L’avvocato che si reinventa intermediatore finanziario può essere assoggettabile a fallimento

L’attività di intermediazione finanziaria, svolta da un avvocato parallelamente alla professione forense, ha natura imprenditoriale e non si sottrae dunque alla dichiarazione di fallimento.

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 1157/17 depositata il 18 gennaio. Il caso. La Corte d’appello di Milano respingeva il reclamo proposto da un avvocato avverso la sentenza di prime cure che ne aveva dichiarato il fallimento. L’avvocato era peraltro già stato condannato in sede penale per aver svolto, parallelamente alla professione forense, un’illecita attività di intermediazione finanziaria mediante la quale acquisiva somme di denaro dai propri clienti con la promessa di investirle ed ottenere elevati rendimenti attraverso una serie di società fiduciarie, a lui riconducibili, attività che il giudice considerava di natura imprenditoriale ed identificativa di una holding personale, assoggettabile dunque a fallimento. Avverso la sentenza ricorre per cassazione l’avvocato dolendosi per il riconoscimento della natura imprenditoriale dell’attività e della sua assoggettabilità a fallimento. Impresa o lavoro autonomo? In particolare, con il primo motivo di ricorso, l’avvocato contesta la mancata valutazione degli elementi che caratterizzavano la sua attività non come impresa, ma come lavoro autonomo. La Corte non condivide tale assunto in quanto la sentenza impugnata ha correttamente esaminato i requisiti che caratterizzano l’attività imprenditoriale, distinguendola da quella del prestatore d’opera intellettuale individuando correttamente gli elementi che, nel caso di specie, escludevano la natura di lavoro autonomo. Il parallelo svolgimento della professione forense infatti non vale a qualificare come prestazione d’opera l’illecita attività di intermediazione finanziaria svolta dall’avvocato che si caratterizzava con un’organizzazione esterna creata ad hoc attraverso una serie di società a lui riconducibili, di cui peraltro, egli assumeva direttamente i rischi di gestione facendo confluire le somme di denaro su suoi conti correnti. Il giudicato penale. Il ricorso lamenta poi il riconoscimento della natura professionale dunque continuativa e non occasionale dell’attività di intermediazione finanziaria, fatto peraltro accertato da sentenza penale passata in giudicato. Questa considerazione permette alla S.C. di rigettare come inammissibile la doglianza in quanto il ricorrente omette di considerare che gli elementi di fatto accertati in sede penale e coperti da giudicato non possono essere controvertite in sede civile. Nella specie, l’attività contestata aveva pacificamente natura illecita per ciò stesso esulante dall’esercizio della professione forense . Per questi motivi, la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 27 settembre 2016 – 18 gennaio 2017, n. 1157 Presidente Bernabai – Relatore Cristiano Svolgimento del processo La Corte d’appello di Milano ha respinto il reclamo proposto dall’avv. R.G.P.M. avverso la sentenza del tribunale dichiarativa del suo fallimento. La corte del merito, premesso che l’avv. R. era già stato condannato in via definitiva in sede penale per aver svolto, parallelamente alla professione forense, un’illecita attività di intermediazione finanziaria, consistita nell’acquisizione di somme di denaro dai clienti con la promessa di investirle e di farle fruttare con elevati rendimenti, ha ritenuto che tale attività, esercitata dal reclamante in proprio tanto che il denaro confluiva su conti intestati a lui stesso od a suoi collaboratori ed era convogliato verso strutture di gestione fondi a lui riconducibili , a scopo di lucro, in via continuativa ed organizzata ed avvalendosi di società fiduciarie, avesse piena natura imprenditoriale. e fosse, in particolare, identificativa di una holding personale. La sentenza, pubblicata il 18.11.014, è stata impugnata da R.G.P.M. con ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui il curatore del Fallimento ed i creditori istanti hanno resistito con separati controricorsi, entrambi illustrati da memoria. Motivi della decisione i Ceri tutti e tre i motivi l’avv. R. contenta che l’attività illecitamente esercitata per la quale è già stato condannato in sede penale, avesse natura imprenditoriale e lamenta che la corte territoriale lo abbia ritenuto assoggettabile a fallimento. 1.1 Col primo mezzo, che denuncia violazione degli artt. 2082, 2222 c.c. e dell’art. 1 l. fall., il ricorrente sostiene che il giudice a quo si è limitato ad analizzare le caratteristiche che può eventualmente presentare l’organizzazione di un’impresa, ma non si è soffermato a valutare se nella specie ricorressero i requisiti che la contraddistinguono rispetto al lavoro autonomo, ovvero la sua percepibilità all’esterno come una combinazione di fattori produttivi funzionale allo svolgimento di un’attività economica e la sua idoneità a condizionare lo svolgimento delle prestazioni richieste dal mercato, indipendentemente dalla figura soggettiva del professionista che la esercita. Secondo l’avv. R. , nel suo caso tali segni distintivi difettavano, in quanto nella sua attività, a carattere meramente personale e svolta per conto di clienti che confidavano nelle sue abilità e conoscenze, non era ravvisabile l’etero-organizzazione ed era preponderante l’elemento dell’ intuitus personae . Il ricorrente assume, inoltre, che la corte del merito avrebbe omesso di accertare la sussistenza dello scopo di lucro. 1.2 Denuncia, poi, la nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione in ordine all’accertamento della ricorrenza del requisito della professionalità, che la corte del merito avrebbe fondato sulla mera asserzione del carattere continuativo della sua attività. 