La mera allegazione del titolo di proprietà non “muta” l’azione di restituzione in azione di rivendica

In tema di azione di restituzione di immobile detenuto da altri sine titulo, la circostanza di aver allegato a sostegno di tale domanda, anche il titolo di provenienza del bene stesso, non consente di per sé l’attribuzione di natura reale di rivendicazione in luogo di quella personale di restituzione all’azione proposta. Anzi, come già stabilito da Cassazione Sezioni Unite, n. 7305/2014, il gravoso onere probatorio inerente le azioni reali cosiddetta probatio diabolica non comporta la trasformazione in reale della domanda proposta e mantenuta ferma dall’attore come personale per la restituzione del bene in precedenza volontariamente trasmesso.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 10996/15 depositata il 27 maggio. Il caso. Una signora citava in giudizio la cognata al fine di ottenere il rilascio a proprio favore di un immobile di sua proprietà e la condanna al risarcimento danni. La cognata si difendeva precisando che in realtà il bene era stato acquistato con i soldi del marito e solo intestato fittiziamente alla cognata. In primo grado il Tribunale accoglieva la domanda di rilascio, ma non quella di risarcimento danni. L’attrice proponeva dunque appello sul punto, ma la Corte territoriale ribaltava la decisione accogliendo l’appello incidentale svolto dell’avversaria sulla decisione di rilascio. L’appellante proponeva allora ricorso in Cassazione. Azione di restituzione La proprietaria dell’immobile aveva iniziato il giudizio svolgendo un’azione di restituzione, sulla scorta delle risultanze di un precedente processo in cui era stata accertata l’insussistenza di un contratto di locazione in favore della cognata e quindi la detenzione sine titulo del bene stesso da parte della medesima. Come noto, l’azione di restituzione si fonda su una pretesa di carattere personale in capo a colui che agisce, avente ad oggetto la restituzione della res . In particolare l’attore può limitarsi a dimostrare l’avvenuta consegna del bene al convenuto sulla base di un titolo invalido o successivamente venuto meno. La Corte d’Appello invece ha ritenuto che l’azione svolta, stante l’allegazione del titolo di provenienza del bene effettuata dall’attrice, dovesse essere qualificata come azione di rivendica. azione di rivendica. Tale azione, a differenza della prima è caratterizzata dalla necessità di dimostrare il diritto di proprietà in capo all’attore. Si tratta della nota probatio diabolica poiché l’interessato non solo dovrà provare che è divenuto proprietario in base ad un valido titolo di acquisto, ma dovrà anche dimostrare che ha ricevuto il diritto da chi era effettivamente proprietario e, per far questo, sarà necessario provare che il vecchio proprietario a sua volta aveva ricevuto il diritto da chi era effettivamente proprietario e così di seguito, fino a giungere al primo ed incontestabile proprietario che ha acquisito il bene a titolo originario e non derivativo. Sul punto sollevato dalla Corte d’appello, osservano gli Ermellini ricordando il precedente delle Sezioni Unite n. 7305/2014, il fatto di aver allegato il titolo di proprietà alla domanda, non vale a tramutarla per ciò solo in azione reale di rivendica. Così pure è escluso che le difese di carattere petitorio opposte dal convenuto rispetto ad un’azione di rilascio o consegna trasformino in reale la domanda che sia stata proposta e mantenuta ferma dall’attore come personale. Sempre le Sezioni Unite citate infatti spiegano che tale soluzione si rivela coerente sia con il principio dispositivo sia con quello di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, che rimette esclusivamente alle parti la formulazione e delimitazione delle loro richieste, vietando al giudice di pronunciare al di fuori od oltre i limiti delle domande proposte. Peraltro l’interpretazione seguita dalla Suprema Corte giunge all’apprezzabile risultato di evitare che l’attore venga gravato di un onere probatorio nuovo e ulteriore, ben più pesante, rispetto a quello derivante