Il contratto di patrocinio può presumersi in presenza di procura alle liti

Pur dovendosi distinguere, quanto alla natura e funzioni, la procura alle liti, che è negozio unilaterale, dal contratto di patrocinio, può ben presumersi, in mancanza di prova del fatto che esso sia intervenuto con un terzo e a maggior ragione nel caso in cui tale deduzione difensiva risulti smentita dalle risultanze probatorie, che la parte che ha rilasciato la procura al difensore abbia altresì conferito l’incarico.

Premessa. La vicenda posta al vaglio della seconda sezione della Suprema Corte di Cassazione, pronunciatasi con la sentenza n. 6808/19, depositata in cancelleria in data 8 marzo, concerne la domanda di pagamento relativa a compensi professionali rivendicati da un avvocato collaboratore, all’epoca del conferimento della procura da parte del cliente moroso, di uno studio legale associato. Il fatto. L’avvocato intraprende un giudizio richiedendo il pagamento del saldo dei compensi professionali maturati, per aver patrocinato una causa di opposizione a decreto ingiuntivo, nell’interesse del cliente. In primo grado il Tribunale rigettava la domanda ritenendo non provata la circostanza dedotta dall’attore di aver svolto attività difensiva in favore del convenuto. Il Giudice di Prime cure sosteneva che il convenuto avesse provato di aver conferito il medesimo incarico di assistenza, di cui si rivendicava il pagamento, allo studio legale associato nel quale l’attore era collaboratore, all’epoca dei fatti, e di avere altresì corrisposto al medesimo studio i relativi compensi in misura integrale. In appello la decisione veniva ribaltata ed il cliente era condannato alla corresponsione dei compensi richiesti dall’appellante. La Corte di Appello riteneva che la procura alle liti, apposta in calce all’atto di opposizione a decreto ingiuntivo, contenesse effettivamente il conferimento di mandato professionale all’avvocato appellante, parimenti risultava che l’appellante avesse svolto di fatto l’incarico in favore dell’appellato. I Giudici di seconde cure non ritenevano, invece, raggiunta la prova in ordine al fatto che il cliente avesse conferito l’incarico professionale in favore dello studio legale associato e che, parimenti, egli avesse provveduto a regolamentare il pagamento del compenso in favore del medesimo studio associato. La sentenza era impugnata dal cliente soccombente dinanzi alla Corte di Cassazione. Il ricorrente sosteneva che il Giudice dell’appello avesse trascurato la circostanza del conferimento dell’incarico allo studio associato, oltre all’estinzione dell’obbligazione di pagamento in favore del medesimo studio, stante il saldo delle parcelle emesse. A parere del ricorrente il giudice di seconde cure avrebbe trascurato la dichiarazione resa dal coordinatore dello studio associato, nella quale si sosteneva che l’avvocato appellato avesse ricevuto il saldo integrale dei compensi allorché era andato via dallo studio associato, ove collaborava percependo uno stipendio. Inoltre, sempre secondo il ricorrente, il giudice di merito avrebbe trascurato il vincolo di esclusiva che legava il professionista allo studio associato, essendogli quindi preclusa la possibilità di avere clienti propri, nonché l’ulteriore circostanza secondo cui, nel caso di conferimento d’incarico ad uno studio associato, è questo ad avere diritto al compenso e non già il soggetto che ha eseguito materialmente la prestazione oggetto dell’incarico. Il contratto di patrocinio e la procura alle liti. Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso e confermato sostanzialmente la sentenza di secondo grado. La Corte ha statuito in ordine alla inammissibilità della censura che, per come formulata, mirerebbe ad una rivalutazione nel merito della decisione richiedendo sostanzialmente un’attività preclusa ai giudici della Cassazione. Anche sotto il profilo logico argomentativo utilizzato dalla Corte di Appello, la decisione è apparsa ai Giudici ineccepibile. L’organo di nomofilachia ha evidenziato che, mentre il contratto di patrocinio ha natura bilaterale, la procura alle liti ha invece matrice unilaterale nella vicenda in esame, pur non essendovi traccia del contratto di patrocinio, è emerso comunque il conferimento, per iscritto, della procura alle liti all’avvocato resistente. Tale evidenza documentale era stata inoltre confermata dall’istruttoria del processo, la quale aveva pure attestato l’effettivo svolgimento dell’attività difensiva da parte dell’avvocato, per l’intera durata del processo di opposizione a decreto ingiuntivo. Il vincolo di esclusiva dell’avvocato, facente parte di uno studio associato, rimane circoscritto ai rapporti interni. Per converso, l’istruttoria aveva smentito la tesi del ricorrente in ordine al presunto conferimento dell’incarico di patrocinio nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, allo