IRAP per il promotore finanziario che versa compensi elevati alla moglie collaboratrice familiare

È tenuto a versare l’IRAP il professionista che si fa aiutare, in qualità di segretaria, dalla moglie dandole uno stipendio molto alto.

La Cassazione con l’ordinanza n. 22469/19, depositata il 9 settembre, ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate presentato contro un promotore finanziario che aveva pagato compensi molto alti alla coniuge per lavori di segreteria. La motivazione della Cassazione si basa anche sulla partecipazione della coniuge ai risultati dell’attività in qualità di collaboratrice familiare. Impresa familiare e IRAP. L’imprenditore familiare è soggetto passivo IRAP, in quanto la collaborazione dei partecipanti all’impresa familiare integra quel quid pluris dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore o valore aggiunto rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare etero-organizzazione dell’esercente l’attività . Lo ha stabilito la Cassazione con l’ordinanza n. 14789 del 7 giugno con cui ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate. La fattispecie riguardava un agente di commercio che esercitava la propria attività in forma di impresa familiare, avvalendosi di collaboratori familiari moglie e figlio cui corrispondeva il 49% del reddito prodotto. La Cassazione ha così annullato la sentenza della CTR Emilia Romagna e, decidendo nel merito, ha definitivamente rigettato il ricorso del contribuente. Secondo i Giudici di legittimità la produzione di un reddito d’impresa e la presenza di collaboratori familiari, rappresentano di per sé elemento sufficiente al suo inquadramento nell’ambito delle attività soggette ad IRAP. Sul punto la Cassazione ha di recente chiarito che l’esercizio in forma associata dell’attività rileva in ogni caso ai fini dell’assoggettabilità ad IRAP. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, nella recente sentenza 14 aprile 2016, n. 7371 ha ribadito il principio di diritto secondo cui quando l’attività è esercitata dalle società e dagli enti, che siano soggetti passivi dell'imposta a norma del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 3, comprese quindi le società semplici e le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l'esercizio in forma associata di arti e professioni - essa, in quanto esercitata da tali soggetti, strutturalmente organizzati per la forma nella quale l'attività è svolta, costituisce ex lege, in ogni caso, presupposto d'imposta, dovendosi perciò escludere la necessità di ogni accertamento in ordine alla sussistenza dell'autonoma organizzazione . In altri termini la struttura tipica degli studi associati renderebbe evidente in ogni caso l’esistenza di un’organizzazione di mezzi e persone volta al raggiungimento di uno scopo, e quindi la piena assoggettabilità alla norma. La Suprema Corte ha quindi aderito a quell’orientamento espresso da ultimo dalla sentenza 6 marzo 2015, n. 4578 nella quale si afferma che l’esercizio in forma associata dell’attività, sebbene senza dipendenti o collaboratori e, comunque, con beni strumentali di esiguo valore, è circostanza di per sé idonea a far presumere l'esistenza di una autonoma organizzazione di strutture e mezzi, nonché dell'intento di avvalersi della reciproca collaborazione e delle rispettive competenze, ovvero della sostituibilità nell'espletamento di alcune incombenze, sì da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di ciascun componente dello studio e, conseguentemente, debba essere assoggettato all’IRAP, a meno che il contribuente non dimostri che tale reddito è derivato dalla sola attività dei singoli associati . Ciò vale evidentemente anche per l’impresa familiare che è un’impresa individuale caratterizzata dalla collaborazione dei familiari. Ed infatti la Cassazione ha stabilito che lo svolgimento di una attività ausiliaria del commercio in forma di impresa familiare implica comunque la sussistenza di un’autonoma organizzazione indotta dalla collaborazione di familiari cfr. Corte di Cassazione, sentenza 17 giugno 2016, n. 12616 . Il caso concreto. I Giudici ricordano che l'attività svolta dal promotore finanziario non è qualificabile automaticamente come attività di impresa, di per sé assoggettata ad imposta, ma, anche alla stregua dell'interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla corte costituzionale con la sentenza n. 156/01, richiede una valutazione complessiva, da parte del giudice di merito, degli elementi di fatto offerti dalla fattispecie concreta, poiché essa, a norma dell'art. 31 d.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58, può essere svolta in qualità di dipendente, agente o mandatarìo e, quindi, può assumere connotati variabili tra la figura del lavoro subordinato dipendente, esente da imposta, quella del lavoro autonomo, assoggettabile ad imposta solo in presenza di un'autonoma organizzazione, e quella dell'attività d'impresa, pacificamente sottoposta a imposizione. Quanto all’esistenza di un’impresa familiare, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, l'IRAP afferisce non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un'attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, sicché ne è soggetto passivo pure l'imprenditore familiare ma non anche i familiari collaboratori atteso che la collaborazione dei partecipanti integra quel quid pluris dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore o valore aggiunto rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare ed è, quindi, sintomatica del relativo presupposto impositivo cfr. Cass. nn. 12616/16 e 14789/18 . Nel caso di specie la CTR ha affermato che occorre la prova che l’apporto del collaboratore familiare abbia effettivamente incrementato il fatturato aziendale. Inoltre, data la particolarità dell’attività di promotore finanziario, la collaborazione della moglie doveva intendersi limitata ad un ambito meramente esecutivo, quale quello di segreteria o affine. Tale presunzione contrasta con l’orientamento sopra richiamato soprattutto in tema di impresa familiare nonché con il rilevante importo degli emolumenti corrisposti alla moglie-collaboratrice e risultanti dai quadri RF delle dichiarazioni di riferimento.