dalla domanda originariamente formulata. Sotto altro profilo, nella sentenza in commento, i Giudici contestano la difesa della cognata in base alla quale l’azione di restituzione non avrebbe potuto essere accolta dal momento che l’immobile era radicalmente mutato nel corso degli anni demolito e poi ricostruito e quindi, di fatto, non più esistente. In realtà la Cassazione smonta tale tesi spiegando che a prescindere dalle eventuali trasformazioni radicali dell’immobile esso è sempre quanto meno individuabile come area di sedime, pertanto il diritto a riottenere il bene detenuto da altri sine titulo non viene meno neppure a seguito di simili profonde mutazioni.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 5 marzo – 27 maggio 2015, n. 10996 Presidente Piccialli – Relatore Oricchio Considerato in fatto Con atto di citazione notificato il 21/22 novembre 1994 S.A. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Lucera la germana S.E. al fine di ottenere il rilascio in proprio favore dell'immobile ubicato in quella città alla omissis , di cui all'atto di compravendita per Notaio T. del 31 ottobre 1969, con condanna della convenuta la risarcimento dei danni. Resisteva avverso la predetta domanda, di cui chiedeva il rigetto, la S.E. esponendo che l'immobile in contestazione era stato acquistato dal di lei coniuge G.A. , con denaro proprio, ed intestato fittiziamente col detto atto notarile alla cognata S.A. . Precisava la convenuta che, comunque, l'immobile per cui è causa era stato da lei sempre posseduto pacificamente, tanto e fino al punto di procedere alla demolizione dello stesso e successiva riedificazione fin dal 1977 con conseguente annessione ad altri immobili confinanti pure di sua esclusiva proprietà. Con sentenza n. 8/2003 il Tribunale di Lucera, in parziale accoglimento, delle domande attoree, ordinava alla S.E. il rilascio dell'immobile per cui è causa, rigettando - in quanto non provata - la domanda risarcitoria, pure avanzata dalla S.A. , e compensando tra le parti le spese di lite. Avverso la suddetta decisione del Tribunale di prima istanza interponeva appello, chiedendo la riforma della sentenza di primo grado, la S.A. che instava quanto all'accoglimento della domanda di risarcimento del danno per altrui occupazione sine titulo danno, a suo dire, da qualificarsi ex se ai sensi di Cass. n. 649/2000 , con la condanna di parte avversa al pagamento delle spese del giudizio viceversa compensate in primo grado. Resisteva all'avverso gravame, di cui chiedeva il rigetto, la S.E. , la quale proponeva altresì appello incidentale per la riforma della sentenza di primo grado quanto all'accoglimento dell'avversa domanda di rilascio, della quale chiedeva, invece, il rigetto. Interrotto il 14 marzo 2003, a seguito del decesso di S.E. , il giudizio veniva riassunto dai suoi eredi, di cui in epigrafe, che - riportandosi ai precedenti atti - insistevano per il rigetto dell'avverso appello principale e per l'accoglimento di quello incidentale. Con sentenza n. 801/2008 l'adita Corte di Appello di Bari accoglieva l'appello incidentale ed, in riforma dell'impugnata decisione, rigettava la domanda proposta da S.A. , compensando integralmente le spese di lite e ritenendo, per l'effetto, del tutto assorbito l'appello principale. Per la cassazione della decisione della Corte territoriale ricorre S.A. con atto affidato a sei ordini di motivi. Resistono con controricorso gli eredi della S.E. , proponendo ricorso incidentale fondato su due motivi, di cui il secondo proposto condizionatamente all'eventuale accoglimento dei motivi di ricorso principale . Hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c. S.A. e G.M.M. e le altre parti controricorrenti eredi di S.E. . Ritenuto in diritto 1.