1.3 Lamenta, infine, la violazione degli artt. 2727, 2729 c.c Deduce, nello specifico, che il giudice d’appello avrebbe ritenuto l’attività di intermediazione preponderante ed assorbente rispetto a quella professionale forense sulla scorta di circostanze presuntive - che non troverebbero riscontro nelle sentenze penali e risulterebbero in contrasto anche con quanto accertato dal tribunale nella sentenza dichiarativa di fallimento - dalle quali avrebbe poi illegittimamente presunto la ricorrenza della fattispecie di cui all’art. 2238, 1 co., c.c. ed analogo, errato percorso argomentativo, inammissibilmente fondato su praesumptiones de praesumpto , sosterrebbe gli accertamenti concernenti la sussistenza di una struttura organizzativa e la configurabilità dell’impresa quale holding personale. 2 I motivi non meritano accoglimento. 2.1 Il primo muove da un presupposto che non trova riscontro nella sentenza impugnata la corte del merito ha infatti compiuto un’ampia disamina dei requisiti che valgono a distinguere un’organizzazione imprenditoriale da quella di cui è usualmente dotato il prestatore d’opera intellettuale ed ha puntualmente individuato gli elementi, che, nella specie, consentivano di escludere che l’attività svolta dall’avv. R. in parallelo con quella forense fosse, al pari di quest’ultima, riconducibile a quella tipica di un lavoratore autonomo. In particolare, il giudice d’appello ha ravvisato in detta attività parallela le caratteristiche di un’impresa proprio in ragione della sua etero-organizzazione e della funzione intermediatrice in essa assunta dall’odierno ricorrente, rilevando come questi, per un verso, gestisse i fondi che gli erano affidati dai clienti/investitori avvalendosi di una ramificata struttura esterna, creata ad hoc ed operante anche all’estero attraverso una serie di società a lui riconducibili, e, per l’altro, assumesse personalmente i rischi connessi alla gestione, facendo confluire il denaro su conti intestati a se medesimo od a suoi collaboratori ed effettuando gli investimenti in nome e per conto proprio non v’è dubbio, inoltre, che tale ultimo rilievo contenga in sé l’accertamento anche dell’intento dell’avv. R. di trarre profitto dall’illecita attività svolta. Il motivo è, dunque, palesemente infondato laddove imputa al giudice del merito l’errata ricognizione delle astratte fattispecie normative di cui agli artt. 2082, 2222 c.c Andrebbe invece dichiarato inammissibile nel caso in cui lo si volesse interpretare come volto a contestare un’errata applicazione delle norme in questione alla concreta fattispecie dedotta in giudizio e perciò a censurare la sentenza sotto il diverso - e non allegato - profilo del vizio di motivazione , atteso che non specifica, secondo quanto richiesto dall’art. 365, 1 comma, n. 5 c.p.c. novellato, qual è il fatto storico decisivo, controverso in giudizio, che la corte del merito avrebbe omesso di valutare. 2.2 Il secondo motivo è inammissibile, in quanto non censura l’assunto del giudice del reclamo secondo cui il fatto che il ricorrente svolgesse professionalmente ovvero non occasionalmente, ma con continuità un’attività finanziaria, consistente nell’acquisizione presso svariati clienti di somme di denaro di notevole importo, dietro la promessa di investirle e farle fruttare con elevati rendimenti, è stato accertato nella sentenza penale di condanna, passata sul punto in giudicato. 2.3 Il terzo motivo è anch’esso inammissibile, in buona parte per le medesime ragioni appena indicate sub. 2.2 . Il ricorrente omette, infatti, di considerare che le circostanze di fatto che avevano già formato oggetto di accertamento in sede penale erano coperte da giudicato. In sede civile, pertanto, non era più controverso che egli avesse svolto in via continuativa un’attività finanziaria di investimento di somme di denaro per conto terzi , avvalendosi, secondo quanto risultante dalle indagini della G.d.F., di collaboratori e di società da lui controllate in via diretta o indiretta, ma solo se tale attività avesse in tutto e per tutto natura imprenditoriale e lo rendesse, pertanto, assoggettabile a fallimento. Nella specie, peraltro, si trattava di un’attività illecita, per ciò stesso esulante dall’esercizio della professione forense, sicché neppure rileva se, secondo quanto, ad abundantiam accertato dalla corte del merito, essa avesse finito col divenire assorbente rispetto a quella lecitamente svolta dal ricorrente nella sua veste di avvocato. Questione successiva, neppure essa decisiva ai fini dell’assoggettabilità del ricorrente a fallimento, è se l’attività di impresa esercitata dall’avv. R. fosse o meno riconducibile ad una holding personale di fatto va comunque rilevato che il convincimento raggiunto sul punto dal giudice del merito, lungi dal fondarsi su di un’inammissibile praesumptio de praesumpto , trova riscontro preciso nella circostanza di fatto del controllo, diretto o indiretto, da parte di R. della fitta rete di società delle quali si serviva per convogliare ed investire le ingenti risorse finanziarie messe a sua disposizione dai clienti. Il ricorso deve, in conclusione, essere integralmente respinto. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 7.800, di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso forfetario ed accessori di legge, in favore di ciascuna delle due parti controricorrenti. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater d.P.R. n. 115/2002, introdotto dall’art. 1, 17° comma, della l. n. 228 del 24.12.2012, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.