Ai sensi del d.m. n. 127/2004 i minimi tariffari sono inderogabili

Ai sensi dell’art. 24 Legge n. 794/1942 e dell’art. 4 d.m. n. 127/2004, previgente rispetto al d.m. n. 55/2014, i minimi tariffari devono ritenersi inderogabili a meno che la parte interessata, in caso di manifesta sproporzione, non presenti il parere del Consiglio dell’Ordine competente relativo a un’inferiore liquidazione.

La fattispecie. La decisione n. 22742/2019 trae origine dal ricorso presentato da una donna avverso la sentenza con cui la Corte di Appello di Roma, riformando solo parzialmente la precedente pronuncia di primo grado, aveva accolto il motivo di gravame relativo alla riduttiva liquidazione degli esborsi e delle spese di CTU sostenuti, respingendo tuttavia le altre censure proposte. La ricorrente era stata coinvolta in un grave incidente stradale per il quale era stata riconosciuta in primo grado la colpa esclusiva del conducente di un altro autoveicolo all’accertamento di responsabilità era seguita la condanna della controparte al risarcimento dei danni patiti dalla ricorrente, con esclusione di alcune poste dedotte e detratto l’importo già corrisposto in via stragiudiziale dalla compagnia di assicurazione del danneggiante. Solo il parere del Consiglio dell’Ordine giustifica la deroga al ribasso dei minimi tariffari. Per quanto qui di interesse, la ricorrente ha dedotto la violazione e la falsa applicazione dell’art. 24 L. n. 794/1942 e delle tariffe professionali vigenti disciplinate dal d.m. n. 127/2004, assumendo che il valore della controversia era molto più alto di quello al quale i Giudici di merito avevano fatto riferimento per la liquidazione, a suo dire riduttiva. Accogliendo il ricorso, la Corte di Cassazione ha precedentemente rilavato la pacifica applicabilità al caso di specie del d.m. n. 127/2004, in base al quale, come noto, la liquidazione dei diritti e degli onorari doveva essere ricondotta al valore della controversia, consistente, per le cause in materia di pagamento somme, nell’importo attribuito alla parte vincitrice, piuttosto che a quello domandato. In tale contesto gli Ermellini hanno precisato che, ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia va fissato – in armonia con il principio generale di proporzionalità e adeguatezza degli onorari di Avvocato, nell’opera professionale effettivamente prestata, desumibile dall’interpretazione sistematica dell’art. 6, comma 1 e 2, della Tariffa per le prestazioni giudiziali in materia civile, amministrativa e tributaria, tenendo però conto che, in caso di accoglimento solo in parte della domanda ovvero di parziale accoglimento dell’impugnazione, il Giudice dovrà considerare il contenuto effettivo della sua decisione, salvo che la riduzione della somma o del bene attribuito non consegua a un adempimento intervenuto, nel corso del processo, a opera della parte debitrice, convenuta in giudizio, nel quale caso il Giudice, richiestone dalla parte interessata, terrà conto non di meno del disputatum , ove riconosca la fondatezza dell'intera pretesa. Pertanto, nel caso di specie, la liquidazione delle spese complessivamente effettuata nella sentenza di primo grado e oggetto di censura in appello, risulta erronea in quanto le somme indicate si collocano al di sotto dei minimi tariffari vigenti all’epoca della decisione in cui sussisteva il vincolo legale della loro inderogabilità v. art. 24 L. n. 794/1942 , tenuto conto che, oltretutto, la Corte territoriale non ha esplicitato alcunché sulle ragioni degli inferiori importi liquidati. In altre parole, secondo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 24 Legge n. 794/1942 e dell’art. 4 d.m. n. 127/2004, previgente rispetto al d.m. n. 55/2014, i minimi tariffari devono ritenersi inderogabili a meno che la parte interessata, in caso di manifesta sproporzione, non presenti il parere del Consiglio dell’Ordine competente relativo a una inferiore liquidazione.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 5 luglio – 12 settembre 2019, n. 22742 Presidente Armano – Relatore Di Florio Ritenuto che 1. G.L. ricorre, affidandosi a sette motivi illustrati anche da memoria, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Roma che, riformando solo parzialmente la pronuncia del Tribunale di Civitavecchia, aveva accolto il motivo di gravame relativo alla riduttiva liquidazione degli esborsi e delle spese di CTU sostenuti, respingendo tuttavia le altre censure proposte. 1.1. Per ciò che interessa in questa sede, la ricorrente era stata coinvolta in un grave incidente stradale avvenuto nel 1999 per il quale era stata riconosciuta con la sentenza di primo grado la colpa esclusiva del conducente dell’autocarro con rimorchio, assicurato presso l’Unipolsai Spa all’accertamento di responsabilità seguiva la condanna della controparte al risarcimento dei danni da lei subiti, escluse alcune poste dedotte e detratto l’importo già corrisposto in via stragiudiziale dalla compagnia di assicurazione. 