Liquidazione in base all’effettivo valore della controversia

L'art. 6, comma 2, della tariffa forense allegata al d.m. n. 585/1994, secondo cui, in sede di liquidazione degli onorari professionali a carico del cliente, può aversi riguardo al valore effettivo della controversia, quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile , comporta l'applicazione di tutte le regole processuali, ivi comprese quelle di cui agli artt. 10 e 14 c.p.c. per la determinazione del valore delle cause relative a somme di denaro o a beni mobili. Viene così attribuito al giudice, qualora venga ravvisata una manifesta sproporzione tra il petitum della domanda e l'effettivo valore della controversia, un generale potere discrezionale di adeguare la misura dell'onorario all'effettiva importanza della prestazione, dovendo egli comunque giungere a determinare il valore economico della causa superiore o inferiore che sia rispetto a quello dichiarato o desumibile dai criteri anzidetti , così da instaurare il necessario confronto comparativo tra entità economiche omogenee. Infatti, un tale confronto non può aversi tra il valore determinato o determinabile della domanda in forza dei criteri codicistici citati e il valore incerto e non determinabile degli interessi vantati dalla parte processuale convenuta.

Con la sentenza n. 20302 del 25 settembre 2014, la Corte di Cassazione affronta e risolve la questione relativa alle modalità di determinazione dell’onorario dell’avvocato - con riferimento alla liquidazione ad opera del giudice - che deve rapportarsi al valore effettivo della controversia e non a quello della domanda azionata in giudizio. Il caso. La vicenda decisa dalla Cassazione prende le mosse dalla liquidazione effettuata ad un avvocato di un fallimento a definizione di un contenzioso pendente tra il fallimento ed alcune banche tale compenso era stato determinato, in via giudiziale, in favore del legale del fallimento, con riferimento al valore della transazione sottoscritta. Diversa la posizione del legale del fallimento che invece ha sostenuto che il suo compenso dovesse rapportarsi al contenzioso complessivamente considerato, di gran lunga superiore, quanto al petitum azionato, rispetto all’importo pattuito in sede di transazione. Sul punto, il S.C. conferma il proprio pregresso orientamento per il quale, in sede di liquidazione giudiziale, il giudice può liquidare il compenso avendo a mente l’effettivo valore della controversia, essendo gli interessi perseguiti dalle parti il parametro cui far riferimento per l’individuazione del predetto valore. Liquidazione da parte del giudice è necessaria l’indicazione dei criteri. In primo luogo, il S.C. richiama alcune pregresse pronunce per le quali – con riferimento, ovviamente, a dati normativi non più in vigore ma comunque espressione di un principio ritenuto pienamente vigente -l'art. 6, comma 2, della tariffa forense allegata al d.m. 23 dicembre 1976, secondo cui, in sede di liquidazione degli onorari professionali a carico del cliente, può aversi riguardo al valore effettivo della controversia, quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile , comporta l'esercizio, da parte del giudice, di un potere discrezionale e non arbitrario, con conseguente necessità di esporre, sia pure in forma succinta, le relative ragioni ed i criteri cui esso si ispira. Liquidazione dell’onorario e transazione. Proprio con riferimento, infatti, alla liquidazione degli onorari spettanti all'avvocato per l'attività difensiva prestata in una controversia conclusa con transazione, è pacifico che il giudice ha una generale facoltà discrezionale di adeguare la misura dell'onorario avanzato al cliente all'effettiva importanza della prestazione, sì da ricondurne l'ammontare a giustizia concreta ove ravvisi una sostanziale sproporzione tra il valore effettivo della controversia e quello derivante dall'applicazione delle norme del codice di rito. Quale compenso per l’arbitro avvocato? Nella determinazione del compenso spettante al collegio arbitrale composto da avvocati deve essere applicata la tariffa professionale forense in materia stragiudiziale e, ai fini del calcolo dei minimi e dei massimi di tariffa, i valori minimo e massimo relativi al primo scaglione di valore costituiscono sempre e comunque un minimo garantito ad essi vanno aggiunti gli importi, rispettivamente, minimo e massimo, previsti per lo scaglione corrispondente al valore della causa. Più azioni per un solo cliente come determinare il compenso. Il compenso dovuto all’avvocato che abbia difeso un solo cliente dalle identiche domande proposte da più attori va determinato sulla base non del valore cumulato delle varie domande, ma sulla base del valore di una sola domanda maggiorato del venti per cento per ciascuna domanda, fino ad un massimo di dieci ovvero del cinque per cento per ciascuna domanda oltre la decima, fino ad un massimo di venti , in applicazione analogica del criterio previsto dall’art. 5, d.m. n. 585/1994, per l’ipotesi dell’avvocato che assista più parti aventi un’identica posizione processuale. Attività giudiziale e stragiudiziale quando si ha diritto a distinti compensi. In tema di compensi professionali di avvocati, affinché il professionista, che sta prestando assistenza giudiziale, possa avere diritto ad un distinto compenso per prestazioni