Padre avvocato-arbitro e figlio difensore di una parte: illecito anche se le parti non eccepiscono nulla

Con la sentenza del 9 aprile 2020, n. 7761 le Sezioni Unite della Cassazione hanno avuto modo di affermare alcuni importanti principi in materia di deontologia dell’avvocato in rapporto all’arbitrato.

Ed infatti, il tema centrale affrontato, direi concordemente, sia dal Consiglio dell’Ordine che dal Consiglio Nazionale Forense e, quindi, dalla Cassazione attiene all’individuazione di quale sia il comportamento corretto dell’avvocato che assuma la qualità di arbitro quando una parte di quel procedimento è assistita da un avvocato che condivide lo studio con lo stesso. Peraltro, il tema, proprio perché coinvolge questioni di incompatibilità, deve essere tenuto particolarmente in considerazione da parte di chi viene nominato arbitro perché l’affidamento dell’istituto arbitrale e la sua diffusione dipende senz’altro dalla capacità di chi riveste il ruolo di arbitro di apparire oltre che essere imparziale. L’oggetto dell’esposto. L’esposto da cui aveva preso le mosse il procedimento disciplinare muoveva da un arbitrato irrituale avente ad oggetto la richiesta della società Alfa di veder condannare la ditta Beta esecutrice di alcuni lavori presso il suo albergo al risarcimento dei danni subiti in conseguenza di alcuni vizi. La società Beta aveva nominato arbitro l’avvocato Tizio mentre Caio, anche lui avvocato e figlio di Tizio, era l’avvocato che assisteva Beta nell’arbitrato. L’avvocato Tizio aveva rappresentato la sua disponibilità a rinunciare, ma tutte le parti avevano ritenuto di non sollevare eccezioni sulla sua incompatibilità così che mantenne l’incarico. Il lodo riconobbe il diritto di Alfa a ottenere una somma di circa un milione di euro, ma Alfa non riuscì ad ottenere il dovuto perché la maggior parte dei beni di Beta, poco prima del lodo, erano stati conferiti in trust di cui Caio era stato nominato trustee. Dal canto suo l’avvocato Tizio aveva sottoposto a pegno le quote sociali per il pagamento del suo compenso di arbitro, mentre l’unico bene immobile di Beta era stato oggetto di un contratto di lease back. Gli illeciti disciplinari. Per il Consiglio dell’Ordine Tizio è stato sottoposto a procedimento disciplinare per aver accettato e mantenuto l’incarico di arbitro nonostante il figlio che condivideva il suo studio fosse il legale di una delle parti e perché aveva agito su uno dei beni della società liberi” così diminuendo le possibilità di soddisfazione della società Alfa, mentre Caio per aver consigliato, compiuto e permesso atti di occultamento patrimoniale arrivando anche a rivestire la qualità di trustee. All’esito del procedimento Tizio è stato sanzionato con la censura anche in considerazione della brillante e stimata carriera” nonostante la gravità degli addebiti così come Caio per aver accettato la carica di trustee mentre era stato assolto dall’incolpazione di aver consigliato gli atti di occultamento siccome non provata . Anche il Consiglio Nazionale Forense aveva confermato la decisione del Consiglio dell’ordine rigettando il ricorso dei due avvocati. In particolare, per il CNF la norma oggi dell’art. 61 comma 3 olim l’art. 55 secondo L’avvocato non deve accettare la nomina ad arbitro se una delle parti del procedimento sia assistita, o sia stata assistita negli ultimi due anni, da altro professionista di lui socio o con lui associato, ovvero che eserciti negli stessi locali” si applica tanto all’arbitrato rituale che irrituale e prescinde dall’eventuale consenso” delle parti. Peraltro, la causa di incompatibilità dell’arbitro opera, diciamo così, nell’interesse pubblico” e rappresenta senz’altro una giusta causa di recesso dall’incarico. In questi casi non ci si può limitare a rappresentare alle parti la circostanza, ma occorre trarre le conseguenze dell’incompatibilità e quindi rinunciare all’incarico. Illecito permanente e autonomo. Secondo la Suprema Corte questa circostanza messa in evidenza correttamente dal CNF ha un duplice effetto. In primo luogo, determina che l’illecito