studio associato. Circostanza questa del pari disconosciuta dal medesimo studio associato che, con una lettera aveva affermato di non aver ricevuto mai alcun incarico ed alcun compenso, in ordine alla vicenda oggetto del giudizio. Anche la dichiarazione resa dal coordinatore dello studio associato, che parte ricorrente avrebbe voluto valorizzare, al fine di sostenere la propria tesi, e nella quale emergeva il rapporto di esclusiva dell’avvocato con lo studio associato non poteva assumere valore dirimente ai fini della decisione. Si trattava infatti di una clausola avente una mera rilevanza interna e, come tale, inidonea ad escludere che il professionista potesse aver intrattenuto rapporti con altri clienti. Anche le fatture prodotte in giudizio dal ricorrente e relative al pagamento di parcelle allo studio legale associato, sono state ritenute inidonee a sostenere la sua tesi ricostruttiva, stante, i plurimi rapporti di conferimento d’incarico esistenti tra lo studio associato ed il ricorrente medesimo, e la loro genericità, poiché prive di alcun riferimento alla controversia oggetto di discussione. Per queste motivazioni il ricorso nel punto d’interesse trattato era rigettato, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 27 novembre 2018 – 8 marzo 2019, n. 6808 Presidente Gorjan – Relatore Bertuzzi Svolgimento del processo Con sentenza n. 2162 del 2010 il Tribunale di Padova rigettò la domanda proposta dall’avv. T.G.A. nei confronti di C.E. di condanna al pagamento della somma di Euro 8.428,06 a titolo di saldo del compenso per l’attività professionale da egli espletata nel giudizio celebrato dinanzi al suddetto tribunale di opposizione ad un decreto ingiuntivo che aveva intimato al C. di pagare a R.G. la somma di Euro 124.733,69, affermando a sostegno della decisione che il professionista non aveva provato di avere svolto l’attività difensiva mentre il C. aveva dimostrato che l’assistenza legale era stata svolta dallo studio associato K, di cui il T. faceva parte, e di avere interamente pagato allo stesso quanto dovuto a titolo di compenso. Interposto gravame la Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 1905 del 30.8.2013, riformò integralmente la sentenza impugnata e, in accoglimento delle domande del T. , condannò il C. al pagamento della somma richiesta, oltre gli interessi legali dalla messa in mora, ed alla restituzione della somma di Euro 4.758,26 versata dall’appellante in esecuzione della statuizione di primo grado che lo aveva condannato al pagamento delle spese processuali, oltre che alle spese di entrambi i gradi di giudizio. La Corte motivò la sua decisione rilevando che dalla documentazione prodotta dall’appellante in primo grado, costituita dall’atto di opposizione a decreto ingiuntivo con in calce la procura alle liti e dagli altri datti difensivi svolti in quel giudizio, totalmente trascurata dal Tribunale, risultava provato che il C. aveva rilasciato il mandato difensivo al T. e che questi aveva svolto attività processuale in suo favore, mentre non vi era prova che la parte avesse dato incarico difensivo allo studio legale K né che in relazione alla specifica attività professionale oggetto della richiesta di compenso da parte dell’appellante egli avesse saldato la parcella al medesimo studio associato. Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 13.3.2014 ricorre C.E. , affidandosi a nove motivi. Resiste con controricorso T.G.A. . Motivi della decisione Il primo motivo di ricorso denunzia violazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 2697 c.c., in punto di onere della prova gravante sull’avv. T. del proprio credito. Il motivo lamenta che il giudice di appello abbia ritenuto provato il conferimento del mandato difensivo all’avv. T. in ragione della procura alle liti allo stesso rilasciata presente in calce all’atto di citazione in giudizio, senza considerare che il C. aveva invece conferito l’incarico difensivo allo studio legale associato K, come documentato dalle fatture in atti, e aveva pagato allo stesso studio l’attività commissionata, trascurando di valorizzare, a tal fine, la dichiarazione del Dott. F. supervisore dello studio, prodotta in appello, che aveva precisato che l’avv. T. era stato integralmente compensato per tutta l’attività da lui svolta dal 2001 al 2016, data in cui aveva lasciato lo studio predetto. Lamenta inoltre che la Corte territoriale abbia considerato la lettera del 12.12.2010 in cui si dava atto che lo studio K non aveva mai dato incarico al T. della difesa nella predetta causa né aveva mai ricevuto compensi in ordine alla stessa, tralasciando invece di considerare che il T. non aveva fornito la prova di avere ricevuto l’incarico professionale dal C. e non dallo studio associato né dell’eventuale accordo in forza del quale il cliente avrebbe dovuto pagare la parcella direttamente al T. . Ancora