Nessun compenso è dovuto all’avvocato se non prova il conferimento dell’incarico da parte del cliente

La prova dell’avvenuto conferimento dell’incarico, quando il diritto al compenso sia dal convenuto contestato, sotto il profilo della mancata instaurazione del rapporto di prestazione d’opera professionale, può essere data dall’attore con ogni mezzo istruttorio, mentre compete al giudice di merito valutare se, nel caso concreto, questa prova possa o meno ritenersi fornita, sottraendosi il risultato del relativo accertamento, se adeguatamente e coerentemente motivato, al sindacato di legittimità.

E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 27466 depositata il 28 ottobre 2019. Il fatto. Il Giudice di Pace territorialmente competente accoglieva l’opposizione proposta dal cliente avverso il decreto ingiuntivo con il quale il suo difensore gli aveva intimato il pagamento di una certa somma di denaro a titolo di compensi professionali per l’attività svolta, a suo dire, in favore del proprio assistito. Successivamente, il difensore proponeva appello avverso la sentenza di revoca del decreto ingiuntivo. Il gravame così proposto, tuttavia veniva rigettato con integrale conferma della decisione resa dal giudice di prime cure. In particolare, il giudice del gravame precisava che l’attività espletata dal difensore, consistita nella redazione dell’atto di precetto e di avviso di sloggio, era avvenuta senza il consenso del cliente che lo aveva incaricato, come da procura in atti, a svolgere la sola funzione di domiciliatario, avendo conferito la difesa ad altro difensore. L’appellante proponeva così ricorso per Cassazione avverso la sentenza di appello. Nel caso di specie, gli Ermellini, hanno ritenuto infondati tutti i motivi di doglianza proposti dal ricorrente ed in particolare, il secondo ed il terzo motivo che denunciavano violazione di norme del codice di rito e del codice civile, nonché difetto assoluto di motivazione su alcuni punti decisivi della controversia. A detta del ricorrente, infatti, il Tribunale di merito non aveva debitamente tenuto conto del principio secondo cui la mancanza della procura alle liti in capo all’avvocato non rileva ai fini del diritto al compenso, essendo a tal fine sufficiente il perfezionamento di un contratto di mandato per il quale vige il principio di libertà della forma. Pertanto, prosegue il ricorrente, poiché il cliente non aveva mai negato lo svolgimento di attività di patrocinio da parte sua, egli in qualità di difensore, aveva certamente il diritto al compenso per l’attività svolta. I Giudici di legittimità non hanno per nulla condiviso le argomentazioni svolte dal ricorrente, richiamando a sostegno dell’infondatezza dei motivi proposti, il consolidato orientamento di legittimità secondo cui il rapporto di prestazione d’opera professionale, la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del diritto al compenso, postula l’avvenuto conferimento del relativo incarico, in qualsiasi forma idonea a manifestare inequivocabilmente la volontà di avvalersi della sua attività e della sua opera da parte del cliente convenuto per il pagamento di detto compenso. Nella specie, proseguono i giudici di legittimità, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, la sentenza impugnata ha tenuto ben presente la distinzione tra rapporto endoprocessuale, nascente dalla procura ad litem , e rapporto di patrocinio quale rapporto che si instaura tra il professionista incaricato ed il soggetto che ha conferito l’incarico. Pertanto, sulla scorta di tale distinzione, il giudice del gravame ha correttamente ritenuto che nel caso in questione, prescindendo dalla procura alle liti, l’attività svolta dal difensore era stata realizzata senza il consenso del cliente. Concludendo. Lo svolgimento della dedotta attività difensiva da parte del professionista, concludono i giudici, deve dunque, ritenersi contestata e di conseguenza inidonea a far sorgere il diritto al compenso quando manchi qualsivoglia specifico conferimento di incarico da parte del cliente, essendo nella specie, rimasta accertata esclusivamente la domiciliazione presso il ricorrente. Del resto, è ben nota la differenza tra rilascio di procura, avvenuta nel caso in questione in favore del difensore solo per la domiciliazione, e il rilascio di mandato professionale, regolato dalle norme di un ordinario mandato, in virtù del quale la posizione del cliente viene assunta non dal patrocinato ma da chi ha richiesto per lui l’opera professionale.