E’ precluso all’avvocato avere contatti con la controparte non assistita da altro difensore

Ove la controparte non sia assistita da alcun difensore, deve ritenersi che all’avvocato sia precluso ogni contatto, proprio perché la stessa si trova in una situazione di evidente vulnerabilità.

E’ quanto affermato dalle SS. UU. della Corte di Cassazione con sentenza n. 2273, depositata il 31 gennaio 2018. Il fatto. Un cliente presentava al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati territorialmente competente un esposto nei confronti di un avvocato. In particolare, il ricorrente esponeva di essere il padre di una bambina rimasta vittima di violenza sessuale da parte di un sacerdote difeso, in sede penale, dall’avvocato contro cui proponeva l’esposto. Lamentava che il professionista si era recato presso di lui e, in considerazione della precarietà della sua condizione economica, gli aveva promesso aiuto a condizione che egli nominasse proprio difensore una legale di sua conoscenza. Il ricorrente riferiva di aver accettato l’offerta sia dell’aiuto economico che della nomina del difensore suggeritogli. Detto difensore lo aveva assistito sino all’incidente probatorio, momento nel quale il ricorrente gli aveva revocato il mandato dopo che era venuto a sapere che il difensore era assistente presso la medesima facoltà universitaria nella quale l’avvocato contro cui si procedeva ricopriva anche il ruolo da preside. Il ricorrente, quindi, immaginò che il predetto avvocato si fosse approfittato del suo stato di bisogno. Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati adito, dopo aver invitato il professionista a dedurre in merito, apriva un procedimento disciplinare a suo carico, ipotizzando la violazione dei doveri di lealtà, correttezza e probità per i fatti sopradescritti. All’esito dell’istruttoria dibattimentale, il COA irrogò ai danni del professionista la sanzione della censura. La pronuncia veniva impugnata dal legale, ma il Consiglio Nazionale Forense rigettava il ricorso con sentenza contro la quale il professionista proponeva ricorso per Cassazione. L’illecito disciplinare. Gli Ermellini, hanno ritenuto infondato, tra l’altro, il primo motivo di ricorso proposto per erronea applicazione di norme del nuovo codice deontologico, sul rilievo che il fatto ritenuto in sentenza non sarebbe previsto come illecito disciplinare. In particolare, secondo il ricorrente dall’art. 41 del codice deontologico forense non potrebbe trarsi conferma dell’esistenza dell’illecito disciplinare riconosciuto dal CNF e sanzionato con la censura. Al contrario, secondo i Giudici di legittimità, le difese del ricorrente non tengono conto delle previsioni di cui ai commi 1 e 2 del citato art. 41 – i quali vietano all’avvocato di mettersi in contatto con la controparte che sia assistita da un collega e consentono al medesimo di avere contatti con le altre parti solo in presenza del loro difensore o con il consenso di questi – non vanno intese nel senso restrittivo che il motivo di ricorso in esame fa proprio. Prevedere che, qualora la parte sia assistita da un difensore, l’avvocato può avere contatti con essa solo in presenza o col consenso di questi, non equivale a riconoscere che, in caso di assenza di un difensore, tali contatti siano possibili senza alcuna limitazione. Il che è ciò che il CNF ha riconosciuto con la sentenza impugnata, là dove ha sostenuto che ciò che assumeva rilievo era, appunto, l’incontro in sé, perché il particolare contesto di quell’incontro avrebbe dovuto imporre al difensore del sacerdote imputato di violenza sessuale su una minore, di astenersi da qualsiasi contatto diretto col padre della bambina, del quale gli era nota la situazione di disagio economico e sociale in cui viveva. Concludendo. I Giudici, nel rigettare tutti i motivi di ricorso proposto dal professionista concludono affermando che secondo quanto accertato dal giudice disciplinare, la situazione di evidente vulnerabilità del padre della bambina violentata risultava palese occhi del professionista contro cui era stato azionato il procedimento. Detta situazione avrebbe certamente dovuto consigliargli prudentemente di astenersi da qualsivoglia contatto con il medesimo.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 5 dicembre 2017 – 30 gennaio 2018, n. 2273 Presidente Canzio – Relatore Cirillo Fatti di causa 1. C.G. presentò al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Milano un esposto nei confronti dell’avv. Z.M. . In quell’atto egli, premesso di essere padre di una bambina di dieci anni che era rimasta vittima di violenza sessuale da parte di un sacerdote difeso, in sede penale, dall’avv. Z. , lamentò che il professionista si era recato presso di lui e, in considerazione della precarietà della sua situazione economica, gli aveva promesso aiuto a condizione che egli nominasse proprio difensore l’avv. Ca.Ch. , di sua conoscenza. Aggiunse il C. che, accettata l’offerta, egli aveva ricevuto un aiuto economico e che l’avv. Ca. , da lui nominata difensore, l’aveva assistito fino all’incidente probatorio momento nel quale egli le aveva revocato il mandato, essendo venuto a sapere che ella era assistente presso la medesima facoltà universitaria nella quale l’avv. Z. insegnava, ricoprendo anche il ruolo di preside. Il C. , quindi, ipotizzò che l’avv. Z. si fosse approfittato del suo stato di bisogno. Il C.O.A. di Milano, dopo aver invitato il professionista a dedurre in merito, con delibera del 20 settembre 2012 aprì un procedimento disciplinare a carico dell’avv. Z. , ipotizzando la violazione dei doveri di lealtà, correttezza e probità per i fatti sopra descritti. All’esito dell’istruttoria dibattimentale, il C.O.A. irrogò all’avv. Z. la sanzione della censura. 2. La pronuncia è stata impugnata dal professionista ed il Consiglio nazionale forense, con sentenza del 1 giugno 2017, ha rigettato il ricorso. Ha premesso il C.N.F. che era infondata l’eccezione di prescrizione sollevata dall’appellante. Poiché, a norma dell’art. 51 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, il termine di prescrizione dell’azione disciplinare è interrotto dalla delibera di apertura del relativo procedimento e da altri atti propulsivi, a prescindere dalla notifica dei medesimi al professionista, la prescrizione quinquennale non era decorsa. Il procedimento era stato aperto, come detto, in data 20 settembre 2012, sebbene la relativa notifica all’interessato fosse avvenuta il successivo 30 aprile 2013 pertanto, dovendo la contestata condotta collocarsi in un momento imprecisato tra il marzo e l’aprile del 2008, il termine non era decorso. Passando al merito, il C.N.F. ha osservato che non aveva rilievo, ai fini della fondatezza dell’accusa, il fatto che l’incontro tra l’incolpato ed il padre della bambina fosse avvenuto dietro iniziativa dell’uno o dell’altro, perché la circostanza importante era l’incontro in sé ciò in quanto il difensore di un sacerdote accusato di violenza sessuale mai avrebbe dovuto entrare in contatto con il padre della vittima, e comunque mai avrebbe dovuto proporgli la nomina, quale difensore, di una collega che collaborava con lui nella medesima università. Ragioni, queste, per le quali doveva affermarsi che l’avv. Z. aveva valicato i limiti a lui imposti dalle regole deontologiche, le quali impongono all’avvocato di comportarsi con correttezza e probità. Quanto all’elemento soggettivo dell’illecito, il Giudice disciplinare ha rilevato che non poteva assumere peso la circostanza, allegata dall’incolpato, della propria buona fede, perché doveva ritenersi sufficiente, per l’esistenza dell’illecito, la volontà consapevole del comportamento, inteso come suitas. E, nella specie, l’incontro volontario con il C. presso l’abitazione dello stesso e l’indicazione del nome della collega erano elementi sufficienti a rendere fondata l’accusa disciplinare. Quanto, infine, alla presunta sproporzione della sanzione, il C.N.F. ha osservato che il comportamento censurato, pur non trovando una regolamentazione tipizzata nel codice deontologico , integrava pacificamente la violazione dei doveri di probità, dignità, decoro e correttezza, così come previsti dall’art. 9 del vigente codice di deontologia forense. Ora, in considerazione del principio di tipizzazione dell’illecito contenuto nell’art. 3, comma 3, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, nel caso di illecito atipico la sanzione deve essere tratta assumendo come riferimento le fattispecie simili nel caso in esame, l’ipotesi di riferimento era quella di cui all’art. 41 del nuovo codice deontologico che, a proposito dei contatti indebiti tra l’avvocato e le altre parti del giudizio, prevede la sanzione della censura, che il C.N.F. ha ritenuto congrua in rapporto al caso di specie. 3. Contro la sentenza del C.N.F. propone ricorso l’avv. Z.M. con atto affidato a quattro motivi. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede. Ragioni della decisione 1. Ragioni di ordine logico impongono di esaminare i motivi di ricorso cominciando dal terzo, nel quale si lamenta violazione dell’art. 