazione dei marchi e alla descrizione del segno. 2. Con il secondo motivo la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione degli art. 4, 17, 22 e 47 del r.d. numero 929/1942, applicabile ratione temporis. Sostiene di avere presentato nel 1997 la domanda di registrazione dei suoi marchi The Original Tazza d'Oro coffee e La casa del Caffè Tazza d'Oro , registrati poi in corso di causa, ma con effetto retroattivo decorrente dalla domanda. Sicché i giudici del merito non avrebbero potuto dichiararne la nullità per interferenza con i marchi depositati solo nel 1998 da Massimiliano Fiocchetto e Tazza. d'oro s.r.l Il motivo è palesemente infondato. La ricorrente non contesta che l'uso dei marchi rivendicati da F.M. e Tazza d'oro s.r.l. risalisse a epoca precedente la domanda di registrazione dei suoi marchi, essendo indiscusso che, come rilevato anche dai giudici del merito, si trattava di segni trasmessi per successione mortis causa dal genitore delle parti. Ne consegue che, essendo certo il preuso dei marchi Tazza d'Oro e Caffè Tazza d'Oro da parte dei resistenti, ne conseguiva la nullità dei marchi successivamente registrati da F.N Secondo la giurisprudenza di questa corte, infatti, il preuso di un marchio di fatto con notorietà nazionale comporta tanto il diritto all'uso esclusivo del segno distintivo da parte del preutente, quanto l'invalidità del marchio successivamente registrato ad opera di terzi, venendo in tal caso a mancare fatta salva la convalidazione di cui all'art. 48 del regio decreto 21 giugno 1942, numero 929 il carattere della novità, che costituisce condizione per ottenerne validamente la registrazione” Cass., sez. I, 26 settembre 2003, numero 14342, m. 567192, Cass., sez. I, 25 giugno 2007, numero 14684, m. 597341 . 3. Con il terzo motivo la ricorrente principale deduce vizio di motivazione della decisione impugnata in ordine alla ritenuta natura forte dei marchi Tazza d'Oro e Caffè Tazza d'Oro rivendicati da F.M. e Tazza d'oro s.r.l Lamenta che i giudici del merito abbiano omesso di indicare i criteri in ragione dei quali hanno considerato forti tali inarchi e abbiano fatto riferimento alla continuità del loro uso, mentre i rei-stenti ne avevano vantato la notorietà. Il motivo è infondato. I giudici d'appello hanno qualificato come forti i marchi Tazza d'Oro e Caffè Tazza d'Oro , nonostante il generico riferimento al caffè, in ragione della fantasia e dell'originalità espresse nell'accostamento tra le parole e la raffigurazione grafica di una tazzina stilizzata, che attribuiva un'elevata portata individualizzante all'attributo d'oro , privo di legami diretti con il prodotto. Il giudizio così espresso è del tutto conforme alla giurisprudenza di questa corte, che considera forte un marchio appunto quando la combinazione dei segni che lo compongono rivesta un particolare carattere distintivo in ragione dell'originalità e della fantasia nel relativo accostamento” Cass., sez. I, 18 gennaio 2013, numero 1249, m. 624851 . Sicché è incensurabile la valutazione espressa dai giudici del merito. 4. Con il quarto motivo la ricorrente principale deduce violazione dell'art. 112 c.p.c., lamentando che i giudici d'appello, oltre ad accogliere la domanda di nullità dei marchi controversi, abbiano ribadito anche la decisione inibitoria, benché la relativa domanda non fosse stata riproposta. Il motivo è manifestamente infondato. F.M. e Tazza d'oro s.r.l., attori parzialmente vittoriosi in primo grado per avere ottenuto dal tribunale l'inibitoria di cui ora discute la ricorrente, proposero appello avverso la sentenza nella parte in cui ne aveva rigettato la domanda intesa alla dichiarazione di nullità dei marchi The Original Tazza d'Oro coffee e La casa del Caffè Tazza d'Oro , registrati da F.N., chiedendo tra l'altro che la nullità venisse dichiarata. F.N. appellò in via incidentale la sentenza del tribunale, chiedendone la riforma della statuizione inibitoria. La corte d'appello accolse il motivo d'appello di F.M. e Tazza d'oro s.r.l., dichiarando la dedotta nullità, e, rigettato l'appello incidentale, confermò nel resto la sentenza, inclusa la decisione inibitoria. Non vi fu dunque alcuna violazione dell'art. 112 c.p.c., perché gli appellanti principali non dovevano affatto riproporre la domanda che avevano già visto accolta dal tribunale. Quelle che debbono essere riproposte in appello, secondo quanto prevede l'art. 346 c.p.c., sono le domande non accolte, non quelle accolte. 