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza 22 marzo – 28 ottobre 2019, n. 27466 Presidente Sangiorgio – Relatore Falaschi Osserva in fatto e in diritto Ritenuto che - il Giudice di pace di Verona, con sentenza n. 4307 del 2012, dichiarata inammissibile dal Presidente del Tribunale l’istanza di ricusazione proposta dall’opposto, accoglieva l’opposizione proposta da M.N. avverso il decreto ingiunto dall’avv. C.S. per il pagamento dell’importo di Euro 2.888,27 per compensi professionali, ritenendo non assolto l’onere della prova relativo al conferimento dell’incarico - in virtù di appello interposto dal C. , il Tribunale di Verona, con sentenza n. 2191 del 2014, nella resistenza del M. , rigettava il gravame, confermando la decisione di primo grado. In particolare, il giudice del gravame precisava che l’attività espletata dall’avv. C. , consistita nella redazione di atto di precetto e di avviso di sloggio, era avvenuta senza il consenso dell’appellato, che lo aveva incaricato, come da procura in atti, a svolgere la sola funzione di domiciliatario, avendo conferito la difesa ad altro difensore, l’avv. E. - per la cassazione della sentenza del Tribunale di Verona ricorre il C. sulla base di quattro motivi - il M. resiste con controricorso - il ricorrente in data 15.03.2019 ha anche depositato memoria illustrativa. Atteso che - osserva preliminarmente il Collegio che la memoria illustrativa del ricorrente è tardiva è pervenuta alla cancelleria della Corte il 15 marzo 2019 venerdì , fissata l’udienza camerale per il 22 marzo 2019 venerdì successivo , mentre le memorie dovevano essere depositate non oltre dieci giorni prima dell’udienza presso la cancelleria della Corte art. 380 bis.1 c.p.c. . Della stessa pertanto non può tenersi conto - venendo al merito del ricorso, con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3 e art. 111 Cost., la violazione degli artt. 30-bis, 34, 51, 52, 53, 54, 56 e 112 c.p.c., per non essersi il giudice di appello neppure soffermato sulle molteplici cause di ricusazione mosse dal C. nei confronti del giudice di prime cure. Il motivo non può trovare accoglimento. Sebbene l’art. 53 c.p.c., comma 2, preveda espressamente la non impugnabilità del provvedimento che decide sull’istanza di ricusazione, per consolidato orientamento giurisprudenziale, l’ordinanza che neghi la violazione al diritto ad un giudice imparziale, pur non essendo impugnabile ex se , può essere censurata con l’impugnazione proposta contro la sentenza che conclude il giudizio. In altri termini, non è precluso il riesame dell’ordinanza di rigetto dell’istanza di ricusazione nel corso del processo, ma esso avviene attraverso il controllo sulla pronuncia resa dal iudex suspectus, o con il suo concorso, in quanto l’eventuale vizio causato dalla incompatibilità del giudice ricusato si risolve in motivo di nullità dell’attività svolta dal giudice stesso e, quindi, di gravame della sentenza da lui emessa sul punto v. Cass. n. 2562 del 2016 . Come già affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte sentenza n. 17636 del 20 novembre 2003 , il principio di imparzialità è garantito dalla possibilità per la parte, che abbia visto rigettata la propria istanza di ricusazione, di chiedere al giudice di appello un riesame di tale pronuncia impugnando la sentenza conclusiva resa dal giudice invano ricusato. Ne consegue che nella specie il C. , per far valere il diritto ad un giudice imparziale negatogli, avrebbe dovuto allegare e quindi provare, in via pregiudiziale, l’incidenza dell’asserita incompatibilità sull’attività svolta dal giudice ricusato e non limitarsi a riproporre in sede di appello le cause di incompatibilità svolte dinnanzi al giudice di primo grado. Sin dalla sentenza, resa a Sezioni Unite, 16 maggio 1951, n. 6764, la Corte ha avuto modo di precisare che - a differenza di quanto previsto nel codice di rito del 1865, sotto il cui impero sulla ricusazione si provvedeva con sentenza, e questa era appellabile se pronunciata dal tribunale mentre era inappellabile quella pronunciata dal conciliatore e dal pretore artt. 125, 128 e 129 nel sistema del codice vigente il procedimento di ricusazione, pur costituendo sempre un incidente della causa principale nella quale si inserisce, non si chiude, come quella, con la pronuncia di una sentenza ma con una pronuncia che ben può dirsi ordinatoria perché diretta unicamente alla determinazione della composizione dell’ufficio, e quindi con ordinanza . La ragione di un tale mutamento viene colta nella massima semplicità di forme con cui il nuovo legislatore ha inteso, data l’estrema delicatezza della materia, regolare il procedimento di ricusazione, non altro disponendo che l’audizione del giudice ricusato e l’assunzione, neppure obbligatoria ma facoltativa, delle prove offerte e, quindi, senza un contraddittorio vero e proprio neppure tra il ricusante e il giudice ricusato, e soprattutto senza impugnazioni di sorta . La Cass. 27 giugno 2000, n. 8729 ha, poi, definitivamente sancito il principio della conversione dell’eventuale vizio della non riconosciuta incompatibilità del giudice ricusato in motivo di nullità della sentenza, in ragione della quale costituisce presupposto per il riesame la supposta ingiustizia della sentenza, quale atto finale che definisce il procedimento e in cui