Spetta all’avvocato provare lo svolgimento dell’attività di consulenza legale

Incombe sul professionista l’onere di provare lo svolgimento dell’attività professionale per la quale si richiede il pagamento del compenso.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con sentenza n. 15930/18 depositata il 18 giugno. Il caso. Il Tribunale di Roma rigettava la domanda attorea con cui si richiedeva la condanna del convenuto, calciatore professionista, al pagamento dei compensi professionali maturati dall’attore per avergli offerto assistenza legale durante la stipulazione di un contratto lavorativo. Per i Giudici di prime cure e poi anche per la Corte d’Appello, adita in secondo grado, l’attività svolta dall’attore doveva inquadrarsi in quella di procuratore sportivo e non di avvocato, privando di efficacia probatoria la parcella pro-forma inviata al calciatore convenuto, il quale si era costituito solo tardivamente in giudizio. L’onere probatorio del professionista. Secondo il principio affermato dalla Suprema Corte ed estendibile anche all’ipotesi di svolgimento dell’attività legale, l’onere di provare lo svolgimento dell’attività professionale per la quale si richiede il pagamento del compenso incombe sul professionista stesso e la parcella da questi predisposta è priva di rilievo probatorio nell’ordinario giudizio di cognizione. Infatti, è la stessa Corte a ribadire Sezioni Unite, con sentenza n. 14699/2010, che la parcella dell’avvocato costituisce una dichiarazione unilaterale assistita da una presunzione di veridicità, che però può essere posta a fondamento della decisione solo laddove le poste o voci in essa elencate non siano interessate da specifiche contestazioni del cliente, ma non anche nel diverso caso in cui la controparte, e nell’ambito di un giudizio di cognizione ordinario, sia rimasta contumace . Invero, nella fattispecie, non può attribuirsi alcuna rilevanza all’iniziale mancata costituzione del convenuto, posto che il principio di non contestazione, ex art. 115 c.p.c., presuppone l’avvenuta costituzione della controparte, incombendo così sull’attore l’effettivo svolgimento dell’attività di assistenza legale svolta nell’interesse del calciatore e la sua corrispondenza a quanto riportato in fattura. Per queste ragioni, la Corte rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza 8 marzo – 18 giugno 2018, n. 15930 Presidente D’Ascola – Relatore Criscuolo Motivi in fatto ed in diritto della decisione L’avv. C.D. chiedeva la condanna di A.S. , calciatore professionista, al pagamento dei compensi professionali maturati per l’attività di assistenza legale prestata nell’interesse del convenuto in occasione della stipula del contratto con il Parma Calcio in data omissis . Il Tribunale di Roma rigettava la domanda ritenendo che in realtà l’attività svolta dall’attore andava inquadrata in quella di procuratore sportivo e non di avvocato, e la Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 566 del 28 gennaio 2016 confermava il rigetto. A tal fine escludeva che vi fosse stata ammissione da parte del convenuto dello svolgimento dell’attività professionale che l’attore sosteneva di avere effettuato, come si ricavava dagli atti del procedimento arbitrale che aveva visto coinvolto il convenuto ed il figlio dell’attore, C.A. , nel corso del quale l’A. aveva sempre ribadito che a svolgere il ruolo di procuratore sportivo, sebbene sprovvisto di procura era stato C.D. . La stessa missiva del 17 gennaio 2003 sottoscritta da Dario ed C.A. qualifica espressamente il credito vantato come derivante da un rapporto procuratorio calcistico, il che depone in maniera inequivoca in senso contrario a quanto affermato dall’attore. Inoltre correttamente il Tribunale ha ritenuto del tutto generiche le indicazioni in ordine alla risoluzione di non poche questioni legali, contenuto nella detta missiva, mancando qualsivoglia riscontro documentale e testimoniale per tale assunto. Infatti, non risulta, nemmeno dalla disamina delle deposizioni testimoniali, che siano sorte delle situazioni che imponevano la partecipazione alla trattativa per la stipula del contratto di un legale, essendo peraltro compito del procuratore sportivo, anche quello di fornire un’attività di consulenza legale. Ne consegue che il C. non ha fornito la prova dell’attività svolta, non avendo quindi maturato il diritto al compenso preteso. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso C.D. sulla base di due motivi. L’intimato non ha svolto difese in questa fase. Il primo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2727 c.c., in quanto i giudici di merito avrebbero privato di qualsiasi rilievo probatorio la parcella pro-forma inviata all’A. il quale si era costituito solo tardivamente nel corso del giudizio di primo grado. In realtà era quindi il convenuto a dover dimostrare le circostanze contrarie a quanto emergeva dalla fattura, anche alla luce della sua tardiva costituzione. Il motivo è destituito di fondamento. Correttamente i giudici di appello hanno richiamato i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 9254/2006, che appunto ribadisce che l’onere di provare lo svolgimento dell’attività professionale per la quale si richiede il pagamento del compenso incombe sullo stesso professionista, principi che appaiono suscettibili di estensione anche allo svolgimento dell’attività legale. In tal senso si veda in senso conforme a quanto affermato dalla sentenza gravata Cass. n. 3627/1999, nella quale si precisa che la parcella predisposta dal professionista è priva di rilevanza probatoria nell’ordinario giudizio di cognizione Cass. n. 1513/1997 . Ed, invero, la parcella panche se corredata dal parere del