2. Ha resistito la Unipolsai Assicurazioni Spa intimata. Considerato che 1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione lamenta che la Corte aveva aderito acriticamente alla CTU, ignorando i rilievi prospettati dal consulente tecnico di parte che aveva evidenziato che la danneggiata aveva riportato la lussazione della spalla destra con deficit nEurologico, e che ciò doveva condurre ad una liquidazione di gran lunga superiore a quella del 35% riconosciuta dall’ausiliare e fatta propria dal giudice. 1.1. Il motivo è infondato. La censura, infatti, lamenta l’omesso esame di un fatto storico consistente nelle risultanze della consulenza tecnica di parte e della relazione integrativa della consulenza tecnica d’ufficio, omettendo di considerare che la motivazione della Corte dà conto, in modo sintetico ma al di sopra della sufficienza costituzionale, di aver esaminato entrambi gli elaborati cfr. pag. 2 penultimo ed ultimo cpv della sentenza e di aver tratto le conclusioni che i rilievi del CTP, peraltro confutati dal CTU nell’elaborato integrativo , erano state implicitamente disattese dal primo giudice che le aveva, dunque, valutate. 1.2. Il profilo dell’omesso esame è, pertanto, insussistente perché il rilievo è stato considerato dalla Corte territoriale, che ha reso una decisione conforme alla sentenza di primo grado. 2. Con il secondo motivo, ex art. 360, comma 1, n. 3, la ricorrente deduce, inoltre, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056, 1223 e 1226 c.c. lamenta che non era stato riconosciuto il danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica, in quanto la condizione residuata era stata ricondotta soltanto alla maggior usura nello svolgimento delle attività cui era preposta, con erronea applicazione delle norme invocate, anche alla luce delle conclusione del CTU che, dubitativamente, avevano rimesso al giudicante la valutazione della configurabilità del danno patrimoniale in relazione alle condizioni di invalidità descritte. 2.1. Il motivo è inammissibile. La censura prospetta, infatti, questioni di mero fatto contrapponendo all’argomentato convincimento dei giudici d’appello - che hanno puntualmente richiamato la giurisprudenza di questa Corte in punto di differenza fra il danno biologico derivante dalla maggior usura nello svolgimento di un’attività lavorativa e quello riconducibile alla ridotta capacità di guadagno - una diversa tesi difensiva con la quale, oltretutto, non è stato tenuto in alcun conto il fatto che il danno biologico riscontrato, proprio in ragione della lesione della cenestesi lavorativa, era stato personalizzato mediante l’aumento del 40% la Corte, con la motivazione criticata, ha correttamente inquadrato la natura non patrimoniale della prima fattispecie e quella patrimoniale alla quale è riconducibile la seconda, affermando con motivazione congrua e logica che l’appellante non aveva adeguatatamente provato, come avrebbe dovuto, l’incidenza reddituale negativa del sinistro sulla capacità lavorativa specifica. 2.2. Tanto premesso, le critiche avanzate mascherano una richiesta di rivisitazione di merito della controversia, non consentita in questa sede cfr. Cass. 8758/2017 cass. 18721/2018 . 3. Con il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056 e 1223 c.c., in relazione all’omessa liquidazione del danno patrimoniale da invalidità lavorativa temporanea documentata, pari ad Euro 2734,56. 3.1 Lamenta che, poiché lavorava presso due società e l’indennizzo INAIL le era stato erogato come infortunio in itinere soltanto in riferimento ad uno dei due datori di lavoro rispetto al quale era stato aperto il sinistro, il suo patrimonio non era stato reintegrato in modo completo. 3.2. La censura è inammissibile per difetto di autosufficienza. Con essa si prospetta una critica generica alla corrette argomentazioni della Corte che ha rilevato che i requisiti per il riconoscimento dell’infortunio in itinere postulavano la dimostrazione di un rigoroso nesso etiologico fra l’attività lavorativa ed il percorso stradale necessario per raggiungerla in relazione a ciò risulta pacifica l’apertura del sinistro presso l’INAIL, anche se in riferimento al lavoro svolto presso un’altra società. 3.3. E, tanto premesso, rispetto al maggior danno patrimoniale dedotto oggetto di censura derivante dalla mancata percezione degli emolumenti che le avrebbe fruttato il secondo rapporto di lavoro , la ricorrente avrebbe dovuto riportare nel ricorso il motivo al riguardo proposto dinanzi ai giudici d’appello, al fine di assolvere al principio di autosufficienza cfr. ex multis Cass. 20405/2006 Cass. 22880/2017 Cass. 20694/2018 e di consentire a questa Corte di apprezzare la doglianza proposta, confrontando la critica avanzata con il percorso argomentativo sviluppato dalla Corte che, per contro, risulta correttamente fondato sull’assenza di riscontri probatori in relazione alla ulteriore posta risarcitoria domandata. 