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933, per erronea mancata dichiarazione dell’intervenuta prescrizione. Dopo aver rammentato la cronologia degli eventi, facendo presente che l’incontro con il C. è da collocare nell’aprile 2008, il ricorrente precisa che, in caso di incertezza, il termine iniziale del decorso della prescrizione dovrebbe essere computato nel modo in cui riesca più vantaggioso per l’incolpato. Nella specie, il primo atto interruttivo della prescrizione dovrebbe essere la notifica all’interessato dell’atto di apertura del procedimento disciplinare, avvenuta il 30 aprile 2013, quando il quinquennio era ormai trascorso. In tal senso sarebbe, secondo il ricorrente, la giurisprudenza dello stesso C.N.F. e della Corte di cassazione, non correttamente interpretati nella sentenza in esame, non potendo essere sufficiente la semplice deliberazione di apertura del procedimento disciplinare. 1.1. Il motivo non è fondato, alla luce delle considerazioni che seguono. La decisione del C.N.F. oggetto di ricorso si è limitata, in ordine alla questione del decorso della prescrizione, a richiamare la sentenza 12 agosto 2002, n. 12176, di queste Sezioni Unite, secondo cui in tema di giudizi disciplinari nei confronti degli avvocati, il compimento di atti propulsivi del procedimento nella specie, la delibera di rinvio a giudizio dell’incolpato è idoneo a determinare l’interruzione della prescrizione dell’azione, ai sensi dell’art. 51 del R.D. 21 novembre 1933, n. 1578, a prescindere dalla successiva notifica degli atti stessi al professionista. Orientamento, questo, confermato anche dalla sentenza 20 settembre 2013, n. 21591, delle medesime Sezioni Unite. Il ricorrente censura il richiamo a quel precedente, sostenendo che esso sarebbe stato travisato dal C.N.F., perché in quella pronuncia il principio fu enunciato in riferimento ad un’ipotesi diversa, nella quale l’atto interruttivo era costituito non dalla delibera di apertura del procedimento disciplinare, bensì da quella che disponeva il rinvio a giudizio dell’incolpato, evidentemente già informato degli addebiti a lui rivolti. Richiama, a sostegno della propria tesi, il più risalente precedente di cui alla sentenza 8 febbraio 1977, n. 538, nel quale fu detto, invece, che il decorso della prescrizione è interrotto non dalla delibera del Consiglio dell’ordine che dispone l’apertura del procedimento disciplinare, bensì dalla notificazione della medesima all’interessato, quale atto idoneo a porre l’incolpato in condizioni di esercitare il proprio diritto di difesa con cognizione di causa. 1.2. La questione esige un chiarimento ricostruttivo. Occorre prendere le mosse dalla sentenza 30 giugno 1999, n. 372, di queste Sezioni Unite la quale, in relazione alla disciplina della prescrizione di cui all’art. 51 del r.d. n. 1578 del 1933, ha spiegato che a tale istituto, che costituisce esercizio di una potestà punitiva di natura pubblicistica, non è integralmente applicabile la disciplina civilistica della prescrizione, dovendosi fare riferimento anche, nei limiti della compatibilità, alla disciplina dell’interruzione del corso della prescrizione penale dettata dall’art. 160 cod. pen., suscettibile di assumere rilevanza in tutta la materia punitiva. Sulla base di tali criteri la sentenza ha chiarito che la prescrizione in esame, decorrente dalla data di realizzazione dell’illecito o dalla cessazione della sua permanenza , è soggetta, durante il procedimento amministrativo disciplinare davanti al Consiglio dell’ordine, ad interruzione con effetti istantanei non solo ad opera dell’atto di apertura del procedimento, ma anche di tutti gli atti procedimentali di natura propulsiva per esempio, gli atti di impugnazione , o probatoria per esempio, l’interrogatorio del professionista sottoposto al procedimento , o decisoria, secondo il modello dell’art. 160 del codice penale. Ha affermato quella pronuncia, in altri termini, che la prescrizione in tale materia non è regolata dal codice civile quanto, piuttosto, da criteri assimilabili a quelli dettati dal codice penale, posto che le sanzioni disciplinari a carico degli avvocati si ricollegano all’esercizio di una potestà punitiva in qualche modo paragonabile alla potestà punitiva pubblica nella materia dei reati in tal senso, v. anche Sezioni Unite, sentenza 2 aprile 2003, n. 5072 . È alla luce di questo precedente che va letta la motivazione della sentenza n. 12176 del 2002 di queste Sezioni Unite citata dal C.N.F. nella decisione qui impugnata. Nella sentenza n. 12176, infatti, si è detto che il potere disciplinare è espressione di una potestà punitiva di diritto pubblico che si ricollega ad una posizione di supremazia attribuita alla pubblica amministrazione in funzione della tutela di un interesse che trascende quello del soggetto nei cui confronti viene fatto valere e che presenta spiccate analogie con quella propria del diritto penale . Ragione per cui quella sentenza ha affermato che l’idoneità a determinare l’effetto interruttivo va riconosciuta agli atti di natura propulsiva , con una logica che è in linea con il disposto dell’art. 160 del codice penale. Tutto ciò premesso, si osserva che è esatto, come sostiene l’odierno ricorrente, che nella sentenza n. 12176 queste Sezioni Unite avevano a che fare con un caso nel quale l’atto interruttivo era costituito dalla delibera con la quale era stato ordinato il rinvio a giudizio dell’incolpato ed è anche esatto che in quella sede nulla fu detto a proposito della delibera di apertura del procedimento disciplinare, interessata invece dal precedente di cui alla sentenza n. 538 del 1977. Ritengono tuttavia queste Sezioni Unite che, in considerazione della ricostruzione complessiva del sistema disciplinare forense, il precedente costituito dalla risalente sentenza n. 538 del 1977 debba essere superato e che debba affermarsi che anche l’atto col quale viene deliberata l’apertura del procedimento disciplinare, siccome atto propulsivo del procedimento, è idoneo a determinare l’interruzione della prescrizione a prescindere ed indipendentemente dalla comunicazione o notificazione del medesimo all’interessato. Ed è il caso di ricordare, ad ulteriore conferma dell’approdo interpretativo qui raggiunto, che la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 452 del 1999, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 160 cod. pen. nella parte in cui prevede che il corso della prescrizione sia interrotto dall’emissione del decreto di citazione a giudizio anziché dalla notifica del decreto stesso in quell’ordinanza il Giudice delle leggi ha rilevato, tra l’altro, che la conoscenza effettiva dell’atto interruttivo non condizione per il dispiegarsi delle possibilità difensive , diritto di difesa si collega alla possibilità di contestare dell’accusa. Così ricostruiti gli esatti termini del problema ed motivazione della sentenza impugnata, il terzo motivo privo di fondamento. 2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta erronea applicazione dell’art. 3, comma 3, della legge n. 247 del 2012 e del nuovo codice deontologico, sul rilievo che il fatto ritenuto in sentenza non sarebbe previsto come illecito disciplinare. Rileva il ricorrente, dopo aver ricordato che la menzionata norma stabilisce il principio della tipicità dell’illecito disciplinare, che la sentenza impugnata avrebbe commesso un errore, individuando di fatto una nuova fattispecie di illecito. Se, da un lato, l’art. 9 del codice non prevede alcuna specifica sanzione per la violazione dei doveri ivi indicati, la disposizione dell’art. 41 del codice, che il C.N.F. ha richiamato, vieta all’avvocato di avere a che fare con le controparti munite di difensore senza l’autorizzazione di quest’ultimo. Nel caso in esame, al contrario, non c’era alcun rapporto tra colleghi, perché il C. non era munito di alcun difensore. Il ricorrente, quindi, rileva che la sentenza di condanna avrebbe, in concreto, creato una nuova fattispecie disciplinare ed aggiunge che la particolare situazione nella quale il padre della vittima si trovava aveva in lui generato la convinzione che il suggerimento del difensore fosse un atto legittimo e opportuno . 2.1. Il motivo contiene osservazioni esatte ma dimostra di non cogliere la ratio decidendi della sentenza impugnata nella sua globalità. Costituisce circostanza pacifica, sulla quale non occorre attardarsi, quella che nel nuovo ordinamento forense vige il principio della tassatività delle fattispecie disciplinari, secondo il disposto dell’art. 3, comma 3, della legge n. 247 del 2012 la norma, infatti, parla di osservanza, per quanto possibile , del principio della tipizzazione della condotta. Il ricorrente afferma che dall’art. 41 del codice deontologico forense non potrebbe trarsi conferma dell’esistenza dell’illecito disciplinare riconosciuto dal C.N.F. e sanzionato con la censura. Non considera, però, che le previsioni dei commi 1 e 2 del citato art. 41 i quali vietano all’avvocato di mettersi in contatto con la controparte che sia assistita da un collega e consentono al medesimo di avere contatti con le altre parti solo in presenza del loro difensore o con il consenso di questi - non vanno intese nel