stragiudiziali ai sensi dell’art. 2 della tariffa stragiudiziale , è necessario che tali prestazioni non siano connesse e complementari con quelle giudiziali ove sussista tale connessione, gli compete solo il compenso per l’assistenza giudiziale, eventualmente maggiorato sino al quadruplo art. 5, commi 2 e 3, della tariffa giudiziale , in relazione alle questioni giuridiche trattate ed all’importanza della causa, tenuto conto dei risultati del giudizio, anche non patrimoniali, e dell’urgenza richiesta. Chi ha diritto alla liquidazione del compenso? Al fine di individuare il soggetto obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore, occorre distinguere tra rapporto endoprocessuale nascente dal rilascio della procura ad litem e rapporto che si instaura tra il professionista incaricato ed il soggetto che ha conferito l’incarico, il quale può essere anche diverso da colui che ha rilasciato la procura. In tal caso chi agisce per il conseguimento del compenso ha l’onere di provare il conferimento dell’incarico da parte del terzo, dovendosi, in difetto, presumere che il cliente sia colui che ha rilasciato la procura.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 4 luglio – 25 settembre 2014, n. 20302 Presidente Ceccherini – Relatore Mercolino Svolgimento del processo 1. - Con decreto del 14 maggio 2007, il Tribunale di Roma ha rigettato il reclamo proposto dall'avv. M.R. avverso il decreto emesso il 25 gennaio 2007, con cui il Giudice delegato al fallimento della Tre A S.r.l. aveva liquidato in complessivi Euro 48.143,55 ivi compresi Euro 40.000,00 per onorario, Euro 7.200,00 per diritti ed Euro 943,55 per spese , oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, il compenso dovuto al reclamante per l'attività difensiva svolta in favore della procedura in un giudizio promosso nei confronti della Banca Toscana S.p.a., ed avente ad oggetto la revocatoria di rimesse bancarie. Premesso che il giudizio si era concluso con una transazione, in virtù della quale la Banca aveva corrisposto al fallimento la somma di Euro 2.500.000,00, il Tribunale ha rilevato che tale soluzione era stata adottata a causa dei dubbi nutriti dallo stesso difensore in ordine alla fondatezza della pretesa, ed ha ritenuto pertanto ingiustificata la liquidazione dell'onorario in base al valore della domanda, notevolmente divergente da quello della causa, osservando comunque che il compenso liquidato dal Giudice delegato risultava sensibilmente superiore a quello determinato in base alla media tra le prospettazioni iniziali delle parti. 2. - Avverso il predetto decreto l'avv. M. ha proposto ricorso per cassazione, articolato tre in motivi. Il curatore del fallimento non ha svolto attività difensiva. Motivi della decisione 1. - Con il primo motivo d'impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 10 cod. proc. civ. e degli artt. 4 e 6, punto 1, del capitolo I della tariffa allegata al d.m. 8 aprile 2004, n. 127, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini della liquidazione dei compensi, non ha tenuto conto del valore della domanda, pari all'importo complessivo delle rimesse bancarie che costituivano oggetto dell'azione revocatoria, determinato in Euro 34.235.825,33 dal consulente di parte del fallimento e sostanzialmente confermato dal c.t.u. nominato nel corso del giudizio. 2. - Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell'art. 6, punto 2, del capitolo I della tariffa allegata al d.m. n. 127 del 2004, affermando che, nell'evidenziare la notevole divergenza tra il valore della domanda e quello della causa, il Tribunale ha applicato un criterio riferibile alla diversa ipotesi in cui il giudice è chiamato a valutare, in qualità di terzo, la pretesa avanzata dall'avvocato nei confronti del cliente nel ricondurre la transazione alle incertezze da lui manifestate in ordine alla fondatezza della domanda, il decreto impugnato ha invece omesso di valutare la documentazione prodotta, da cui emergeva che i dubbi riguardavano piuttosto la prova della scientia decoctionis e l'entità della proposta transattiva. 3. - Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell'art. 10 cod. proc. civ. e degli artt. 4, 5, punti 1, 2, e 3, e 13 del capitolo I della tariffa allegata al d.m. n. 127 del 2004, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha liquidato i compensi sulla base del valore della transazione, senza considerare che sulla stipulazione della stessa aveva inciso anche la vantazione di elementi estranei al valore della domanda, quali l'immediata realizzazione di una cospicua somma, l'attivo complessivamente realizzato e l'alea del giudizio. Nel porre a confronto il compenso liquidato con quello determinabile in base alla media tra le prospettazioni iniziali delle parti, il Tribunale ha inoltre equiparato tale media al doppio del valore della transazione, anziché alla metà del valore della domanda proposta dal fallimento, trascurando infine che l'indicazione delle attività da lui svolte nell'interesse della procedura non era stata contestata né dal curatore né dal Giudice delegato. 