Avvocato: nel procedimento disciplinare il patteggiamento penale equivale a sentenza di condanna

A norma degli artt. 445 e 653 c.p.p., come modificati dalla l. n. 97/2001, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ha efficacia di giudicato - nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle pubbliche autorità, e quindi anche in quelli che riguardano avvocati - quanto all'accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso la stessa, però, non esplica alcuna efficacia in ordine alla valutazione sulla rilevanza del fatto e sulla personalità del suo autore sotto il profilo deontologico, essendo tale apprezzamento riservato al giudice disciplinare, in coerenza con quanto disposto dall'art. 5 del Codice deontologico forense.

Così ha stabilito la Corte di cassazione, Sezioni Unite Civili, nella sentenza n. 15574/15 depositata il 24 luglio. La vicenda processuale. Il Consiglio dell’Ordine distrettuale radiava dall’Albo un avvocato resosi responsabile di illeciti connessi all’immigrazione clandestina, alla falsità ideologica e ad atti di corruzione. Tali reati venivano definiti in sede penale con sentenza di patteggiamento. L’avvocato senza successo proponeva ricorso al Consiglio Nazionale Forense. In quella sede non veniva accolta la sua richiesta di dichiarare l’avvenuta cessazione della materia del contendere atteso che, prima dell’inizio del procedimento disciplinare, aveva domandato la cancellazione dall’Albo rigettata però dal Consigliere delegato dal Consiglio dell’Ordine. Peraltro, il Consiglio Nazionale Forense, in merito alla seconda censura mossa al provvedimento di radiazione, spiegava che la sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. equivaleva, dal punto di vista disciplinare, ad una sentenza di condanna. Ricorre per cassazione l’avvocato. I motivi di ricorso. Il ricorrente si duole per non aver il Consiglio Nazionale Forense colto l’autentico valore del rigetto della domanda di cancellazione ossia la sua natura di mero atto endoprocedimentale inidoneo a definire il relativo procedimento. Si lamenta, altresì, della sproporzione della sanzione a lui applicata nonché per non aver il Consiglio Nazionale Forense tenuto conto che la sentenza di patteggiamento conteneva la sospensione condizionale della pena. Le argomentazioni della Corte di Cassazione. Gli Ermellini ritengono il ricorso non meritevole di accoglimento. Argomentano come la presentazione di una domanda di cancellazione volontaria non abbia un effetto sospensivo del procedimento disciplinare pendente. Tanto perché ai sensi dell’art. 37, comma 8, r.d.l., n. 1578/1933 non è possibile una pronuncia sulla cancellazione quando sia in corso un procedimento disciplinare o penale. Peraltro, quando l’avvocato è stato attinto dalla sanzione della radiazione, era ancora iscritto all’Albo così da non potersi predicare in alcun modo l’intervenuta cessazione della materia del contendere. Inoltre la decisione del Consiglio Nazionale Forense è scevra da errori nel momento in cui ha correttamente applicato l’art. 5 del Codice Deontologico Forense che conferisce ogni autonoma valutazione sul piano disciplinare del fatto penale commesso dall’avvocato. Nel caso di specie questa autonomia valutativa si è caratterizzata nel cogliere, nonostante il patteggiamento e la sospensione condizionale della pena, la particolare odiosità e gravità dei reati ascritti all’incolpato. È così che il Consiglio Nazionale Forense non ha ritenuto di dover derubricare il provvedimento di radiazione, tenuto conto anche dell’intensità dell’elemento psicologico e di precedenti disciplinari specifici di cui si era macchiato il ricorrente.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 7 – 24 luglio 2015, n. 15574 Presidente Rovelli – Relatore Petitti Ritenuto in fatto 1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza dei 16 maggio 2014, ha confermato la sentenza di primo grado con la quale S.G. era stato condannato per il delitto di furto aggravato dalla violenza sulle cose in supermercato. 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del proprio difensore, lamentando quale unico motivo una violazione di legge per aver qualificato il fatto ascritto a titolo di reato consumato e non tentato. Considerato in diritto 1. II ricorso è fondato. 2. Si osserva, infatti, come i fatti incontroversi, accertati nella flagranza prelevamento di merce dagli scaffali e superamento della porta di uscita previa rimozione della placca antitaccheggio , fossero stati logicamente ascritti al comportamento cosciente e volontario dell'imputato ed a titolo di furto consumato aggravato dalla violenza sulle cose, con motivazione ispirata alla allora predominante giurisprudenza di questa Corte. Aveva, infatti, ritenuto questa sezione v. Cass. Sez. V 9 maggio 2008 n. 23020, 19 gennaio 2011 n. 7086 e da ultimo 7 febbraio 2013 n. 20838 che costituisse furto consumato e non tentato, quello che si fosse commesso all'atto dei superamento della barriera delle casse di un supermercato con merce prelevata dai banchi e sottratta al pagamento, nulla rilevando che il fatto fosse avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato, incaricato della sorveglianza. II suddetto orientamento giurisprudenziale risulta, di converso, superato dalla recente decisione delle Sezioni Unite di questa Corte 17 luglio 2014 n. 52117 che, al contrario, hanno ritenuto sussistente un'ipotesi di delitto tentato in quanto posto in essere dall'odierno ricorrente. 3. Alla luce di quanto dianzi esposto s'impone, in definitiva, l'annullamento dell'impugnata sentenza nei confronti di S.G., previa qualificazione del fatto ascritto come furto tentato aggravato, limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per la determinazione ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma. P.Q.M. La Corte, riqualificato il fatto ai sensi degli artt. 56-624-625 n. 2 c.p annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione Corte di Appello di Roma.