Collaborazione interrotta, la professionista vuole la cancellazione dei propri dati dal sito: legittima la richiesta tramite un legale

Evidente la condotta illecita della società proprietaria dello studio sono stati conservati, online, i riferimenti, con nome e cognome, alla professionista. Più che sufficiente la revoca del consenso ufficializzata con una diffida all’azienda da parte del legale di fiducia della professionista. Plausibile anche la richiesta di risarcimento dei danni, poggiata sulla certificazione della sindrome depressiva di cui è rimasta vittima la donna.

Rottura del rapporto lavorativo la dentista abbandona, dopo otto anni di collaborazione, la struttura sanitaria. Obiettivo è voltare pagina, e ciò comporta anche la richiesta, da parte della donna, di vedere cancellati nome e cognome dal sito web dello studio professionale. Sempre seguendo questa linea di pensiero, quindi, è da sanzionare la condotta della s.r.l., proprietaria della struttura, che ha ignorato la richiesta della donna e che ora dovrà provvedere anche versarle un risarcimento Cassazione, sentenza n. 17399, I sez. Civile, depositata oggi . Dati online . Obiettivo chiarissimo, quello perseguito da una dentista vedere oscurati i propri dati personali presenti sul sito web della struttura sanitaria con cui ha collaborato per diversi anni. Tale richiesta, arrivata a seguito della cessazione del rapporto lavorativo e formalizzata con una diffida, a mezzo raccomandata, da parte del proprio legale , però, è stata considerata irrilevante dalla società proprietaria dello studio dentistico. E, a sorpresa, la scelta di mantenere sul sito internet della struttura il collegamento del nome della donna alla società viene ritenuta corretta dai giudici del Tribunale. Per questi ultimi, difatti, non si può parlare di illecito trattamento di dati personali , anche, anzi soprattutto, perché non era valida la revoca del consenso da parte della dentista – revoca contenuta in una diffida – in quanto proveniente dal legale della parte . Riservatezza . Completamente da rivedere, però, la visione tracciata in Tribunale su questo punto si soffermano con attenzione, difatti, i giudici della Cassazione, accogliendo le obiezioni mosse dalla donna. In questo quadro, viene evidenziato che è illogico sostenere, in materia di trattamento dei dati personali, che la revoca debba avvenire, in concreto, con le identiche modalità con cui è stato dato il consenso . Ciò per la semplice ragione, evidenziano i giudici, che le modalità, con cui può essere revocato il consenso, possono essere varie e anche diverse da quelle concretamente utilizzate per la manifestazione dello stesso consenso, purché esprimano, senza formalità, la volontà della persona non a caso, dalla normativa si desume che ai fini della revoca del consenso, i diritti di accesso ai dati, anche al fine di ottenere l’aggiornamento, la rettificazione, l’integrazione, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima e il blocco dei dati, sono esercitati con richiesta ‘senza formalità’ al titolare o al responsabile e anche per il tramite di un incaricato , come, ad esempio, un legale. Ciò significa, sanciscono i giudici, che la revoca del consenso al trattamento dei dati personali può essere espressa dalla persona interessata con richiesta rivolta senza formalità al titolare o al responsabile del trattamento, anche per il tramite di un legale di fiducia . Di questa netta indicazione dovranno tenere conto i giudici del Tribunale, i quali avranno il compito di riesaminare la vicenda. A margine, peraltro, andrà anche affrontato il nodo relativo al risarcimento richiesto dalla donna, la quale ha sostenuto di essere rimasta vittima di una sindrome depressiva proprio a causa della condotta illecita della società titolare dello studio dentistico. Su questo fronte, in particolare, dovranno essere tenuti presenti i referti medici prodotti dalla donna e provenienti da una struttura non pubblica , e non potrà essere ignorata la richiesta, sempre da parte della donna, di una consulenza tecnica d’ufficio medico-legale per certificare la concretezza dei danni personali riconducibili all’illecito messo in atto dalla società.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 26 giugno – 1 settembre 2015, n. 17399 Presidente Di Palma – Relatore Lamorgese Svolgimento del processo 1.- R.R. P. chiese al Tribunale di Milano di ordinare l'oscuramento dei propri dati personali, che assumeva illecitamente trattati dalla società A., struttura sanitaria presso la quale aveva prestato attività professionale, per avere mantenuto sul sito internet il collegamento del suo nome alla società, nonostante l'intervenuta cessazione del rapporto lavorativo e nonostante che, con raccomandata 4.2.2010, a mezzo del proprio difensore, l'avesse diffidata a rimuovere ogni riferimento alla sua persona dai siti web riconducibili alla predetta società chiese di essere risarcita per i danni non patrimoniali che aveva subito. 2.- La società A. chiese il rigetto del ricorso. 3.- Il Tribunale, nel rigettare la domanda con sentenza 19.1.2012, per quanto ancora interessa, ha ritenuto che non risultasse integrata la fattispecie di illecito trattamento di dati personali, non sussistendo l'elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio, vale a dire il perdurante trattamento di dati in presenza di una revoca del consenso da parte dell'interessato, dal momento che non era valida la revoca contenuta nella diffida del 4.2.2010, in quanto proveniva dal legale della parte inoltre, non era stata offerta la prova del danno non patrimoniale lamentato. 4.- Avverso questa sentenza la P. ricorre per cassazione sulla base di cinque mezzi, cui si oppone la società A. con controricorso e memoria. Motivi della decisione 1.- Nel primo motivo è denunciata la nullità della sentenza impugnata per ultrapetizione, essendosi il giudice di merito pronunciato su un fatto costitutivo della fattispecie risarcitoria - cioè sulla validità, che si assume erroneamente negata, della revoca del consenso al trattamento dei dati personali - non eccepito dalla convenuta ma erroneamente rilevato d'ufficio dal giudice. 1.1.- Il motivo è infondato. Il Tribunale, al fine di valutare la fondatezza della domanda della P., ha rilevato la mancanza di un elemento costitutivo della fattispecie illecita, cioè di una valida revoca del consenso al persistente trattamento dei dati personali, con conseguente insussistenza della denunciata violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. 2.- Nel secondo motivo è denunciata la violazione delle norme in materia di revoca del consenso al trattamento dei dati personali, avendo il giudice di merito disconosciuto il principio della libertà della forma della revoca, nel rispetto dell'unico requisito dell'idoneità del mezzo prescelto rispetto allo scopo perseguito. Nel terzo motivo è denunciata contraddittorietà della motivazione, per avere ritenuto che la revoca debba avere gli stessi requisiti di forma richiesti per il consenso al trattamento dati e, allo stesso tempo, che non sia ammissibile la revoca per fatti concludenti di un consenso prestato per fatti concludenti. Nel quarto motivo è denunciata insufficienza motivazionale in ordine alla insussistenza della revoca del consenso. 2.1. I suddetti motivi, da esaminare congiuntamente, sono fondati nei termini di cui si dirà. La prima ratio enunciata dal giudice di merito è che l'attrice non avrebbe manifestato alcuna revoca espressa del consenso al trattamento dei suoi dati personali che possa fare considerare avvenuto in violazione di legge il persistente trattamento ad opera della A. infatti, la revoca dovrebbe rivestire uguale forma dell'atto con il quale è stato espresso il consenso al trattamento e non potrebbe valere al riguardo la lettera di diffida del 4.2.2010, provenendo la stessa dal legale della parte . 2.1.1.- La prima argomentazione, se intesa nel senso che la revoca debba avvenire in concreto con le identiche modalità con cui è stato dato il consenso, è apodittica, dal momento che la sentenza impugnata non precisa con quali modalità la P. abbia dato il consenso al trattamento dei suoi dati personali, sicché la conclusione di invalidità della revoca perché data con forma diversa integra una motivazione apparente. 2.1.2.- Inoltre, le modalità con cui può essere revocato il consenso, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata, possono essere varie e anche diverse da quelle concretamente utilizzate per la manifestazione dello stesso, purché esprimano senza formalità la volontà dell'interessato. Lo dimostra un'analisi dei d.lgs. n. 196 del 2003, il cui art. 23, citato nella sentenza impugnata, si limita a prevedere che il consenso che deve essere riferito ad un trattamento chiaramente individuato debba essere espresso , cioè provenire dall'interessato in modo esplicito, anche se non necessariamente in forma scritta, ma solo documentato per iscritto terzo comma , mentre è solo il consenso al trattamento di dati sensibili che deve essere manifestato in forma scritta quarto comma . Inoltre, ai fini della revoca del consenso, l'art. 8 stabilisce che i diritti di accesso ai dati, anche al fine di ottenere l'aggiornamento, la rettificazione, l'integrazione, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima e il blocco dei dati, sono esercitati con richiesta senza formalità al titolare o al responsabile anche per il tramite di un incaricato . 2.2.- La seconda argomentazione del giudice di merito, secondo la quale la revoca del consenso contenuta nella diffida del 4.2.2010 non sarebbe valida in quanto proveniente dal legale della parte, non tiene conto che il diritto di ottenere la cancellazione o anonimizzazione dei dati personali può essere esercitato, come detto, senza formalità [ ] anche per il tramite di un incaricato art. 8, primo comma e l'interessato può, altresì, farsi assistere da una persona di fiducia art. 9, secondo comma, del d.lgs. del 2003 , qual è certamente il legale, la cui attività di rappresentante è imputabile negli effetti al rappresentato, senza necessità di ulteriori adempimenti. Né il giudice di merito ha messo in dubbio e neppure la società resistente che la persona qualificatasi come legale della P. fosse effettivamente tale. 2.3.- I1 principio di diritto, al quale il giudice di merito dovrà attenersi nel giudizio di rinvio, è il seguente la revoca del consenso al trattamento dei dati personali può essere espressa dall'interessato con richiesta rivolta senza formalità al titolare o al responsabile del trattamento, anche per il tramite di un legale di fiducia. 3.- Nel quinto motivo è denunciata illogicità e contraddittorietà della motivazione, per avere ritenuto non provato il nesso causale tra la condotta illecita attribuita alla società convenuta e la sindrome depressiva lamentata dalla ricorrente, irragionevolmente trascurando i referti medici prodotti in giudizio che dimostravano il danno sofferto e, comunque, avrebbero giustificato l'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio che, benché richiesta, non era stata ammessa. 3.1.- Il motivo è fondato. Con la seconda ratio posta a fondamento della sentenza impugnata il giudice di merito ha ritenuto infondata la domanda risarcitoria per mancata prova del nesso di causalità tra la condotta della società A. e la patologia lamentata dalla ricorrente, avendo ritenuto inidonea la certificazione medica prodotta in giudizio sia perché non proveniva da una struttura pubblica, sia perché il medico certificante si era limitato a riportare quanto riferitogli dall'interessata. Entrambi i suddetti argomenti sono inadeguati. La circostanza che la certificazione medica provenga da una struttura non pubblica non la rende, evidentemente, di per sé, intrinsecamente inidonea. Inoltre, la ricorrente aveva espressamente chiesto l'ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio medico legale proprio per dimostrare l'attendibilità del certificato medico prodotto dalla parte e, in tal modo, l'esistenza di danni personali causalmente riconducibili all'illecito imputato alla società A., sicché il rigetto dell'istanza di ammissione della c.t.u. da parte del giudice è sostanzialmente immotivato. Nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato l'orientamento secondo cui la decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d'ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, il quale, tuttavia, ha il dovere di motivare adeguatamente il rigetto della istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dando adeguata dimostrazione di potere risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l'istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare v. Cass. n. 72/2011, n. 88/2004, n. 10/2002, n. 15136/2000 . E' stato anche precisato che in alcune tipologie di controversie, che richiedono per il loro contenuto che si proceda ad un accertamento tecnico, il mancato espletamento di una consulenza medico legale, specie a fronte di una domanda di parte in tal senso, costituisce una grave carenza nell'accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che si traduce in un vizio della motivazione della sentenza v. Cass. n. 4927/2004 . 4.- In conclusione, la sentenza impugnata è cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio al Tribunale di Milano, in diversa composizione, che dovrà riesaminare la causa nel merito alla luce dei principi sopra enunciati e provvedere sulle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte rigetta il primo motivo e, in accoglimento degli altri motivi, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Tribunale di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.