deontologico consistente nel mantenere l’incarico nonostante la causa di incompatibilità deve essere qualificato come illecito permanente che termina o con il recesso o con l’emanazione del lodo. In secondo luogo, poi, il mantenimento dell’incarico è un illecito autonomo rispetto a quello dell’assunzione dell’incarico. Irrilevante la mancanza di contestazioni. Inoltre, per la Suprema Corte alcun effetto sanante può attribuirsi alla circostanza per cui nessuna contestazione all’assunzione e all’espletamento del mandato arbitrale venne mossa nel corso del procedimento arbitrale dalla parte che successivamente ha denunciato al Consiglio dell’Ordine la commissione di un illecito disciplinare”. Ed infatti – prosegue la Corte – il divieto di assunzione è inteso a tutelare il profilo deontologico dell’avvocatura garantendo l’indipendenza e l’imparzialità del collegio arbitrale in quanto tale e a prescindere dalla correttezza dello svolgimento effetti del mandato. Sicché non è negoziabile dalle parti”.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 8 ottobre 2019 – 9 aprile 2020, n. 7761 Presidente Petitti – Relatore Bisogni Rilevato che 1. Le sig.re T. , socie della Vincent’s Home s.a.s., hanno presentato un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Novara, nei confronti degli avv.ti C.R. e M. , rispettivamente padre e figlio ed esercenti nello stesso studio la propria attività professionale, rappresentando i seguenti fatti che ritenevano rilevanti disciplinarmente alla stregua degli artt. 55, 5, 6 e 36 canone I cod. deontologico e art. 12 L. professionale avvocati - C.R. , in qualità di arbitro, scelto da B.E. e C. s.n.c. di cui sono soci B.A. e Al. e C.M. , difensore della predetta società B. , avevano partecipato alla procedura arbitrale conclusa con la condanna della società B. nei confronti della Vincent’s Home per i vizi nell’esecuzione di appalto presso l’albergo di proprietà Vincent’s. - Il credito della Vincent’s nei confronti della B. di 972.300 Euro oltre Iva interessi e spese legali era rimasto insoddisfatto in sede esecutiva per effetto di una serie di operazioni riconducibili alla consulenza e all’intervento di C.M. , nominato trustee da uno dei soci della B. , che aveva poco prima della decisione arbitrale costituito un trust conferendovi i suoi beni, mentre C.R. aveva pignorato le quote sociali per il pagamento del suo compenso di arbitro. L’unico bene immobile della B. snc era stato oggetto di una operazione di lease back. 2. Si sono difesi con memoria del 27.2.2013 gli avv.ti C. deducendo che - La incompatibilità dell’avv. C.R. con la funzione di arbitro nominato dalla s.n.c. B. era stata esaminata nella prima seduta del collegio arbitrale. C.R. aveva dichiarato di essere disposto a rinunciare all’incarico ma Vincent’s Home e le sigg.re T. avevano accettato la composizione del collegio e rinunciato ad ogni relativa eccezione. - Nessuna responsabilità avevano in merito alla perdita di garanzia. Il consulente di parte della società B. aveva informato probabilmente rappresentanti e soci della società sull’andamento della perizia e ciò aveva presumibilmente determinato le operazioni di cui si è lamentata la Vincent’s Home. Quest’ultima società non era stata previdente perché avrebbe potuto chiedere un sequestro conservativo dato l’ammontare della propria domanda e la consistenza patrimoniale limitata della B. . - L’assunzione da parte dell’avv. C.M. della funzione di trustee non aveva avuto alcuna influenza nella perdita della garanzia trattandosi di incarico diretto alla conservazione e gestione del patrimonio conferito al trust. - La costituzione del pegno era la conseguenza legittima del rifiuto delle T. di corrispondere il compenso spettante all’avv. C.R. e dovuto in forza del vincolo solidale stabilito dal lodo anche nei confronti della società Vincent’s Home. La prospettazione alle sig.re T. della volontà di agire in via monitoria per il pagamento del compenso aveva determinato queste ultime a presentare l’esposto al Consiglio dell’Ordine. 