4. Con il quarto motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., nonché degli artt. 101 e 111 Cost., in relazione al mancato ristoro delle spese di lite in favore della vincitrice. Lamenta che la Corte aveva accolto solo parzialmente la censura, omettendo di considerare che le spese vive sostenute e quelle di CTP erano di gran lunga superiori. Lamenta altresì la compensazione delle spese del grado d’appello. 4.1. Il motivo è complessivamnete inammissibile. La ricorrente non ha colto la ratio decidendi della pronuncia della Corte territoriale sul punto. 4.2. Si osserva, infatti, quanto alla prima doglianza che la Corte ha provveduto a liquidare, oltre alla differenza relativa alle maggiori spese sostenute a titolo di esborsi, anche quelle, documentate, relative alla consulenza tecnica di parte cfr. pag. 5 e 6 sentenza impugnata con ciò contraddicendo in limine la critica proposta. 4.3. Quanto al secondo rilievo, poi, il ricorrente omette di considerare che l’appello era stato solo parzialmente accolto e che la soccombenza parziale consente la compensazione delle spese, con decisione insindacabile del giudice di merito cfr. ex multis Cass. 20598/2008 Cass. 21012/2010 Cass. 20457/2011 . 5. Con il quinto motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 794 del 1942, art. 24 e delle tariffe professionali vigenti disciplinate dal D.M. n. 127 del 2004 assume che il valore della causa era molto più alto di quello al quale il giudice si era riferito per la liquidazione, a suo dire riduttiva lamenta altresì che la Corte territoriale, sul punto, aveva apoditticamente affermato che erano stati rispettati i minimi tariffari forensi del 2011 che erano quelli applicabili al caso in esame in ragione della data della decisione. 5.1. Il motivo è fondato. Pacifico che alla data della decisione di primo grado, assunta con sentenza del Tribunale di Civitavecchia n. 257/2011 dell’8.3.2011 si applicava il D.M. n. 127 del 2004, la liquidazione dei diritti e degli onorari doveva essere ricondotta al valore della controversia, consistente per le cause in materia di pagamento somme, ex art. 6 del decreto ministeriale citato, nell’importo attribuito alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandato . 5.2. Questa Corte ha avuto modo di chiarire che ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia va fissato - in armonia con il principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell’opera professionale effettivamente prestata, quale desumibile dall’interpretazione sistematica dell’art. 6, commi 1 e 2, della Tariffa per le prestazioni giudiziali in materia civile, amministrativa e tributaria avente natura subprimaria regolamentare e quindi soggetta al sindacato di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 - sulla base del criterio del disputatum ossia di quanto richiesto nell’atto introduttivo del giudizio ovvero nell’atto di impugnazione parziale della sentenza , tenendo però conto che, in caso di accoglimento solo in parte della domanda ovvero di parziale accoglimento dell’impugnazione, il giudice deve considerare il contenuto effettivo della sua decisione criterio del decisum , salvo che la riduzione della somma o del bene attribuito non consegua ad un adempimento intervenuto, nel corso del processo, ad opera della parte debitrice, convenuta in giudizio, nel quale caso il giudice, richiestone dalla parte interessata, terrà conto non di meno del disputatum , ove riconosca la fondatezza dell’intera pretesa cfr. Cass. SU 19014/2007 Cass. 22072/2009 ed in termini Cass. 3903/2016 5.3. Al riguardo, si osserva quanto segue a. ai sensi dell’art. 10 c.p.c., per la determinazione del valore della causa, gli interessi scaduti si sommano al valore del capitale il principio è riferibile, secondo questo collegio, anche al valore del decisum e cioè della somma attribuita b. per la individuazione di essa, ove siano stati pagati acconti in sede stragiudiziale - e quindi prima che il processo venga incardinato essi vanno detratti, diversamente dall’ipotesi presa in esame dal principio sopra richiamato, dall’importo complessivamente riconosciuto per i titoli dedotti. Pertanto, nel caso di specie, pur dovendosi detrarre dal quantum debeatur complessivamente riconosciuto l’acconto già percepito in via stragiudiziale di cui la stessa ricorrente da atto cfr. pag. 57 del ricorso, secondo cpv , si giunge, sommando gli interessi e la rivalutazione espressamente oggetto del decisum, ad un importo correttamente individuato nella nota spese tempestivamnete presentata nell’atto d’appello e riprodotta, in termini di autosufficienza, nel ricorso in esame. 