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - T, ordinanza 18 giugno – 9 settembre 2019, n. 22469 Presidente Greco – Relatore Esposito Rilevato che L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, avverso la sentenza in data 7 novembre 2017 con la quale la Commissione tributaria regionale delle Marche, in accoglimento dell’appello proposto da V.S. , ha accolto il ricorso proposto dal contribuente contro il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso dell’IRAP versata per gli anni 2005-2008. Riteneva la CTR che erroneamente l’Agenzia delle entrate aveva fatto discendere dalla circostanza che la moglie del contribuente fosse collaboratrice in forma associata nella misura del 49% dell’impresa familiare la prova della sussistenza del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione, laddove, in difetto di specifica prova contraria da parte dell’Ufficio, la particolarità dell’attività di promotore finanziario svolta dal contribuente relegava la collaborazione del coniuge - priva di tale qualifica - ad un ambito meramente esecutivo, quale quello di segretaria o affine. Resiste con controricorso il contribuente. Sulla proposta del relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. risulta regolarmente costituito il contraddittorio camerale. Il contribuente ha depositato memoria. Considerato che Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 2, comma 1, e art. 3, comma 1, lett. c per avere la CTR erroneamente escluso la sussistenza del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione in presenza dell’effettivo e continuativo apporto fornito all’impresa familiare dalla moglie del contribuente, alla quale era attribuito un reddito di impresa nella misura del 49%, soglia massima prevista dalla legge. Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in riferimento alla dedotta partecipazione al reddito d’impresa nella misura del 49% della collaboratrice familiare. Preliminarmente vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso per dedotto contrasto con il disposto degli artt. 360 e 360 bis c.p.c. Esse sono infondate, in quanto, per un verso, non è dato nella specie ravvisare un apprezzamento in fatto del giudice di appello insindacabile in questa sede, e, per altro verso, la decisione impugnata non si inserisce nell’ambito di un orientamento nomofilattico di legittimità. I due motivi di ricorso, esaminabili congiuntamente, sono fondati. Va premesso che in tema di IRAP, l’attività svolta dal promotore finanziario non è qualificabile automaticamente come attività di impresa, di per sé assoggettata ad imposta, ma, anche alla stregua dell’interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla corte costituzionale con la sentenza n. 156 del 2001, richiede una valutazione complessiva, da parte del giudice di merito, degli elementi di fatto offerti dalla fattispecie concreta, poiché essa, a norma del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 31, può essere svolta in qualità di dipendente, agente o mandatario e, quindi, può assumere connotati variabili tra la figura del lavoro subordinato dipendente, esente da imposta, quella del lavoro autonomo, assoggettabile ad imposta solo in presenza di un’autonoma organizzazione, e quella dell’attività d’impresa, pacificamente sottoposta ad imposizione Cass. n. 8120 del 2012 . La giurisprudenza di legittimità è poi ferma nel ritenere che L’IRAP afferisce non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un’attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, sicché ne è soggetto passivo pure l’imprenditore familiare ma non anche i familiari collaboratori atteso che la collaborazione dei partecipanti integra quel quid pluris dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore o valore aggiunto rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare ed è, quindi, sintomatica del relativo presupposto impositivo Cass. n. 12616 del 2016 nello stesso Cass. n. 24060 del 2016, in motivazione . Va, inoltre, rilevato che questa Corte, in fattispecie analoga a quella in esame, ha cassato la decisione della commissione tributaria regionale che aveva escluso la sussistenza del requisito impositivo dell’autonoma organizzazione nell’attività svolta dal contribuente di agente di commercio sul presupposto che questi corrispondesse a terzi, occasionalmente, compensi di non rilevante entità, senza considerare l’entità delle quote corrisposte ai collaboratori facenti parte dell’impresa familiare Cass. n. 16742 del 2017 . Nel caso di specie, la CTR, dopo aver osservato che, ai fini della sussistenza del presupposto impositivo occorre la concreta dimostrazione che l’apporto del collaboratore familiare abbia effettivamente incrementato il fatturato aziendale , ha affermato che in difetto di specifica prova contraria, la particolarità dell’attività di promotore finanziario dell’appellante come sopra spiegato relega la collaborazione della moglie priva di quella specifica qualifica ma semplicemente legata al medesimo in un’impresa familiare - ad un ambito meramente esecutivo, quale quello di segretaria o affine . Siffatta motivazione si pone in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, essendo essa fondata sulla presunzione che la collaborazione del partecipante all’impresa familiare, il cui titolare svolga l’attività di promotore finanziario, si collochi in un ambito meramente esecutivo. Per contro, dai quadri RF relativi gli anni d’imposta in questione, riportati dall’Agenzia delle entrate in ricorso in ossequio al principio di autosufficienza, risulta che sono state corrisposte alla collaboratrice familiare quote pari ad Euro 93.393,00 per il 2005, Euro 114.617,00 per il 2006, Euro 121.997,00 per il 2007 ed Euro 40.410,00 per il 2008. Tali considerevoli spese si manifestano incompatibili con l’insussistenza del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione, sì da collocare, nel caso di specie, l’attività svolta dal promotore finanziario nell’ambito dell’area di assoggettabilità all’imposta. Alla stregua di tali considerazioni, idonee a superare i rilievi difensivi svolti dal controricorrente anche in memoria, il ricorso va dunque accolto e la sentenza impugnata cassata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., la causa può essere decisa nel merito, con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente. Le spese dei gradi di merito possono essere compensate tra le parti, mentre le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente. Compensa tra le parti le spese dei gradi di merito condanna il contribuente al pagamento, in favore dell’Agenzia delle entrate, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.