- Con il primo motivo del ricorso principale si censura il vizio di violazione e falsa applicazione degli artt. 948 c.c. e 112 c.p.c. . Il motivo è assistito dalla formulazione, ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., di quesito inteso, in sostanza, a conoscere se la domanda di rilascio di un immobile perché detenuto senza titolo, che non postuli il riconoscimento della titolarità del bene, possa qualificarsi come azione reale di rivendicazione e non invece personale di mera restituzione e dica, altresì, se le contestazioni del convenuto in ordine alla titolarità del bene valgono a conferire natura reale di rivendicazione all'azione personale di rilascio . Il motivo è fondato. La ricorrente ha agito in giudizio chiedendo la restituzione di un bene immobile occupato dalla di lei germana in virtù del loro stretto vincolo familiare. Il tutto anche a seguito di altro giudizio definito con sentenza del 2/3.4.1992 del Pretore di Lucera, confermata in appello , che ebbe già ad affermare l’insussistenza di un contratto di locazione e l'impossibilità di ritenere ricompresa la domanda di rilascio dell'immobile detenuto sine titulo in quella di sfratto per morosità. Ragione, quest'ultima, per cui la medesima ricorrente adiva il Tribunale di Lucera chiedendo il rilascio in proprio favore del medesimo immobile. La circostanza di aver allegato, a sostegno di tale domanda di rilascio, anche il titolo di provenienza non poteva di per sé consentire l'attribuzione di natura reale di rivendicazione in luogo di quella personale di restituzione alla azione proposta. La Corte territoriale - viceversa, errando - ha qualificato come azione di rivendica la domanda formulata dalla S.A. per la sola circostanza dell'allegazione del titolo di proprietà e con le conseguenze, non condivisibili, di cui si dirà appresso . Senonchè il mero riferimento all'atto notarile di provenienza non comporta automaticamente l'attribuzione alla svolta azione della suddetta qualificazione e, quindi, di una natura reale. Va, anzi, ricordato come - anche negli ultimi tempi e sia pur con riferimento ad altre fattispecie - la giurisprudenza di questa Corte abbia avuto modo di affermare che il gravoso onere probatorio inerente le azioni reali cosiddetta probatio diabolica non comporta la trasformazione in reale della domanda proposta e mantenuta ferma dall'attore come personale per la restituzione del bene in precedenza volontariamente trasmesso Cass. SS.UU. civ., Sent 28 marzo 2014, n. 7305 . È, quindi, del tutto errata ed ingiustificata la valutazione come reale della domanda attorea operata, in ipotesi,con la gravata sentenza. 2.- Con il secondo motivo del ricorso principale si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione dell'art. 948 c.c. in ordine all'attenuazione dell'onere probatorio . Il motivo è corredato dalla formulazione, ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., di quesito di diritto inteso a conoscere, nella sostanza, se - in ipotesi di domanda di rivendicazione di un bene - l'onere della prova a carico del richiedente si attenui nella ipotesi che il convenuto riconosca che il bene era di proprietà del dante causa del rivendicante oppure non contesti la proprietà del rivendicante sul fondo . Il motivo qui in esame è, anch'esso, fondato. La mancata contestazione della proprietà in capo a chi rivendica un bene non solo attenua l'onere probatorio - di carattere minore - di chi agisce chiedendo, in sostanza, di riottenere il bene e, quindi, la restituzione, ma esclude dei tutto le pretese probatorie di cui all'impugnata sentenza conseguenti all'anzidetta errata valutazione della domanda di cui sub 1. . La Corte territoriale ha, infatti, affermato che incombeva all'attrice di fornire la prova non solo della sussistenza del diritto dominicale, ma anche della esistenza del bene medesimo, nonché del possesso di esso da parte della convenuta e della illegittimità di tale possesso insomma, una vera e propria probatio diabolica non richiesta nella fattispecie per il tipo di domanda formulata ed azionata con la richiesta di restituzione del bene anche in altri giudizi ove la medesima parte attrice aveva sempre domandato di riavere in ogni caso il medesimo bene. 3.