3. In data 21.5.2013 il Consiglio dell’Ordine di Novara archiviava l’esposto limitatamente alla responsabilità per l’accettazione dell’incarico di arbitro da parte di C.R. trattandosi di illecito prescritto e comunque non sussistente per le circostanze esposte a sua difesa dall’avv. C. . Veniva invece fissata la trattazione dibattimentale per i seguenti addebiti disciplinari a quanto a C.R. . - Violazione dei doveri di dignità probità e decoro professionale art. 5 c.d. di lealtà e correttezza art. 6 e di indipendenza e parzialità art. 55, comma 1 canoni I e II ante Delib. CNF 16 dicembre 2011 per aver mantenuto la carica di arbitro dal 2007 al 2010 esercitando tale ruolo per tutta la durata dell’arbitrato e contribuendo alla emissione del lodo nonostante il proprio figlio M. , associato di studio, fosse il difensore della B. . - Violazione dei doveri di dignità probità e decoro professionale art. 5 c.d. di lealtà e correttezza art. 6 per aver agito per il recupero delle proprie spettanze quale compenso arbitrale, contribuendo a sottrarre agli altri creditori, e in particolare alla Vincent’s, uno dei pochi beni aggredibili. b C.M. . - Violazione dei doveri di dignità probità e decoro professionale art. 5 c.d. di lealtà e correttezza art. 6 e di autonomia del rapporto professionale art. 36 canoni I e IV per aver, prima della data del lodo, consigliato, compiuto e permesso atti di occultamento del patrimonio della s.n.c. B. e dei soci in danno della Vincent’s Home costituzione del trust e accettazione della carica di trustee, costituzione di un fondo patrimoniale da parte di B.A. , operazione di lease back sull’unico immobile della società . 4. Il C.O.A. di Novara con decisione del 10 dicembre 2013 - 7 febbraio 2014 ha affermato la responsabilità dell’avv. C.R. in merito agli addebiti contestati e ha irrogato la sanzione della censura nonostante la gravità degli addebiti in relazione alla brillante e stimata carriera del legale e al comportamento corretto tenuto nell’espletamento dell’incarico arbitrale. Ha motivato la decisione rilevando che nessuna scriminante potesse attribuirsi alla circostanza per cui, trattandosi di arbitrato irrituale, l’avvocato nominato non avrebbe potuto rinunciare all’incarico. Per altro verso non ha attribuito alcuna rilevanza alla mancata proposizione di obiezioni da parte delle sig.re T. che peraltro con le loro dichiarazioni nel dibattimento avevano fatto intendere di non aver compreso che una causa di incompatibilità fosse presente nell’incarico all’avv. C. . Quanto all’addebito relativo alla costituzione del pegno ha rilevato che essa appariva chiaramente un atto protettivo dei beni della società B. , essendo disponibili ai fini del pignoramento beni per un valore idoneo a garantire il soddisfacimento del credito laddove le quote sociali pignorate avevano un valore molto maggiore ed erano state soggette al pignoramento per l’intero valore e senza alcuna indicazione di un termine per il pagamento. Il C.O.A. ha assolto l’avv. C.M. dall’incolpazione relativa all’aver consigliato, compiuto o permesso atti di occultamento del patrimonio sociale e dei soci perché nessuna condotta ascrivibile all’avvocato C. era risultata provata. Ha invece ritenuto responsabile l’avv. C.M. quanto all’accettazione della designazione quale trustee del trust costituito da Ba.Al. che aveva reso non aggredibili i suoi beni e ciò in violazione dei doveri di cui agli artt. 5, 6 e 36 canoni I e IV del codice deontologico. Ai fini della determinazione della sanzione della censura irrogata il COA ha fatto riferimento all’esito negativo per i B. del lodo arbitrale, e all’assenza di precedenti condanne disciplinari. 5. Gli avvocati C.R. e M. hanno proposto separatamente ricorso avverso la decisione del C.O.A 6. Con sentenza depositata il 27 dicembre 2018 il Consiglio Nazionale Forense ha riunito e respinto entrambi i ricorsi basando la decisione sulle seguenti considerazioni - L’art. 55 del codice deontologico sancisce l’incompatibilità dell’incarico arbitrale qualora una delle parti del procedimento arbitrale sia assistita da difensore socio o associato dell’avvocato designato come arbitro, ipotesi ricorrente nel caso in esame essendo il figlio M. associato con il padre R. . - La norma si applica sia all’arbitrato rituale che irrituale e garantisce che l’arbitro sia ed appaia autonomo, indipendente e imparziale. Di conseguenza è irrilevante l’asserito e non dimostrato assenso delle sigg.re T. . È irrilevante altresì che l’arbitro possa recedere dal suo incarico solo per giusta causa perché la giusta causa, nel caso in esame, era proprio l’incompatibilità. La comunicazione della circostanza che avrebbe dovuto comportare il recesso dall’incarico era un atto dovuto e non una esimente in assenza di obiezioni e infatti, dato il carattere assoluto del divieto, la comunicazione alle parti della causa di incompatibilità ha proprio la funzione di impedire che essa sfugga al loro controllo. È infondata l’eccezione di assorbimento e di prescrizione dell’addebito relativo all’espletamento dell’incarico arbitrale e al mancato recesso. Per un verso infatti l’illecito disciplinare costituito dall’accettazione in violazione dell’art. 55 della designazione ad arbitro non assorbe l’ulteriore condotta del mantenimento e dell’espletamento dell’incarico in posizione di incompatibilità. Per altro verso tale ulteriore condotta giustifica la successiva e diversa incolpazione il cui termine di prescrizione inizia a decorrere con la pronuncia del lodo 2.7.2010 . Il procedimento disciplinare si è aperto con deliberazione del 21.5.2013. Ad essa è seguita la notificazione della citazione 10.6.2013 e la decisione del C.O.A. pubblicata il 7.2.2014 . Pertanto non era affatto decorso il termine prescrizionale. Il secondo addebito all’avv. C.R. è integrato dal pignoramento di quote di proprietà del sig. Ba.Al. e relative alle società Immobiliare Centoventi s.r.l. e E.B. s.r.l - La rilevanza disciplinare di tale condotta deriva dalla sua evidente strumentalità alla sottrazione di beni alla garanzia del creditore Vincent’s Home. - Per le stesse ragioni va confermata la responsabilità di C.M. quanto al suo ruolo nella costituzione e nella gestione del trust, che anche esso ha avuto la funzione di sottrarre garanzie alla Vincent’s Home. 7. Contro la decisione del C.N.F. gli avvocati C.R. e M. hanno proposto ricorsi per cassazione. Il ricorso dell’avv. C.R. si articola in tre motivi 7.1. Intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare del R.D.L. n. 1578 del 1933, ex art. 51 o, in subordine, intervenuta prescrizione dell’addebito di cui al capo n. 1 dell’incolpazione. Rileva il ricorrente che la sentenza del C.O.A. è stata emessa il 10.12.2013 e pubblicata in data 7.2.2014 mentre quella del CNF è stata emessa il 16.7.2016 ma depositata il 28.12.2018 con conseguente decorso integrale del termine di prescrizione. In ogni caso il ricorrente ritiene che il mantenimento dell’incarico di arbitro non è qualificabile come atto volontario, non essendo consentito il recesso se non per giusta causa. Era semmai il collegio arbitrale che avrebbe dovuto deliberare la cessazione. Pertanto non può ipotizzarsi una condotta disciplinarmente scorretta, continuativa e ascrivibile al ricorrente e consistita nel mantenimento e non solo nell’assunzione dell’incarico. 7.2. Violazione degli artt. 5, 6 e art. 55, comma 1, canoni I e II del codice deontologico forense, nella formulazione antecedente alla Delib. di modifica del C.N.F. del 16.12.2011, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il ricorrente ribadisce le argomentazioni già esaminate e respinte dal C.N.F. e insiste nel rilevare che nessuna censura è stata mossa dalle T. alla decisione arbitrale a loro favorevole. 7.3. Violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 6 del codice deontologico forense, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Secondo il ricorrente la sentenza non tiene conto del fatto che l’iscrizione del pegno fu un atto volontario e spontaneo del Ba.Al. mentre l’avv. C. ha solo presenziato alla redazione dell’atto notarile. Si trattava di un atto non solo pienamente legittimo ma anche inidoneo a ledere le ragioni della Vincent’s Home e delle signore T. . 8. Il ricorso dell’avv. C.M. si articola in due motivi 8.1. Intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare R.D.L. n. 1578 del 1933, ex art. 51. 8.2. violazione e falsa applicazione 5, 6 e 36 canone I e IV del codice deontologico forense. 9. All’udienza di discussione dell’8 ottobre 2019 il Procuratore Generale in persona del sostituto Procuratore Generale Cons. Dott. Lucio Capasso ha chiesto il rigetto di entrambi i ricorsi previa loro riunione richiamando la requisitoria scritta depositata il 30 settembre 2019. Ritenuto che 10. Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del ricorso nei confronti del Consiglio Nazionale Forense che ha emesso la sentenza impugnata. 11. Il primo motivo del ricorso dell’avv. C.R. è infondato. Rileva il ricorrente che la previsione da parte dell’art. 51, di un termine quinquennale di prescrizione delimita nel tempo l’inizio dell’azione disciplinare ma vale anche ad assicurare che l’irrogabilità della sanzione non venga ad essere protratta indefinitamente. In questa prospettiva ritiene quindi il ricorrente che al procedimento amministrativo sia applicabile non la regola dell’effetto interruttivo permanente della prescrizione, sancita dall’art. 2945 c.c., comma 2, bensì quella dell’effetto interruttivo instantaneo di cui al precedente art. 2943 c.c 12. La predetta ricostruzione dell’efficacia dell’interruzione della prescrizione dell’azione disciplinare è condivisibile con riferimento alla fase amministrativa, cui deve essere assimilato altresì il procedimento di impugnazione davanti al C.O.A., non invece con riferimento al giudizio di impugnazione davanti al Consiglio Nazionale Forense per la diversa natura che ad esso va attribuita come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità cfr. Cass. Civ. Sezioni Unite n. 23364 del 2015, n. 24094 del 10.11.2006, n. 5072 del 2 aprile 2003, n. 187 dell’8.1.2001 secondo cui l’interruzione del termine quinquennale di prescrizione dell’azione disciplinare nei confronti degli avvocati, decorrente dalla data di realizzazione dell’illecito o dalla cessazione della sua permanenza , è diversamente disciplinata nei due distinti procedimenti in cui si articola il giudizio disciplinare nel procedimento amministrativo dinanzi al Consiglio dell’ordine la prescrizione è soggetta ad interruzione con effetti istantanei in conseguenza, non solo dell’atto di apertura del procedimento, ma anche di tutti gli atti procedimentali di natura propulsiva o probatoria per esempio, consulenza tecnica d’ufficio, interrogatorio del professionista sottoposto a procedimento , o decisoria, secondo il modello dell’art. 160 c.p. escluso, peraltro, il limite, di cui al comma 3, del prolungamento complessivo del termine prescrizionale non oltre la metà , nonché stante la specialità della materia di atti provenienti dallo stesso soggetto passivo, pur diretti, non a riconoscere l’illecito, ma a contestarlo, quali specificamente le impugnative della decisione del Consiglio dell’ordine nella fase giurisdizionale davanti al Consiglio nazionale forense opera, invece, il principio dell’effetto interruttivo permanente, di cui al combinato disposto dell’art. 2945 c.c., comma 2 e art. 2943 c.c., effetto che si protrae durante tutto il corso del giudizio e nelle eventuali fasi successive dell’impugnazione innanzi alle Sezioni Unite e del giudizio di rinvio fino al passaggio in giudicato della sentenza. 13. Va rilevato comunque che il ricorrente ritiene erroneamente intervenuta la prescrizione della azione disciplinare anche perché computa la decorrenza della prescrizione dalla data della emissione 10.12.2013 anziché della pubblicazione 7.2.2014 della decisione del C.O.A. pur rilevando la irrilevanza della prima data secondo la giurisprudenza Cass. Civ. n. 5245 del 4.3.2009 . 14. Quanto al secondo profilo del primo motivo di ricorso, come già è stato chiarito dal C.N.F., il mantenimento dell’incarico è sicuramente un comportamento volontario dell’avv. C.R. che avrebbe potuto recedere invocando la giusta causa dell’incompatibilità e del conseguente obbligo di non assunzione dell’incarico sicché, con l’aver svolto sino alla fine la sua funzione di arbitro l’avv. C.R. ha posto in essere una condotta di carattere permanente e rilevante come illecito disciplinare autonomamente dalla stessa assunzione dell’incarico di arbitro. 15. Con il secondo motivo l’avv. C.R. continua a contestare che il mantenimento dell’incarico potesse sopravvivere come condotta autonoma rispetto all’accettazione della nomina ad arbitro di cui è stata dichiarata la prescrizione come illecito disciplinare. Inoltre il ricorrente ribadisce che, trattandosi di arbitrato irrituale, non erano applicabili gli istituti dell’astensione e della ricusazione, come rilevò da subito il Presidente del Collegio arbitrale, e pertanto egli non avrebbe potuto rinunciare al mandato essendo solo nel potere del mandante di revocarlo. Per altro verso fa rilevare il ricorrente che nel corso del procedimento arbitrale nè le sig.re T. , nè il loro legale sollevarono questioni in relazione al ruolo degli avvocati C. . 16. Si tratta di circostanze che, come ha rimarcato il C.N.F., sono del tutto irrilevanti a fronte della chiara formulazione dell’illecito disciplinare contestato al ricorrente al capo 1 di incolpazione e del riferimento esplicito alla norma contenuta nell’art. 55 del codice deontologico, secondo il testo applicabile ratione temporis, per cui l’avvocato non può accettare la nomina ad arbitro se una delle parti è assistita da altro professionista con il quale intercorre un rapporto di società o associazione ovvero che eserciti negli stessi locali la professione. Da ciò deriva che non solo l’accettazione ma anche l’effettivo esercizio del mandato arbitrale nelle predette condizioni di incompatibilità assuma un proprio ed autonomo rilievo disciplinare e produca tali effetti sino alla fine dello svolgimento del mandato. Nè alcun effetto sanante può attribuirsi alla circostanza per cui nessuna contestazione all’assunzione e all’espletamento del mandato arbitrale venne mossa nel corso del procedimento arbitrale dalla parte che successivamente ha denunciato al Consiglio dell’Ordine la commissione di un illecito disciplinare. Il divieto di assunzione è infatti inteso a tutelare il profilo deontologico dell’avvocatura garantendo l’indipendenza e l’imparzialità del collegio arbitrale in quanto tale e a prescindere dalla correttezza dello svolgimento effettivo del mandato. Sicché non è negoziabile dalle parti. Nè la disposizione contenuta nell’art. 55 secondo cui In ogni caso l’avvocato deve comunicare alle parti ogni circostanza di fatto e ogni rapporto con i difensori che possano incidere sulla sua indipendenza, al fine di ottenere il consenso delle parti stesse all’espletamento dell’incarico può essere interpretata come una sorta di sottoposizione del divieto alla volontà delle parti del procedimento arbitrale. Al contrario è proprio al fine di garantire la trasparenza del procedimento e la indipendenza e imparzialità del collegio che si fa obbligo agli avvocati nominati arbitri di comunicare ogni possibile causa di menomazione di questi requisiti per consentire alle parti di esprimere il proprio dissenso alla nomina. 17. Con il terzo motivo si censura la fondatezza della contestazione contenuta nel secondo capo di incolpazione. Secondo il ricorrente il C.N.F. ha del tutto omesso di considerare che il procedimento disciplinare trae origine dall’esposto delle sig.re T. , che si sono rese conto di non avere beni da aggredire per soddisfare il credito originato dal lodo, provvedimento quest’ultimo che è stato oggetto di impugnazione e il cui giudizio è ancora in corso. In secondo luogo la sentenza impugnata non tiene conto del fatto per cui l’iscrizione del pegno è stata un atto volontario e spontaneo del sig. B.A. mentre il ricorrente ha solo presenziato all’atto notarile perché la sua accettazione era sì indispensabile per l’efficacia dell’atto compiuto ma è consistita in una mera condotta passiva rispetto alla volontaria e unilaterale decisione del sig. B. di iscrivere il pegno. Nè il C.N.F. tiene in conto, secondo il ricorrente, la dichiarazione del commercialista dei sigg.ri B. , resa nel corso del giudizio, secondo cui fu utilizzata, attraverso il pignoramento, la posizione debitoria nei confronti dell’avv. C. per proteggere il patrimonio dei B. dalle pretese del Fallimento Ma. e non da quelle della Vincent’s Home, intento protettivo rispetto al quale non vi è alcuna prova della conoscenza e tanto meno della partecipazione attiva da parte dell’odierno ricorrente. A parte queste omesse valutazioni la decisione del C.N.F. non parte dal corretto presupposto per cui il ricorrente aveva diritto di ottenere il pagamento del compenso e nè l’esecuzione forzata nè il pignoramento dell’unico immobile apparivano percorribili a fronte di un credito di soli 21.329,88 Euro e della possibilità di iscrivere il pegno per il valore del credito risultante dalla parcella e non per il valore effettivo delle quote pignorate. Circostanza quest’ultima che avrebbe consentito alle sig.re T. di rivalersi sul valore residuo delle quote idoneo a soddisfare in buona parte le loro spettanze. In definitiva l’accettazione del pegno non può essere considerata un comportamento deontologicamente rilevante e illecito da parte dell’avv. C.R. , che si è limitato a prendere atto della libera scelta del sig. B. il quale, consapevole della sussistenza del debito nei confronti dell’avv. C. , si è attivato per garantire il suo futuro pagamento. 18. Il motivo è infondato. Esso riproduce argomentazioni, in larga parte attinenti alla valutazione di merito della controversia, già respinte con motivazione adeguata dal C.N.F Si tratta comunque di argomentazioni del tutto irrilevanti e contraddittorie. In particolare il fatto che sia stato il B. a volere l’iscrizione del pegno non esclude che il C. lo abbia accettato e che la sua accettazione fosse indispensabile per rendere efficace il pegno quindi egli ha avuto una parte rilevante e decisiva nella costituzione del pegno, che per esplicita affermazione del commercialista del B. era diretto a sottrarre le quote all’aggressione dei creditori nè si vede come tale protezione dovesse funzionare nei confronti del Fallimento Ma. e non anche della Vincent’s Home . Contraddittoria è la difesa del ricorrente perché, nello stesso tempo, evidenzia le ragioni che indussero le sigg.re T. a denunciare il comportamento dell’avv. C. al C.O.A., e cioè l’aver riscontrato che non vi era alcun modo per soddisfare il loro credito, proprio per effetto del disegno protettivo messo in atto a difesa dei beni dei sigg.ri B. , e, d’altra parte, propone la sottovalutazione degli effetti del pegno delle quote in relazione alla relativa modestia del credito a garanzia del quale era stato costituito il pegno. Infine il C.N.F. non ha ritenuto credibile che l’avv. C. non fosse consapevole della finalità strumentale del pegno dato che egli aveva partecipato come arbitro alla procedura che ha accertato il credito della Vincent’s Home. Mentre dalle stesse dichiarazioni già menzionate del commercialista dei sigg.ri B. emerge indiscutibilmente il carattere strumentale della costituzione del pegno avvenuta, oltretutto, come rilevato dal C.N.F., con modalità insolite dato che l’atto notarile di costituzione del pegno non menziona alcun termine di pagamento del credito garantito. Deve pertanto ritenersi che la decisione impugnata è conforme alle norme deontologiche della cui violazione si duole il ricorrente. 19. Con il primo motivo del suo ricorso l’avv. C.M. invoca l’applicazione della prescrizione quinquennale. Il motivo è infondato per le stesse considerazioni relative al primo motivo del ricorso dell’avv. C.R. . Entrambi i ricorrenti per inciso affermano che la decisione del C.O.A. è stata pronunciata alla presenza del ricorrente . Si tratta tuttavia di una circostanza non rilevante perché quello che rileva ai fini della esistenza della decisione è la data del deposito e non della emissione della decisione nè appare coerente la tesi dei ricorrenti secondo cui nell’un caso sarebbe rilevante, ai fini dell’interruzione della prescrizione, la data della emissione della sentenza mentre il termine finale, cui confrontare l’avvenuto compimento della prescrizione, dovrebbe invece identificarsi con il deposito della decisione del C.N.F Non attribuisce rilievo giuridico a tale impostazione la circostanza, peraltro dedotta per la prima volta in questo giudizio, della asserita presenza degli odierni ricorrenti al momento della emanazione della decisione del C.O.A., dovendosi comunque attribuire rilevanza al successivo deposito della decisione. 20. Con il secondo motivo del ricorso di C.M. si contesta la sussistenza dell’illecito disciplinare relativo al suo ruolo assunto nella costituzione del trust, rivendicando l’accettazione di un incarico professionale perfettamente lecito e onorevole in un contesto di assoluta autenticità. Rileva poi il ricorrente che vi è una assoluta mancanza di prova circa la strumentalità del trust alla protezione del patrimonio dei B. nei confronti della Vincent’s Home dato che all’epoca della costituzione il lodo non era ancora stato emesso. Infine il ricorrente rimarca l’inesistente contributo personale alla destinazione dei beni al trust che ben sarebbe potuta avvenire ed è avvenuta a prescindere dal suo ruolo di trustee. Per altro verso, sottolinea la possibilità per i creditori di proporre una azione revocatoria dell’atto di conferimento di beni al trust e di impedire in tal modo la definitive sottrazione nei loro confronti della garanzia costituita dai beni conferiti. 21. Il motivo è infondato. Esso riproduce le argomentazioni difensive, attinenti al merito della valutazione compiuta dal C.N.F., che sono state esaminate e respinte con adeguata motivazione nella decisione impugnata. La finalità della costituzione del trust era chiara e dichiarata. Nè può avere rilievo la circostanza per cui il ricorrente sia stato ritenuto non responsabile della ulteriore imputazione di aver consigliato, compiuto e permesso atti di occultamento del patrimonio della società e dei soci. Come ha ricordato il P.G. nelle sue conclusioni scritte l’addebito disciplinare in contestazione consiste nel consapevole inserimento dell’avv. C.M. in un disegno volto a sottrarre i beni alle legittime pretese dei creditori e comunque a rendere più difficile la realizzazione dei crediti. Se pure non vi sia stato un ruolo ideativo e diretto del ricorrente nel preordinare e attuare questo disegno, tuttavia l’aver assunto la funzione di trustee ha evidentemente garantito adeguatamente il B. e gli ha consentito di perfezionare la costituzione del trust che era diretto a schermare alcuni beni del patrimonio dei B. e fu posto in essere con la consapevolezza della possibile soccombenza nel procedimento arbitrale, che era chiaramente prevedibile in relazione alle conclusioni rassegnate dal consulente tecnico all’esito della sua indagine peritale. La qualità di difensore nel procedimento arbitrale e la condivisione dell’attività professionale con il padre, componente del collegio arbitrale, avrebbero dovuto nella valutazione del C.N.F. impedire l’assunzione di qualsiasi ruolo nella realizzazione di una operazione diretta a neutralizzare le conseguenze negative e prevedibili del procedimento arbitrale in danno dei creditori. Si tratta di una valutazione di merito sorretta da una coerente e argomentata motivazione che non risulta censurata ammissibilmente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e che non è stata censurata specificamente e fondatamente neanche sotto il profilo della asserita violazione delle norme deontologiche. 22. I ricorsi riuniti devono pertanto essere respinti senza statuizioni sulle spese del presente giudizio. Sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, come indicato in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta i ricorsi. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, se dovuto, da parte dei ricorrenti degli ulteriori importi a titolo di contributo unificato pari a quelli dovuti per i due ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.