trascurata è stata inoltre la circostanza che il professionista lavorava presso lo studio con vincolo di esclusiva, con l’effetto che questi non poteva avere clienti propri. Si aggiunge che la Corte di appello ha errato nel non ritenere che in caso di conferimento dell’incarico ad un studio associato di professionisti è esso e non il singolo professionista che ha seguito materialmente l’incarico ad avere diritto al compenso. Il motivo non merita accoglimento. La Corte territoriale ha accolto la domanda del T. ritenendo provato il conferimento dell’incarico professionale da parte del C. , lo svolgimento da parte sua dell’attività difensiva e che il convenuto non aveva dato prova del proprio assunto di avere dato l’incarico professionale allo studio legale associato e di avere corrisposto allo stesso il compenso. Ciò premesso, il mezzo è in larga parte inammissibile laddove censura la valutazione del materiale probatorio da parte del giudice di appello, che, per giurisprudenza costante di questa Corte, essendo rimessa dalla legge al prudente apprezzamento del giudice di merito, integra un’operazione valutativa che si sottrae al sindacato di questa Corte, che è limitato al controllo di legittimità e non può estendersi agli apprezzamenti di fatto. Le censure svolte dal ricorso non appaiono nemmeno idonee ad inficiare dal punto di vista logico e valutativo le conclusioni accolte dalla Corte di merito. In particolare. va ritenuta esente da critiche la conclusione del giudice di appello che ha desunto il conferimento dell’incarico professionale all’avv. T. dal rilascio della procura alle liti in suo favore firmata dal C. apposta in calce all’atto di opposizione a decreto ingiuntivo da lui redatto. Ed infatti, pur dovendosi distinguere, quanto alle natura e funzioni, la procura alle liti, che è negozio unilaterale, dal contratto di patrocinio, può ben presumersi, in mancanza di prova del fatto che esso sia intervenuto con un terzo e a maggior ragione nel caso in cui tale deduzione difensiva risulti smentita dalle risultanze probatorie, così come ritenuto dal giudice a quo, che la parte che ha rilasciato la procura al difensore abbia altresì conferito l’incarico. Il rilascio della procura alle liti costituisce invero atto conseguente al contratto di patrocinio e la relazione funzionale che si instaura tra tali atti porta a presumere la coincidenza soggettiva tra i suoi autori Cass. n. 4959 del 2012 Cass. n. 24010 del 2004 . La Corte ha inoltre motivato il proprio convincimento in forza anche del rilievo che tutti gli atti difensivi relativi al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo promosso dal C. erano stati posti in essere dal T. , che aveva seguito tutte le fasi del processo, affermando. con riguardo alla prospettazione difensiva dell’appellato, che ha sempre sostenuto di avere dato l’incarico professionale allo studio associato, che essa non risultava provata ed anzi era stata smentita dalla lettera del 12.12.2010, che pur prodotta in secondo grado ha ritenuto di utilizzare in quanto formata successivamente alla sentenza appellata, con cui lo Studio associato dichiarava di non avere mai avuto l’incarico in oggetto né di avere percepito somme con riguardo allo stesso. Tanto precisato. la censura secondo cui la Corte avrebbe omesso l’esame della lettera del Dott. F. , supervisore dello studio, prodotta in appello, che aveva precisato che l’avv. T. era stato integralmente compensato per tutta l’attività da lui svolta dal 2001 al 2016, data in cui aveva lasciato lo studio, è inammissibile, dal momento che essa è irrilevante al fine di stabilire il soggetto con cui è stato stabilito il rapporto professionale. così come il fatto che la collaborazione prestata dal T. all’interno dello studio associato sarebbe stata prevista in regime di esclusiva, atteso che una tale clausola ha una mera rilevanza interna nell’ambito del rapporto di associazione professionale, ma di per sé non esclude che il professionista abbia intrattenuto in proprio rapporti con i clienti. Inconferenti sono anche le fatture in atti di cui il ricorso denunzia l’omesso esame, non essendo la censura accompagnata dal rilievo che esse si riferiscono a compensi relativi all’attività professionale per cui è causa. Priva di qualsiasi supporto è inoltre la critica alla considerazione svolta dal giudice di appello secondo cui dalla documentazione prodotta dal convenuto in primo grado non poteva desumersi l’avvenuto pagamento delle prestazioni professionali inerenti la predetta causa allo studio K, avendo la Corte motivato la sua conclusione con il rilievo, che costituisce apprezzamento di fatto, che tale attestazione di pagamento era del tutto generica e priva di indicazioni tali da poter risalire a quali tra le diverse pratiche seguite per conto del C. dalla studio K essa si riferisse. Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 2697 c.c., in punto di onere della prova gravante su C.E. , lamentando l’omessa considerazione da parte del giudice di appello delle seguenti circostanze che il T. collaborava presso lo studio associato in regime di esclusiva che lo stesso percepiva dallo studio un compenso mensile che il C. aveva saldato tutte le competenze professionali del predetto studio che a mente della legge professionale in caso di incarico ad una società professionale, è dovuto il compenso per l’attività svolta da un solo avvocato che il T. non aveva provato un diverso accordo tra le parti. Anche questo motivo non supera il vaglio di inammissibilità, tenuto conto che le circostanze in esso riferite non inficiano la logicità e correttezza dell’iter argomentativo delle ragioni su cui la Corte di appello ha fondato la propria decisione, non apparendo elementi decisivi per giungere ad una conclusione diversa. La collaborazione del C. allo studio associato non appare infatti circostanza idonea di per sé ad escludere la sussistenza del rapporto di patrocinio dedotto in giudizio, mentre circa l’avvenuto pagamento da parte dell’odierno ricorrente delle competenze dovute al predetto studio. appare del tutto assorbente la valutazione delle relative prove da parte della Corte di merito, che da un lato ha rilevato che nella documentazione a tal fine prodotta mancava un riferimento diretto al compenso per l’attività professionale di cui il T. chiedeva il compenso e, dall’altro, che lo stesso C. aveva conferito allo studio associato numerosi incarichi, per cui non era possibile risalire a quali pratiche essa si riferisse. Merita aggiungere che gran parte delle circostanze riferite risulterebbero, secondo quanto sostenuto dal ricorso, da documenti di cui la parte non riproduce il contenuto ma richiama attraverso la numerazione in relazione ai propri fascicoli di primo e di secondo grado, mancanza che non consente a questa Corte, che non ha accesso diretto agli atti dei giudizi di merito, di apprezzarne la reale consistenza né di verificarne, con riferimento a quello allegato al fascicolo in appello, l’ammissibilità della produzione. Il terzo motivo denunzia omesso esame di un punto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, censurando la sentenza impugnata per avere omesso l’esame della lettera del Dott. F. , socio fondatore dello studio K, prodotta nel giudizio di appello, che dichiarava che l’avv. T. lavorava presso il predetto studio in regime di esclusiva ed aveva ricevuto compensi dal 2001 al 2006 e che il predetto studio associato aveva svolto nel predetto periodo servizi professionali in favore del C. , ricevendo tutto il compenso dovuto. Il motivo è inammissibile in quanto non precisa in quale momento il documento, che non risulta esaminato dalla Corte territoriale, sia stato prodotto, tenuto conto della controdeduzione del controricorrente pag. 15 , secondo cui esso è stato prodotto tardivamente solo con la memoria di replica alla conclusionale avversaria. Sotto altro profilo il ricorso non illustra le ragioni della indispensabilità del documento ai fini della decisione, quale condizione per la sua ammissione nel giudizio di primo grado, ai sensi dell’art. 345 nella versione ratione temporis in vigore. Il quarto motivo denunzia violazione dell’art. 345 c.p.c., e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 116 c.p.c., per avere la Corte veneta considerato come prova del diritto al compenso della controparte la lettera del 12.12.2010 prodotta dal T. in secondo grado, nonostante la stessa non costituisse documento indispensabile ai fini della decisione e, per il suo contenuto e perchè proveniente da un collaboratore dello studio e non dal titolare, fosse comunque non rilevante sul piano probatorio. Il motivo va disatteso per difetto di interesse, atteso dalla lettura della sentenza impugnata emerge che la Corte di appello ha esaminato tale documento ritenendo l’ammissibilità della sua produzione in quanto formato in epoca successiva alla pronuncia della sentenza di primo grado, motivazione questa che non appare investita dal motivo. Va inoltre osservato che la Corte ha richiamato il suddetto documento soltanto a conferma delle conclusioni già raggiunte in forza della documentazione prodotta dall’attore in primo grado, sicché il vizio denunziato difetta anche di decisività, risultando il convincimento del giudice fondato su altri elementi di prova. Il quinto motivo denunzia violazione delle norme sull’arricchimento senza causa art. 2041 c.c. , lamentando che la Corte abbia condannato l’odierno ricorrente al pagamento della somma di Euro 4.758,26 versata dalla controparte in esecuzione della statuizione di condanna al pagamento delle spese processuali di primo grado, senza considerare che il T. non aveva affatto versato tale somma ma si era limitato, con un atto di pignoramento a mani