4. - I predetti motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti aspetti diversi della medesima questione, sono infondati. Nel ritenere ingiustificata la liquidazione del compenso dovuto al ricorrente sulla base del valore della domanda, in quanto notevolmente divergente da quello della causa, il decreto impugnato ha inteso infatti riferirsi, sia pure senza richiamarlo espressamente, al criterio stabilito dall'art. 6, commi secondo e quarto, della tariffa professionale approvata con d.m. n. 127 del 2004, che consente di tenere conto, nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, del valore effettivo della controversia, quando risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile, individuando negl'interessi perseguiti dalle parti il parametro cui occorre fare riferimento per l'individuazione del predetto valore. L'applicazione del predetto criterio trova conforto nell'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, a differenza di quanto accade nella liquidazione delle spese a carico della parte soccombente ai fini della quale il comma primo dell'art. 6 impone di avere riguardo al valore della causa determinato a norma del codice di procedura civile, ferma restando, nei giudizi aventi ad oggetto il pagamento di somme o la liquidazione di danni, la necessità di fare riferimento alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata , nei rapporti tra l'avvocato ed il cliente sussiste sempre la possibilità di un concreto adeguamento degli onorari al valore effettivo e sostanziale della controversia, ove sia ravvisabile una manifesta sproporzione rispetto a quello determinato in base alle norme del codice di rito. Tale orientamento trova giustificazione in un'interpretazione sistematica dei commi secondo e quarto dell'art. 6, conforme al principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato alla opera professionale effettivamente prestata, in virtù della quale il richiamo della prima disposizione al valore presunto a norma del codice di procedura civile, da intendersi riferito a tutte le regole da quest'ultimo dettate per la determinazione del valore della controversia, non esclude l'attribuzione al giudice di una generale facoltà discrezionale di adeguare la misura dell'onorario all'effettiva importanza della prestazione cfr. Cass., Sez. II, 8 febbraio 2012, n. 1805 31 maggio 2010, n. 13229 11 luglio 2006, n. 15685 . L'esercizio della predetta facoltà non incontra un limite nella diversità della funzione esercitata dal giudice delegato al fallimento rispetto a quella svolta dal giudice chiamato a decidere una controversia tra avvocato e cliente, trattandosi in entrambi i casi di procedere alla liquidazione del corrispettivo dovuto per l'attività svolta in esecuzione del contratto di prestazione d'opera professionale, per la quale la tariffa non prevede criteri differenziati a seconda del soggetto in favore del quale sia stata prestata la predetta attività. Non merita pertanto censura il decreto impugnato, nella parte in cui, ai fini della liquidazione del compenso spettante al ricorrente, ha ritenuto ingiustificato il richiamo al valore della domanda originariamente proposta nel giudizio promosso per conto del fallimento, sottolineandone la manifesta sproporzione rispetto allo importo recuperato mediante la transazione stipulata con la controparte, assunto quindi come termine di riferimento per la valutazione degl'interessi coinvolti nella controversia. È stato infatti precisato che la valutazione dell'importanza della prestazione presuppone comunque l'individuazione della valenza economica della causa, sia essa inferiore o superiore a quella presunta in base alle norme del codice di rito, in modo tale da poter procedere ad un confronto tra entità economiche omogenee, non risultando altrimenti possibile una comparazione tra il dato certo rappresentato dal valore determinato secondo le regole codicistiche e quello incerto costituito dagli interessi in gioco cfr. Cass., Sez. II, 8 febbraio 2012, n. 1805, cit. . Tale criterio di valutazione deve ritenersi particolarmente appropriato in riferimento alla liquidazione degli onorari dovuti all'avvocato per l'attività svolta in un giudizio conclusosi, come nella specie, attraverso una transazione, la quale, implicando reciproche concessioni, esclude la possibilità d'individuare una parte vincitrice ed una soccombente, suggerendo pertanto il ricorso a parametri più idonei a ricondurre a giustizia concreta la quantificazione del compenso cfr. Cass., Sez. VI, 28 marzo 2013, n. 7807 Cass., Sez. II, 11 aprile 1991, n. 3804 . È in tale prospettiva che dev'essere valutato anche il riferimento del decreto impugnato all'onorario liquidabile sulla base di un valore della controversia pari al doppio dell'importo concordato ai fini della transazione, la cui misura deve ritenersi sottolineata dal Tribunale in via meramente orientativa, al fine di evidenziare l'adeguatezza complessiva del compenso riconosciuto dal Giudice delegato alla rilevanza dell'attività svolta dal ricorrente. Nessun rilievo possono infine assumere le ragioni poste a fondamento della scelta di addivenire alla transazione, il cui richiamo da parte del decreto impugnato deve ritenersi sostanzialmente superfluo ai fini della decisione, avuto riguardo al carattere soggettivo di tali motivazioni, attinenti alla conduzione tecnica del giudizio ma inidonee a rivelare la portata obiettiva degl'interessi coinvolti nella controversia. 2. - Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell'intimato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso.