Liquidazione delle spese: l’attività professionale è conclusa se c’è una sentenza che ha chiuso il giudizio

Il giudice di secondo grado, nel liquidare le spese di lite del giudizio di primo grado, deve fare riferimento alla normativa vigente al momento della sentenza emessa dal magistrato di prime cure, e non a quella vigente al momento della pronuncia d'appello.

Questo il principio sancito dalla sesta sezione civile della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 2748/2016, depositata l’11 febbraio. La vicenda. Il Tribunale, nella sentenza di primo grado, aveva rigettato sia la domanda attorea avente ad oggetto l'esecuzione coattiva di un preliminare, domanda mutata in corso di causa in domanda di risoluzione che la domanda riconvenzionale di risoluzione e risarcimento del danno , compensando le spese di lite. Nel successivo giudizio di appello, la Corte territoriale accoglieva la domanda dell'attore di primo grado nonché appellante, liquidando le spese di lite dei due gradi di giudizio, poste a carico dei soccombenti, secondo i dettami del d.m. 140/2012, ovvero della normativa regolante i compensi professionali dell'avvocato al momento in cui la sentenza di secondo grado veniva emessa. Tale pronuncia veniva, quindi, impugnata sotto il profilo dell'erronea liquidazione delle spese di lite. Quando si applicano i nuovi parametri. La sesta sezione prende le mosse dalle Sezioni Unite sentenze nn. 17405 e 17046 del 2012 , ribadendo il principio per cui i parametri che hanno sostituito le vecchie tariffe devono essere applicati tutte le volte che la liquidazione avvenga in un momento successivo all'entrata in vigore del decreto ministeriale e, contestualmente, si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a tale data, non abbia ancora concluso di svolgere la propria prestazione, iniziata in un momento in cui erano ancora vigenti le tariffe. Partendo proprio da questo principio, la sesta sezione ha ritenuto come lo stesso non possa applicarsi all'ipotesi dell'attività professionale relativa ad un grado di giudizio terminato. In questo si deve ritenere che l'attività professionale debba ritenersi conclusa ed espletata tutte le volte in cui sia intervenuta una sentenza che chiude una fase del giudizio anche con la liquidazione delle spese . Considerato che il giudice di secondo grado, nel rideterminare la statuizione sulle spese di lite del giudizio di primo grado, si trasporta al momento della sentenza di primo grado, specificando ciò che quel giudice avrebbe dovuto fare se avesse correttamente deciso la Cassazione ha ritenuto errata, e conseguentemente cassato, la sentenza della Corte territoriale che ha applicato indistintamente, per entrambi i gradi del giudizio, i compensi ex d.m. 140/2012. La Corte di Appello, infatti, avrebbe dovuto applicare le tariffe previste dal d.m. 127 del 2004 per il giudizio di primo grado e quelle previste dal d.m. 140 del 2012 per il giudizio di secondo grado .

Corte di Cassazione, sez. VI Civile, sentenza 18 novembre 2015 – 11 febbraio 2016, n. 2748 Presidente Petitti – Relatore Scalisi Svolgimento del processo La società S.M. con atto di citazione del 18 gennaio 1989 conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Matera i sigg. P.S., B.P. chiedendo l'esecuzione dell'obbligo di concludere il contatto definitivo, giusto preliminare di vendita stipulato il 7 aprile 1984, successivamente, scoperto che l'immobile promesso in vendita era urbanisticamente irregolare e che non era stata mai presentata domanda di sanatoria, l'attrice cambiava l'originaria domanda, in domanda risoluzione del contratto preliminare e la condanna dei convenuti alla restituzione del doppio della caparra, nonché al risarcimento del danno. Il Tribunale di Matera, con sentenza n. 620 del 2005, rigettava la domanda posposta dalla società S.M. per nullità dell'oggetto, e per la stessa causa la domanda riconvenzionale per inadempimento e la domanda di risarcimento del danno, proposte dai convenuti, perché non provate. Compensava tra le parti le spese del giudizio. Avverso questa sentenza, proponeva appello, la società S.M., chiedendo la riforma della sentenza e l'accoglimento della sua originaria domanda, con vittoria di spese e compensi. Si costituivano gli appellati chiedendo il rigetto dell'appello, eccepivano che l'azione giudiziaria era stata proposta dalla società S.M. in difetto di legittimazione attiva, perché la scrittura privata portava, soltanto, la firma dell'acquirente Silvana Dentico, senza indicazione della qualità di amministratrice che l'atto di appello era inammissibile perché proposto da soggetto che non era stato parte nel giudizio di primo grado che la scrittura privata non riportava la firma degli appellati che