competente Consiglio dell’ordine di appartenenza del professionista, mentre ha valore di prova privilegiata e carattere vincolante per il giudice ai fini della pronuncia dell’ingiunzione, eventualmente richiesta dal professionista, non ha - costituendo semplice dichiarazione unilaterale del professionista - valore probatorio nel successivo giudizio di opposizione, nel quale il creditore opposto assume la veste sostanziale di attore e su di lui incombono i relativi oneri probatori ex art. 2697 cod. civ., ove vi sia contestazione da parte dell’opponente in ordine all’effettività ed alla consistenza delle prestazioni eseguite o all’applicazione della tariffa pertinente ed alla rispondenza ad essa delle somme richieste. Peraltro lo stesso precedente invocato dal ricorrente Cass. S.U. n. 14699/2010 ribadisce che la parcella dell’avvocato costituisce una dichiarazione unilaterale assistita da una presunzione di veridicità, che però può essere posta a fondamento della decisione solo laddove le poste o voci in essa elencate non siano interessate da specifiche contestazioni del cliente, ma non anche nel diverso caso in cui la controparte, e nell’ambito di un giudizio di cognizione ordinario, sia rimasta contumace. Infatti, alcuna rilevanza può attribuirsi all’iniziale mancata costituzione del convenuto, posto che il principio di non contestazione, come oggi chiaramente esplicitato dal novellato art. 115 c.p.c., così come novellato dalla legge n. 69/2009, che sul punto ha recepito le pacifiche indicazioni della dottrina e della giurisprudenza, presuppone l’avvenuta costituzione della controparte. Ne deriva che proprio in ragione dell’iniziale mancata costituzione dell’A. , in base ai principi di ripartizione dell’onere della prova, come evincibili dai richiamati precedenti, incombeva sul C. l’onere di dimostrare l’effettivo svolgimento dell’attività svolta nell’interesse del convenuto e la sua corrispondenza a quanto riportato in fattura, la quale in tanto può assumere una presunzione di veridicità in quanto risulti dimostrata l’effettiva sussistenza di un mandato professionale riconducibile ad un incarico di natura legale. Vale poi osservare che a seguito della sua tardiva costituzione in primo grado, la difesa dell’A. ha inteso fermamente contestare l’esistenza di un rapporto di assistenza legale con il C. , riconducendo l’attività svolta al diverso rapporto di procuratore sportivo, conclusione alla quale hanno inteso aderire i giudici di merito, secondo il loro insindacabile apprezzamento in fatto. Il secondo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 166, 167, 184, 293 e 345 c.p.c. in quanto ÌA. si era tardivamente costituito in primo grado, non oltre i termini di all’art. 184 c.p.c., avendo quindi sollevato una tardiva eccezione in merito alla corretta qualificazione del rapporto procuratorio intercorso con il C. , e soprattutto versando in atti la lettera del 17 gennaio 2003, a firma dello stesso ricorrente. Trattasi di attività processuali precluse, e che il Tribunale anche d’ufficio avrebbe dovuto rilevare come tali, non ponendole quindi a base della decisione adottata. Il rilievo ufficioso delle preclusioni imponeva altresì di rilevare la tardiva allegazione e produzione anche in grado di appello, come appunto disposto dall’art. 345 c.p.c Il motivo è parimenti privo di fondamento. Ed, invero, premesso che la contestazione circa la corretta qualificazione giuridica del rapporto professionale intercorso con il ricorrente non costituisce eccezione in senso stretto, ma mera sollecitazione al corretto esercizio di qualificazione della fattispecie giuridica dedotta in giudizio da parte del giudice adito, e che pertanto non appare invocabile il regime delle preclusioni previsto per le eccezioni in senso stretto, va rilevato in maniera del tutto assorbente che la qualificazione come attività procuratoria sportiva e l’utilizzo a tal fine della missiva del 17 gennaio 2003 sono state compiute entrambe dal Tribunale. Non risulta tuttavia che la violazione del regime delle preclusioni per effetto delle attività tardivamente poste in essere da parte del convenuto, ed invece valorizzate dal Tribunale, sia stata oggetto di una specifica censura del C. nei confronti della sentenza di primo grado, trattandosi appunto di questione che non risulta essere stata affrontata dalla sentenza di appello la cui parte espositiva delle doglianze dell’odierno ricorrente evidenzia invece una critica in merito all’apprezzamento in concreto della valenza probatoria del documento de quo, senza quindi contestarsene anche l’utilizzabilità in chiave processuale e che lo stesso ricorrente non deduce essere stata oggetto di uno specifico motivo di appello. In tal senso deve quindi farsi applicazione di quanto già condivisibilmente affermato da questa Corte, la quale ha precisato che cfr. Cass. n. 20678/2016 in tema di ricorso per cassazione, la questione della tardività delle allegazioni e dei documenti prodotti in primo grado non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità ma deve risultare sollevata in appello, atteso che la nullità del processo di primo grado è soggetta al principio generale, stabilito nell’art. 161 c.p.c. della conversione delle ragioni d’invalidità in motivo d’impugnazione. L’assenza di una denunzia della violazione del regime delle preclusioni processuali in sede di appello impedisce quindi che la parte se ne possa dolere in questa sede. Il ricorso deve quindi essere rigettato. Nulla per le spese atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013 , che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. P.Q.M. Rigetta il ricorso Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.