Esposto al COA contro l’avvocato: diritto del cliente a depositare la segnalazione o diritto del legale al risarcimento?

Il comportamento deontologicamente scorretto dell’avvocato e le ‘contro-mosse’ dell’assistito il discrimen tra diffamazione e legittimo esercizio del diritto di critica.

Così la Corte di Cassazione, Sesta Sezione Civile, ordinanza n. 10542/18, depositata il 3 maggio. Procedimento disciplinare a carico dell’avvocato. Il procedimento disciplinare deve essere considerato come uno strumento preposto sostanzialmente alla tutela di interessi pubblici. Infatti, risulterebbe inconcepibile per il nostro sistema democratico un eventuale divieto agli interessati di chiedere, agli specifici organi istituzionalmente a ciò preposti, il controllo sulla condotta deontologica di professionisti -quali gli avvocati la cui attività può incidere profondamente sui diritti personali e patrimoniali di chi è da questi assistito nella tutela delle proprie posizioni giuridiche soggettive. E’ per questa ragione di fondo che il dubbio sulla correttezza professionale di tali figure non può tradursi in una automatica reazione punitiva dello Stato, se non nei casi che effettivamente la richiedono. La verifica della conformità delle condotte alle regole deontologiche, imposte agli aderenti dagli ordini professionali tra cui il C.O.A., da parte di coloro che hanno operato nella sfera giuridica dei cittadini, sarebbe relegata in una dimensione solamente virtuale ove, sotto la minaccia della sanzione penale, si vietasse ai clienti di accedere proprio a quegli enti preposti al controllo dell’eventuale violazione delle norme di condotta. Ed è così che la segnalazione del cliente afferente a comportamenti deontologicamente non corretti mantenuti da un avvocato o da altro professionista altro non è, ove gli episodi siano corrispondenti al vero o, comunque, ove il cliente ne sia realmente anche se erroneamente convinto, che esercizio della legittima tutela del cittadino dei propri interessi e diritto di critica. La Suprema Corte, in più occasioni, ha avuto modo di ricordare come senza libertà di espressione e di critica, la dialettica democratica non possa realizzarsi. Ebbene, è in questa cornice che si innesta la vicenda, giunta sino agli Ermellini, di richiesta di risarcimento danni da parte di un avvocato nei confronti di un proprio ex-cliente, reo secondo il legale di averlo disonorato mediante il deposito, presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati cui il primo apparteneva, di un esposto diffamatorio. Infatti, il provvedimento in parola è una ordinanza della Suprema Corte che si è occupata del ricorso, presentato da un avvocato, di impugnativa della sentenza della Corte d'Appello che, in accoglimento del gravame interposto dalla controparte rectius , il cliente avverso la decisione del tribunale competente, rigettava la domanda di risarcimento danni avanzata dall'avvocato a seguito delle espressioni diffamatorie contenute in un esposto inviato al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati competente. Onere della prova. Tra i motivi, cui il legale affidava il buon esito del proprio ricorso, vi era quello relativo al sedicente ‘ribaltamento’ del principio dell'onere della prova in relazione alla domanda attorea appunto, di risarcimento dei danni per diffamazione che, però, viene dichiarato dalla Corte di Cassazione inammissibile prima ancora che manifestamente infondato. Gli Ermellini, infatti, espongono che il legale non ha colto appieno la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha, innanzi tutto, fatto applicazione del principio comune alla giurisprudenza civile e penale della Corte stessa per cui l’esposto o la segnalazione al competente Consiglio dell'Ordine Forense, che contenga accuse di condotte deontologicamente e penalmente rilevanti tenuti da un professionista nei confronti del cliente denunciante, costituisce esercizio di legittima tutela degli interessi di quest'ultimo, attraverso il diritto di critica ex art. 51 c.p. per il quale valgono i limiti adesso connaturati, occorrendo in primo luogo che le accuse abbiano un fondamento o, almeno, che l'accusatore sia fermamente ed incolpevolmente ancorché erroneamente convinto di quanto afferma. E’ in base a tale premessa precisa la Suprema Cassazione che la Corte Territoriale ha ritenuto provata e fondata, in base alle risultanze di causa in applicazione del cd. principio di acquisizione del materiale probatorio, rispetto al quale va contemperato il principio generale di riparto dell'onere probatorio ex art 2697 c.c. -, la lagnanza del cliente circa la inutilità dell'attività successiva all'archiviazione, ai fini della riattivazione del processo, e circa la mancanza di informazioni sulle finalità di tale attività. Pertanto, il giudice di appello, soltanto a fronte della prova così raggiunta, ha ritenuto che l'avvocato non avesse dato dimostrazione contraria di aver specificamente informato il cliente sugli obiettivi dell'attività svolta successivamente all'archiviazione del processo penale, la cui inutilità era stata denunciata con l'esposto del cliente. La presente vicenda è ulteriormente esplicativa di quanto ripetutamente spiegato dalla Suprema Corte in merito ai rapporti tra il delitto di diffamazione ex art. 595 c.p. ed il diritto di critica di chi, inviando un esposto al COA, intende ottenere il controllo di quest’ultimo su eventuali violazioni di regole deontologiche. Particolarmente interessante, in merito, è da considerarsi un’altra recente vicenda giudiziaria che ha visto un ex-cliente esporre al COA di appartenenza del proprio avvocato una comunicazione con la quale l’uomo lamentava di aver subìto un ‘tentativo di truffa’ da parte del legale e consistente nel ricevimento di una diffida di pagamento di onorari senza previa emissione di fattura. Ebbene, anche in quel caso gli Ermellini spiegano come tale condotta non integri il delitto di diffamazione poiché con tale esposto l’ex-cliente manifestava perplessità sulla correttezza professionale del proprio avvocato, così ricorrendo la generale causa di giustificazione ex art. 51 c.p., sub specie , di esercizio del diritto di critica.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza 8 febbraio – 3 maggio 2018, n. 10542 Presidente Amendola – Relatore Vincenti Fatto e diritto Ritenuto che, con ricorso affidato a due motivi, l’avvocato P.S. ha impugnato la sentenza della Corte di appello di Catania, in data 26 luglio 2016, che, in accoglimento del gravame interposto da N.A. avverso la decisione del Tribunale della medesima Città, rigettava la domanda di risarcimento danni avanzata dal P. a seguito delle espressioni diffamatorie contenute in un esposto inviato dal N. al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Catania che resiste con controricorso N.A. che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, in prossimità della quale hanno depositato memoria sia il ricorrente, che il controricorrente che il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione in forma semplificata. Considerato che a con il primo mezzo è denunciato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., ribaltamento del principio dell’onere della prova in relazione alla domanda attorea. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. , avendo la Corte territoriale erroneamente addossato ad esso attore la prova di avere spiegato al N. le finalità che si intendevano perseguire attraverso l’attività successiva alla definizione del procedimento penale a.1 il motivo è inammissibile, prima ancora che manifestamente infondato. Esso, infatti, non coglie appieno la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha anzitutto fatto applicazione del principio comune alla giurisprudenza penale e civile di questa Corte Cass. pen. 28081/2011 e Cass. civ. n. 20891/2013, in motivazione per cui l’esposto o segnalazione al competente Consiglio dell’ordine forense, che contenga accuse di condotte deontologicamente e penalmente rilevanti tenute da un professionista nei confronti del cliente denunciante, costituisce esercizio di legittima tutela degli interessi di quest’ultimo, attraverso il diritto di critica art. 51 cod. pen. , per il quale valgono i limiti ad esso connaturati, occorrendo, in primo luogo, che le accuse abbiano un fondamento o, almeno, che l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente ancorché erroneamente convinto di quanto afferma. In base a tale premessa la Corte territoriale ha ritenuto provata e fondata, in base alle risultanze di causa e, dunque, in applicazione del c.d. principio di acquisizione del materiale probatorio, rispetto al quale va contemperato il principio generale di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c. Cass. n. 21909/2013 , la lagnanza del N. circa l’inutilità dell’attività successiva all’archiviazione, ai fini della riattivazione del processo, e circa la mancanza di informazioni sulle finalità di tale attività . Dunque, il giudice di appello, soltanto a fronte della prova così raggiunta, ha ritenuto - in armonia con il riparto dell’onere probatorio - che l’avvocato P. non avesse dato dimostrazione contraria e in primo grado neppure dedotto di aver specificamente informato il N. sugli obiettivi effettivi dell’attività svolta successivamente all’archiviazione del processo penale, la cui inutilità era stata denunciata con l’esposto del cliente b con il secondo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., erronea, illogica e contraddittoria motivazione nella valutazione delle prove in atti. Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. , per aver la Corte territoriale valutato erroneamente e illogicamente le prove acquisite, le quali erano tali da dimostrare che il N. era stato chiaramente edotto di tutta l’attività svolta da esso legale b.1 il motivo è inammissibile, giacché propone delle critiche alla sentenza impugnata secondo il paradigma del vizio motivazionale di cui alla formulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. non più vigente e inapplicabile ratione temporis alla presente impugnazione senza evidenziare, alla stregua della vigente norma processuale, alcun omesso esame di fatto storico decisivo e discusso , là dove in tal senso si collocano anche le doglianze di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in quanto deducenti, inammissibilmente, un vizio motivazionale , non attingendo esse ad effettiva denuncia di violazione delle rispettive norme processuali cfr. Cass. n. 11892/2016 che la memoria del ricorrente non fornisce argomenti idonei a superare i rilievi che precedono che il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo in conformità ai parametri di cui al d.m. n. 55 del 2014. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, in favore del controricorrente, in Euro 7.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.