la ricusazione che è stata proposta è confluita, oltre all’eventuale vizio causato dall’incompatibilità del giudice ricusato rispetto alla lite essendo motivo di impugnazione della sentenza. In questa prospettiva, nessuna deduzione contiene il ricorso in tal senso, limitandosi il C. a riproporre sia in appello sia in sede di legittimità la doglianza di violazione del diritto ad un giudizio imparziale, derivante da una erronea decisione negativa sulla ricusazione, e le cause di incompatibilità del giudice ricusato - con il secondo e il terzo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 84 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 2229 e ss., 2727, 2728 e 2729 c.c., nonché il difetto assoluto di motivazione su punti decisivi della controversia. A detta del ricorrente, il Tribunale di merito non avrebbe tenuto conto del principio secondo cui la mancanza della procura alle liti in capo all’avvocato non rileva ai fini del diritto al compenso, essendo a tal fine sufficiente il perfezionamento di un contratto di mandato, per il quale vige il principio di libertà della forma. Pertanto, non avendo mai negato il M. lo svolgimento dell’attività di patrocinio del C. , quest’ultimo aveva diritto al compenso per l’attività svolta. Il motivo è infondato. Per consolidato orientamento di questa Corte, il rapporto di prestazione d’opera professionale, la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del diritto al compenso, postula l’avvenuto conferimento del relativo incarico in qualsiasi forma idonea a manifestare inequivocabilmente la volontà di avvalersi della sua attività e della sua opera da parte del cliente convenuto per il pagamento di detto compenso. La prova dell’avvenuto conferimento dell’incarico, quando il diritto al compenso sia dal convenuto contestato sotto il profilo della mancata instaurazione di un siffatto rapporto, può essere data dall’attore con ogni mezzo istruttorio, mentre compete al giudice di merito valutare se, nel caso concreto, questa prova possa o meno ritenersi fornita, sottraendosi il risultato del relativo accertamento, se adeguatamente e coerentemente motivato, al sindacato di legittimità Cass. n. 1792 del 2017 e precedentemente Cass. n. 3016 del 2006 Cass. n. 1244 del 2000 Cass. n. 2345 del 1995 . Nella specie, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, la sentenza ha tenuto ben presente la distinzione tra rapporto endoprocessuale, nascente dalla procura ad litem, e rapporto di patrocinio, quale rapporto che si instaura tra il professionista incaricato ed il soggetto che ha conferito l’incarico, e ha ritenuto che, prescindendo dalla procura alle liti, l’attività svolta dall’avv. C. era stata realizzata senza il consenso neppure verbale o implicito del M. . Lo svolgimento della dedotta attività difensiva da parte del C. , dunque, deve ritenersi contestata e di conseguenza inidonea a far sorgere il diritto al compenso, in assenza di qualsivoglia specifico conferimento di incarico da parte del cliente, essendo rimasta accertata esclusivamente la domiciliazione presso il ricorrente. Del resto è nota la differenza tra rilascio di procura, nella specie avvenuta in favore dell’avv. C. solo per la domiciliazione, e il rilascio di mandato professionale, regolato dalle norme di un ordinario mandato, in virtù del quale la posizione del cliente viene assunta non dal patrocinato ma da chi ha richiesto per lui l’opera professionale v. Cass. n. 19416 del 2016 - con il quarto motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 2721 c.c., in relazione all’art. 202 c.p.c., per avere la Corte di merito erroneamente escluso l’ammissibilità della prova testimoniale volta a dimostrare l’avvenuto conferimento dell’incarico a favore dell’avv. C. da parte del M. , con motivazione pretestuosa. Il motivo non può trovare ingresso. La richiesta di provare per testimoni un fatto esige non solo che questo sia dedotto in un capitolo specifico e determinato, ma anche che sia collocato univocamente nel tempo e nello spazio, al duplice scopo di consentire al giudice la valutazione della concludenza della prova e alla controparte la preparazione di un’adeguata difesa Cass. n. 1808 del 2015 . Alla luce di tale orientamento, si deve condividere la motivazione del giudice di merito che nella specie ha dichiarato inammissibile il capitolo di prova articolato dal ricorrente sul punto e asseritamente volto a dimostrare l’avvenuto conferimento dell’incarico, dal momento che non indicava nè il tempo nè il luogo del rilascio, e ciò a fronte della posizione del M. che aveva escluso radicalmente detta circostanza. Conclusivamente, il ricorso va respinto. Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013 , che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di legittimità in favore del controricorrente, che vengono liquidate in complessivi Euro 1.300,00, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.