nella stessa scrittura privata si dava atto che l'immobile non era urbanisticamente regolare posto che il condono edilizio era stato rilasciato il 16 aprile 1986, che quindi controparte era inadempiente. Proponevano, a loro volta, appello incidentale riproponendo la loro domanda di risoluzione dei contratto. Chiedevano, pertanto, il rigetto deli' appello e in accoglimento della domanda riconvenzionale venisse dichiarata la risoluzione del contratto per inadempimento dell'appellante. La Corte di Appello di Potenza, con sentenza n. 566 del 2012, riformava la sentenza di primo grado e dichiarava la risoluzione del contratto preliminare di compravendita oggetto della controversia, condannava i sigg. S. e P. al pagamento di 12. 2.582,28, oltre interessi legali dal 7.8 1984 sino al soddisfo, rigettava l'appello incidentale. Condannava i sigg. S. e P. al pagamento delle spese del doppio grado del giudizio. Secondo la Corte di Potenza, non vi era dubbio che sussisteva l'inadempimento dei promittenti venditori perché non avevano provveduto, nonostante la richiesta e nonostante fosse stato ottenuto il condono edilizio, a stipulare l'atto definitivo. La cassazione di questa sentenza è stata chiesta dalla società S.M. con ricorso affidato a due motivi erronea liquidazione delle spese di primo e di secondo grado illegittimità costituzionale del DM n. 140 del 2012. S. e P. in questa sede non hanno svolto attività giudiziale. Motivi della decisione 1.= Con l'unico motivo di ricorso la società S.M. lamenta la violazione dell'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 cpc., Erronea applicazione del decreto 24 gennaio 2012 n. 271 convertito nella legge del 20 luglio 2012 n. 140 rectius DM. 20 luglio 2012 n. 140, emanato ai sensi dell'art. 9 del Decreto legge del 24 gennaio 2012 n. I convertito in legge 24 marzo 2012 n. 27 in relazione agli art. 360 n. 3 e 5 cpc. Erronea liquidazione delle spese di primo e secondo grado del giudizio. Secondo la ricorrente la Corte di Potenza avrebbe errato nell'aver liquidato le spese giudiziali secondo le tariffe previste dal DM 140 del 2012, però, la controversia di cui trattasi era sorta nel lontano 1989 e l'attività professionale si sarebbe conclusa l' l l gennaio 2010 con il deposito della comparsa conclusionale e, dunque, sotto la vigenza del DM 127 del 2004. Piuttosto, applicando il DM 127 del 2004 la Corte distrettuale avrebbe dovuto liquidare una somma pari ad €_ 2969 per il primo grado del giudizio ed €. 2387 per il giudizio di secondo grado al posto della somma liquidata di €. 2310,03 1.1 .= II motivo è in parte fondato per le ragioni di cui si dirà. Va qui premesso che come insegnano le SSUU di questa Corte sent. 17405 e 17406 del 2012 in tema di spese processuali, agli effetti dell'ari. 41 del d.m. 20 luglio 2012, n. 140, il quale ha dato attuazione all'art. 9, secondo comma, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge 24 marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l'accezione onnicomprensiva di compenso la nozione di un corrispettivo unitario per l'opera complessivamente prestata. Fermo restando tale principio, che condiviso va rispettato, anche nel caso in esame, tuttavia, va chiarito che quel principio non può estendersi all'attività professionale relativa ad un grado del giudizio che si è concluso con sentenza e in relazione al quale, il Giudice dell'appello, tenuto conto dell'esito complessivo del giudizio, rideterminerà il regolamento delle spese, anche per il primo grado del giudizio, perché l'attività professionale deve ritenersi conclusa, con la sentenza che chiude il giudizio, sia pure relativamente ad una fase dello stesso. D'altra parte, questo principio sembra sia affermato, sia pure indirettamente e/o implicitamente, anche dalle SSUU di questa Corte laddove affermano che i nuovi parametri professionali vanno applicati ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, e, a giudizio di questa Corte, è nell'ordine delle cose, ritenere che l'attività professionale debba ritenersi conclusa ed espletata tutte le volte in cui sia intervenuta una sentenza che chiude una fase del giudizio anche con la liquidazione delle spese. Il Giudice del secondo grado nel rideterminare il regolamento delle spese anche del giudizio di primo grado, in verità, non riatualizza un giudizio concluso, ma si trasporta al momento della sentenza di primo grado, specificando ciò che quel Giudice avrebbe dovuto fare se avesse correttamente deciso. Ora, nel caso in esame, la Corte di Appello di Potenza avrebbe dovuto applicare, e non sembra lo abbia fatto, con corretta motivazione, le tariffe previste dal DM. 127 del 2004 per il giudizio di primo grado e quelle previste dal DM. N. 140 del 2012 per il giudizio di secondo grado, posto che la liquidazione di queste ultime spese giudiziali è avvenuta successivamente all'entrata in vigore del DM 140 del 2012. Pertanto, ha errato la Corte di Potenza nell'aver applicato indistintamente per entrambi i gradi del giudizio il tariffario di cui al DM 140 del 2012. 