5. Con il quinto motivo la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2563 c.c. e degli art. 4, 17, 22 e 47 del r.d. numero 929/1942, lamentando che i giudici del merito abbiano erroneamente dichiarato la nullità dei marchi The Original Tazza d'Oro coffee e La casa del Caffè Tazza d'Oro , riproduttivi della ditta e dell'insegna Tazza d'Oro da lei utilizzati sin dal 1946, prima che il comune dante causa registrasse nel 1984 l'analogo marchio. Il motivo è infondato. Occorre premettere alcune precisazioni preliminari. La ditta ha la funzione di identificare l'imprenditore come soggetto di diritti e per questa ragione l'art. 2563 c.c. esige che ne includa almeno il cognome o la sigla Cass., sez. I, 10 luglio 2009, numero 16283, m. 608997 . L'insegna ha invece la funzione di identificare un determinato stabilimento nel quale l'attività imprenditoriale viene esercitata Cass., sez. I, 23 aprile 1966, numero 1042, m. 322091 . La denominazione sociale è il nome necessario di una società di capitali, in qualche misura equivalente al nome della persona fisica, ed è perciò possibile tenerla distinta dalla ditta, che, individuando l'impresa, non deve necessariamente coincidere con la denominazione sociale. Una stessa società può anzi utilizzare diverse ditte, destinate a identificare sue eventualmente diverse attività imprenditoriali, purché, nel rispetto del principio di verità imposto dall'art. 2563 c.c., vi sia una connessione con la denominazione sociale. Secondo la giurisprudenza di questa corte, pertanto, l'inserimento nella ditta o nell'insegna di una parola facente parte di un marchio brevettato da altro imprenditore ma non usato dallo stesso anche come ditta od insegna è lecito, in considerazione della diversa funzione dei rispettivi segni distintivi e della mancanza di una diversa previsione normativa, sempre che quella ditta od insegna vengano utilizzate solo quali strumenti di individuazione dell'impresa o dello stabilimento, non anche per identificare o pubblicizzare prodotti, e cioè sostanzialmente come marchi, sì da determinare violazione dell'altrui privativa” Cass., sez. I, 28 ottobre 1987, numero 7958, m. 455695 . Infatti il concetto di ditta, volto a designare, genericamente ed unitariamente, il nome sotto cui l'imprenditore esercita l'impresa, non ha - salvo che essa venga usata anche come marchio - una diretta attinenza con i prodotti fabbricati o venduti o con i servizi prestati, e si distingue, pertanto, sia dal marchio in generale, sia dal cosiddetto marchio di servizio introdotto in Italia dall'art. 3 della legge numero 1178 del 1959 , destinato a contraddistinguere una specifica attività o branca di attività tra quelle esercitate dall'impresa e dotato di un campo di produzione limitato a tale attività in sé considerata, mentre la ditta è sempre riferibile ad un complesso di attività , sia dall'insegna, che non identifica né il prodotto, né l'attività o branca di attività, bensì un bene aziendale presso il quale o mediante il quale un prodotto viene posto in commercio” Cass., sez. I, 13 giugno 2000, numero 8034, m. 537549 . Nel caso in esame dunque la ricorrente poté legittimamente continuare nell'uso della ditta Tazza d'Oro anche dopo che nel 1984 fu registrato l'identico marchio dal dante causa suo e del F.M Ma essendo stato assegnato a costui il marchio, non può la ricorrente utilizzare anche come marchio la sua ditta, perché, come ha chiarito da tempo la giurisprudenza, anche nell'ipotesi in cui due imprese operino nello stesso mercato, è lecito inserire nella propria ditta una parola che già faccia parte di un marchio di cui sia titolare altro imprenditore ., ma non è consentito usare quella parola anche come marchio, in funzione di presentazione immediata, o mediata attraverso forme pubblicitarie, dei prodotti o servizi offerti” Cass., sez. I, 28 aprile 1990, numero 3604, m. 466928 . 6. Il ricorso incidentale, inteso a censurare il mancato riconoscimento del risarcimento dei danni, risulta formulato in tutti i tre motivi con riferimento a una motivazione tutt'affatto diversa da quella esibita dai giudei del merito. Sicché è ragionevole presumere che si riferisca ad altro giudizio, cui gli stessi ricorrenti incidentali fanno cenno nel controricorso, con la conseguenza della inammissibilità dell'impugnazione per difetto di specificità. 7. Si deve pertanto concludere con il rigetto del ricorso principale e la dichiarazione di inammissibilità del ricorso incidentale. Considerata la parziale soccombenza reciproca delle parti, si giustifica la compensazione delle spese. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile il ricorso incidentale e compensa le spese.