proprie, a compensarla con asseriti propri crediti, con riferimento peraltro all’importo inferiore di Euro 4.694,84. Si contesta inoltre che la Corte abbia pronunciato tale condanna e altresì condannato il C. al pagamento delle spese del giudizio di primo grado. Il motivo è inammissibile dal momento che deduce una violazione di norma di legge, l’art. 2041 c.c., che obbliga colui che si è arricchito senza giusta causa in danno di altri, ad indennizzare quest’ultima, nei limiti dell’arricchimento ricevuto, della correlativa diminuzione patrimoniale , che non si pone in alcun modo in correlazione con l’errore in cui sarebbe incorsa - la Corte di appello, laddove si assume che abbia condannato l’attuale ricorrente a restituire una somma maggiore di quella versata dalla controparte in esecuzione della sentenza di primo grado. Il mezzo inoltre non rispetta il principio di autosufficienza, dal momento che non riproduce il documento da cui risulterebbe il versamento da parte del T. , comprovante la circostanza che questi avrebbe versato una somma inferiore a quella presa in considerazione dalla corte veneta. Il sesto motivo denunzia violazione dell’art. 2041 c.c., lamentando che la Corte, nell’accogliere la domanda di merito del T. , abbia condannato l’appellato al pagamento degli interessi sulla somma liquidata dalla data di messa in mora e non da quella della proposizione della domanda in giudizio. Anche questo motivo è inammissibile, per l’assenza di correlazione tra il fatto denunciato e la norma che si assume violata, valendo anche per esso il rilievo che l’indebito arricchimento denunziato integrerebbe un mero effetto conseguenza della decisione che si assume errata, ma non già la violazione del contenuto della disposizione dell’art. 2041 c.c., la cui applicazione non ha mai in nessun modo formato oggetto di richiesta né è stata mai richiamata o applicata nel presente giudizio. Il settimo motivo denunzia violazione dell’art. 91 c.p.c., e dell’art. 2041 c.c., lamentando che la Corte abbia condannato l’odierno ricorrente anche al pagamento delle spese del decreto ingiuntivo, come dallo stesso liquidate, procedimento che invece non era mai stato posto in essere, avendo il T. introdotto la causa con ordinario atto di citazione. Il motivo è fondato risultando dalla lettura della stessa sentenza impugnata che il giudizio è stato introdotto con atto di citazione né mai facendosi riferimento in essa alla richiesta da parte del T. , per ottenere il pagamento. di un decreto ingiuntivo. 11 riferimento ad esso in sede di regolamentazione delle spese processuali deve pertanto ritenersi errato, come del resto riconosciuto dallo stesso ricorrente, con conseguente cassazione della statuizione di condanna sul punto. L’ottavo motivo denunzia violazione dell’art. 116 c.p.c., in ordine al contegno delle parti ai sensi dell’art. 88 c.p.c., lamentando che la Corte di appello abbia ritenuto di liquidare le spese di giudizio applicando la tariffa professionale nella misura massima in considerazione della ritenuta ma inesistente pretestuosità delle ragioni opposte dal convenuto. Il motivo è inammissibile in quanto la statuizione di condanna del giudice di merito a titolo di spese processuali è censurabile in cassazione, con riguardo al suo ammontare, solo laddove si sia discostata dai limiti minimi o massimi previsti dalla tariffa professionale, mentre appartiene all’insindacabile potere del giudice della causa stabilirne l’entità, nel rispetto di tali limiti. Il nono motivo di ricorso denunzia violazione dell’art. 116 c.p.c., in ordine al contegno delle parti ai sensi dell’art. 88 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per non avere considerato il contegno processuale della controparte, che aveva negato, in contrasto con le risultanze documentali, di avere collaborato con lo studio legale K con vincolo di esclusiva. Anche questo motivo è inammissibile, in quanto la valutazione ai fini dell’ammontare delle spese di giudizio del comportamento processuale delle parti è rimesso alla discrezionalità del giudice. la cui valutazione al riguardo non può essere oggetto di sindacato in sede di giudizio di legittimità. In conclusione, respinti gli altri motivi, va accolto il settimo motivo di ricorso. La sentenza va pertanto cassata in relazione al motivo accolto, senza necessità di rinvio, stante la non necessità di adottare statuizioni di merito. Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo. seguono la soccombenza del ricorrente, da considerarsi nettamente prevalente. P.Q.M. accoglie il settimo motivo di ricorso, respinti gli altri cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata nella parte in cui ha condannato C.E. al pagamento delle spese del decreto ingiuntivo. condanna il C. al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 4.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%.