senso restrittivo che il motivo di ricorso in esame fa proprio. Prevedere che, qualora la parte sia assistita da un difensore, l’avvocato può avere contatti con essa solo in presenza o col consenso di questi, non equivale a riconoscere che, in caso di assenza di un difensore, tali contatti siano possibili senza alcuna limitazione. Il che è ciò che il C.N.F. ha riconosciuto con la sentenza in esame, là dove ha sostenuto che ciò che assumeva rilievo era, appunto, l’incontro in sé, perché il particolare contesto di quell’incontro avrebbe dovuto imporre al difensore del sacerdote, imputato di violenza sessuale su una minore, di astenersi da un qualsiasi contatto diretto con il padre della bambina, del quale gli era nota la situazione di disagio economico e sociale in cui viveva . In altri termini, la fattispecie disciplinare delineata dall’art. 41 del codice deontologico vigente va intesa nel senso che, ove la controparte non sia assistita da alcun difensore, deve ritenersi che all’avvocato sia precluso ogni contatto, proprio perché la stessa si trova in una situazione di evidente vulnerabilità. Ed è palese che tale era il contesto dell’odierna vicenda nella quale l’avv. Z. , secondo quanto accertato in fatto dal giudice disciplinare, era pienamente a conoscenza della situazione di difficoltà del padre della bambina difficoltà che avrebbe dovuto consigliargli prudentemente di astenersi da qualsivoglia contatto con lui. Non potendosi ritenere violato il principio di tipicità dell’illecito disciplinare, il motivo in esame è privo di fondamento. 3. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione dell’art. 4 del codice deontologico, per insussistenza dell’elemento soggettivo. Osserva il ricorrente che l’art. 4 cit. prevede che la responsabilità disciplinare derivi dall’inosservanza delle regole di condotta dettate dalla legge e dalla coscienza e volontà delle omissioni. Richiamando alcune pronunce sull’argomento, il ricorrente rileva che, trattandosi di sanzioni che puniscono un certo comportamento, non è sufficiente la coscienza e volontà di cui al primo comma dell’art. 42 del codice penale. Ciò che si richiede, invece, è la sussistenza del dolo, anche perché nel caso in esame l’avv. Z. ricorda di avere sempre agito nella sicura persuasione che si trattasse di un comportamento deontologicamente corretto. 3.1. Il motivo non è fondato. Deve essere infatti ribadita l’affermazione di cui alla recente sentenza 29 maggio 2017, n. 13456, di queste Sezioni Unite, secondo cui in tema di responsabilità disciplinare dell’avvocato, in base dell’art. 4 del nuovo codice deontologico forense, la coscienza e volontà consistono nel dominio anche solo potenziale dell’azione o omissione, per cui vi è una presunzione di colpa per l’atto sconveniente o vietato a carico di chi lo abbia commesso, il quale deve dimostrare l’errore inevitabile, cioè non superabile con l’uso della normale diligenza, oppure la sussistenza di una causa esterna, mentre non è configurabile l’imperizia incolpevole, trattandosi di professionista legale tenuto a conoscere il sistema delle fonti. Ed è quindi evidente che nessun valore può avere, ai fini che interessano, la presunta convinzione dell’incolpato di aver tenuto un comportamento deontologicamente corretto. 4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta erronea applicazione del nuovo codice deontologico in ordine alla determinazione della sanzione. Dopo aver ribadito che il fatto per il quale è stata pronunciata condanna non rientra nella fattispecie dell’art. 41 cit., il ricorrente ricorda che, a norma dell’art. 22, comma 3, lettera a , del codice stesso, nei casi meno gravi la sanzione della censura può essere sostituita da quella dell’avvertimento. Data la particolarità dell’ipotesi, la sanzione meno grave sarebbe quella più adatta al caso in esame. 4.1. Il motivo non è fondato. Come queste Sezioni Unite hanno più volte ribadito, nel procedimento disciplinare forense il potere di scegliere e di adeguare la sanzione alla gravità ed alla natura dell’offesa arrecata al prestigio dell’ordine professionale è riservato agli organi disciplinari per cui non è censurabile in sede di giudizio di cassazione la determinazione della sanzione inflitta all’incolpato sentenze 23 gennaio 2004, n. 1229, 26 maggio 2011, n. 11564, e 1 agosto 2012, n. 13791 . 5. Il ricorso, pertanto, è rigettato. Non occorre provvedere sulle spese, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte degli intimati. Sussistono tuttavia le condizioni di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.