5.4. Pertanto, la liquidazione delle spese complessivamnete effettuata nella sentenza di primo grado ed oggetto di censura in appello, risulta effettivamente erronea in quanto le somme indicate si collocano al di sotto dei minimi tariffari vigenti all’epoca della decisione in cui sussisteva il vincolo legale della loro inderogabilità cfr. della L. n. 794 del 1942, art. 24 cfr. anche Cass. n. 18167/2015, sebbene in riferimento al precedente D.M. n. 140 del 2012 Cass. 22983/2014 Cass. 30286/2017 in motivazione , tenuto conto che, oltretutto, la Corte territoriale non ha esplicitato alcunché sulle ragioni degli inferiori importi liquidati. 6. Con il sesto motivo, la ricorrente deduce la violazione dell’art. 24 Cost., in relazione al mancato riconoscimento delle spese stragiudiziali. 6.1. Lamenta che la Corte territoriale aveva affermato che le spese non erano state richieste con le modalità specificate dalla L. n. 794 del 1942, consistenti nella presentazione della nota spese. 6.2. Il motivo è fondato. Deve premettersi che questa Corte ha affermato che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 112 c.p.c., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge cfr. Cass. SUU 17931/2013 Cass. 4036/2014 Cass. 26310/2017 al riguardo, nonostante che la ricorrente abbia censurato la sentenza prospettando mediante il vizio di violazione di legge, la critica può essere riqualificata e ricondotta all’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto la motivazione risulta apparente, se confrontata con le emergenze processuali. Come è stato argomentato in relazione alla quinta censura sopra esaminata, infatti, la nota spese, riprodotta fedelmente nel ricorso, risulta presentata nell’atto d’appello docomma 29 fasc. e contiene, nella prima parte, proprio la richiesta in cui l’attività stragiudiziale è stata specificamete indicata e quantificata. 6.3. Al riguardo, questa Corte ha affermato il principio al quale questo collegio intende dare seguito secondo cui le spese di assistenza legale stragiudiziale, diversamente da quelle giudiziali vere e proprie, hanno natura di danno emergente e la loro liquidazione, pur dovendo avvenire nel rispetto delle tariffe forensi, è soggetta agli oneri di domanda, allegazione e prova secondo le ordinarie scansioni processuali cfr. Cass. SU 16990/2017 Cass. 2644/2018 Cass. 2275/2006 . 6.4. La motivazione resa dai giudici d’appello, secondo la quale le spese stragiudiziali non risultano richieste con le modalità specificate dalla L. n. 794 del 1942, risulta quindi illogica ed apparente e la sentenza, anche in relazione a tale profilo deve essere cassata. 7. Con il settimo motivo, infine, la ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 c.comma e art. 3 Cost. lamenta che la Corte territoriale non aveva applicato le tabelle del Tribunale di Milano secondo quanto affermato da questa Corte richiama Cass. 12408/2011 in materia di liquidazione del danno. 7.1. Il motivo è infondato. I giudici d’appello, infatti, hanno fatto corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte, in quanto hanno rilevato che le tabelle non erano state prodotte nè in appello nè nel giudizio di primo grado al riguardo, pur dovendo correggersi la motivazione in relazione a tale ultima statuizione, in quanto il primo giudizio è stato definito con sentenza resa in data antecedente 8.3.2011 alla pronuncia sopra richiamata con la quale le tabelle del Tribunale di Milano sono state indicate come quelle idonee a garantire uniformità di trattamento su tutto il territorio nazionale Cass. 12408/2011 del 7.6.2011 , la decisione è tuttavia corretta in relazione al giudizio d’appello, nella parte in cui è stato riaffermato il principio secondo il quale il riferimento a tabelle diverse da quelle elaborate dal Tribunale di Milano, comportante una liquidazione di entità inferiore a quella risultante dall’applicazione di queste ultime, può essere fatta valere in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, soltanto ove la questione sia stata già posta nel giudizio di merito ed il ricorrente abbia altresì versato in atti le tabelle milanesi cfr. ex multis oltre alla già citata Cass. 12408/2011, anche Cass. 24205/2014 Cass. 3015/2016 Cass. 12397/2016 . 8. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al quinto ed al sesto motivo di ricorso con rinvio alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, per il riesame della controversia in relazione alle censure accolte, alla luce dei principi di diritto sopra evidenziati ai quali deve aggiungersi il seguente Ai sensi della L. n. 794 del 1942, art. 24 e del D.M. n. 127 del 2004, art. 4, previgente rispetto al D.M. n. 55 del 2014, i minimi tariffari devono ritenersi inderogabili a meno che la parte interessata, in caso di manifesta sproporzione, non presenti il parere del consiglio dell’ordine competente relativo ad una inferiore liquidazione . La Corte di rinvio provvederà anche in ordine alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il quinto ed il sesto motivo di ricorso rigetta il primo ed il settimo e dichiara inammissibili gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’Appello di Roma per il riesame della controversia e per la decisione in ordine alle spese del giudizio di legittimità.