- Con il terzo motivo rubricato come 3a parte ricorrente lamenta violazione ed erronea applicazione dell’art. 948 c.p.c. - rectius c.c. - in ordine alla ritenuta inesistenza del bene . Il motivo è assistito dalla formulazione di quesito inteso a conoscere se possa considerarsi inesistente un immobile sul quale il convenuto ha posto in essere interventi di mera ristrutturazione . Il motivo è, al pari dei due precedenti, fondato. Ancorché rientrante nella valutazione propria del Giudice del merito, l'apprezzamento come inesistente di un immobile anche a mezzo di accertamento teso a verificare come l'immobile stesso sia stato demolito e rifatto completamente non può assolutamente ostare all'accoglimento della domanda di rilascio. A prescindere dalla semplice circostanza che, pur se trasformato radicalmente o addirittura demolito, l’immobile è quantomeno individuabile come area di sedime, le anzidette circostanze di fatto non potevano comportare il rigetto della domanda. Insomma il diritto a riottenere l'immobile da altri detenuto sine titulo non viene mai meno neppure se il medesimo immobile sia stato profondamente trasformato dal detentore o asservito ad altra confinante proprietà o, addirittura, abbattuto, comportando - in tale ultimo caso - una questione di individuazione nella competente sede dell'area su cui si concentra l'azione di rilascio e non certo la sua impossibilità o infondatezza per effetto dell'anzidetta errata qualificazione reale della svolta domanda. 4.- Con il quarto motivo del ricorso rubricata come 3b si prospetta il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla ritenuta inesistenza dell'immobile . Viene indicata come verosimile punto decisivo della controversia ex art. 366 bis c.p.c. la circostanza del possesso dell'immobile da parte della S.E. e dei suoi familiari . 5.- Con il quinto motivo del ricorso rubricato come 4b si deduce la violazione ed erronea applicazione dell'art. 948 c.c. in ordine alla ritenuta insussistenza del possesso del ben in capo alla S.E. . Viene proposto al vaglio di questa Corte, ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., il seguente testuale quesito di diritto se possa applicarsi il principio secondo cui l'azione di rivendicazione postula il possesso del bene richiesto ove la circostanza emerga pacificamente ex actis . 6.- Con il sesto motivo del ricorso rubricato come 5 si lamenta l' omessa pronuncia in ordine alla domanda di risarcimento del danno - Violazione ed erronea applicazione dell'art. 112 c.p.c. . 7.- La ritenuta fondatezza dei primi tre esaminati motivi del ricorso comporta l'accoglimento, in punto, dello stesso. 8.- I rimanenti suesposti motivi 4., 5. e 6. del ricorso principale sono assorbiti in conseguenza dell'accoglimento dei primi tre motivi del medesimo ricorso. 9.- Il ricorso incidentale condizionato è fondato su due ordini di motivi. Con il primo si censura l’”omessa motivazione sul rigetto dell'eccezione di difetto di legittimazione passiva di G.A. per aver egli rinunciato all'eredità di S.E. eccezione decisiva per giudizio . Il motivo è fondato. Il G.A. ebbe a rinunciare puramente e semplicemente alla eredità di S.E. con risultante dichiarazione raccolta dal Cancelliere del Tribunale di Lucera il 6.9.2007, espressamente riportata ed identificata al punto uno della comparsa di costituzione in appello degli eredi della medesima S. . 10.- Il secondo motivo del ricorso incidentale condizionato, relativo ad una carenza motivazionale in ordine alla addotta violazione dell’art. 295 c.p.c. è infondato e, come tale, va rigettato. 11.- L'accoglimento dei primi tre motivi del ricorso principale e del primo del ricorso incidentale condizionato comporta conseguentemente che la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio della causa ad altra sezione della causa alla Corte di Appello di Bari, affinché la stessa decida la controversia uniformandosi ai principi di diritto sopra enunciati. P.Q.M. La Corte accoglie, per le ragioni di cui in motivazione, il primo, secondo e terzo motivo del ricorso principale, assorbiti i rimanenti accoglie il primo motivo del ricorso incidentale condizionato, rigettato il secondo, cassa e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, ad altra Sezione della Corte di Appello di Bari.