2.= Con il secondo motivo la ricorrente denuncia l'illegittimità costituzionale del DM 140 del 2012 in relazione agli arti 2, 3 24 e 36 cost. italiana. Secondo la ricorrente, l'applicazione retroattiva delle tariffe professionali prevista dal DM 140 del 2012 dovrebbe ritenersi in contrasto con i principi costituzionali espressi dagli art. 3 24, 36 e 117 della Costituzione perché, sebbene la Costituzione non preveda, in tutto il settore sanzionatorio, il divieto assoluto di norme retroattive, il principio della irretroattività della legge, riceve, comunque, copertura costituzionale come anche è stato affermato dalla Corte costituzionale con sentenza 78 del 2012. L'art. 3 cost. nello stabilire il principio di eguaglianza e, quindi, di ragionevolezza delle scelte del legislatore imporrebbe di salvaguardare la certezza dell'ordinamento in funzione dell'affidamento ai cittadini. L'art. 117 cost. nell'imporre al legislatore di legiferare in conformità al diritto internazionale pattizzio rinvia tra l'altro alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e della salvaguardia delle libertà, la quale annovera lo stato di diritto tra i principi comuni alle tradizioni costituzionali degli stati membri del'UE. 2.1.= Il motivo non ha ragion d'essere dato che la Corte costituzionale, intervenendo sul tema con sentenza 261 del 2013 ha escluso definitivamente che l'applicazione retroattiva delle tariffe professionali prevista dal DM 140 del 2012 fosse incostituzionale. Come ha avuto modo di affermare la Corte costituzionale è manifestamente infondata - per erroneità della premessa interpretativa - la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, commi 1, 2 e 5 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nonché del d.m. 20 luglio 2012, n. 140, sollevata in riferimento all'art. 3, 24, 36 e 117 Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU, all'art. 5 trattato UE e all'ari. 296 Trattato sul Funzionamento dell'UE e all'art. 6 Trattato UE e per esso ai principi dello Stato di diritto richiamati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e della Carta di Nizza, in quanto dispongono l'applicazione retroattiva delle nuove tariffe professionali anche ai giudizi in corso. La questione è ammissibile anche con riferimento alla impugnativa del suddetto decreto ministeriale, poiché si tratta di norma secondaria strettamente collegata alla disciplina dettata dalla norma primaria censurata. Tuttavia, è inesatto il presupposto da cui muovono i rimettenti, rappresentato dall'assunto secondo cui, al compimento di ogni singolo atto del professionista, sorgerebbe ipso facto il suo diritto al compenso in relazione alle tariffe a quel tempo vigenti. Invero, - come confermato anche da un consolidato orientamento giurisprudenziale -quel compenso costituisce un corrispettivo unitario, che ha riguardo all'opera professionale complessivamente prestata e di ciò non si è mai in passato dubitato, quando si è trattato di liquidare onorari maturati all'esito di cause durante le quali si erano succedute nel tempo tariffe professionali diverse, giacché sempre in siffatti casi si è fatto riferimento alla tariffa vigente al momento in cui la prestazione professionale si è esaurita . Quanto, poi, alla prospettata violazione dell'ari. 24 Cost., la Corte ha sottolineato come non sia sostenibile che una generale riduzione delle tariffe forensi incida in senso limitativo dell'accesso dei cittadini alla giustizia e quindi del loro diritto di difesa, quando, a rigor di logica, la riduzione dei compensi agli avvocati dovrebbe, al contrario, condurre ad un allargamento del ricorso alle vie giurisdizionali. Infine, i rimettenti, nell'adombrare la violazione dell'art. 3 Cost., rappresentano una ipotesi astratta che, comunque, si risolve in un inconveniente di fatto non direttamente riconducibile alla disciplina denunciata, bensì a variabili accidentali legate alla sua applicazione, per cui detta violazione manifestamente non sussiste. In definitiva, va accolto il primo motivo del ricorso nei limiti di cui in motivazione e rigettato il secondo motivo. La sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata alla Corte di Appello di Potenza, in altra composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo del ricorso e rigetta il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di Appello di Potenza in altra composizione, anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione.