I ricavi derivanti dalla vendita di caffè possono essere quantificati con un criterio meramente empirico (8 grammi a tazzina)

L’Ufficio, partendo da un dato certo sulla base di indizi o presunzioni gravi, precisi e concordanti, procede con la ricostruzione del reddito e la relativa notifica della nuova pretesa fiscale. In materia di prova presuntiva, è sufficiente anche un unico fatto noto, quando i suoi aspetti siano chiaramente ed univocamente concordanti sul verificarsi del fatto ignoto, proprio come nel caso di specie, nel quale il primo è costituito dal consumo di caffè, in sé pacifico, e sulla base di questo sono stati poi accertati i ricavi.

Tale assunto è stato statuito dalla Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 10207/18 depositata il 27 aprile. La vicenda. Il fisco, in seguito ad una verifica fiscale, ha notificato ai fini IRPEF al gestore di un bar un avviso di accertamento contestando maggior reddito, con metodo induttivo. In particolare, il fisco ha quantificato i presunti ricavi dalla vendita del caffè ritenendo che per una tazzina fossero necessari circa 8 grammi di caffè ed ha applicato un ricarico del 100%, su tutti gli altri prodotti venduti dal contribuente. I giudici di merito tributari hanno accolto la doglianza del contribuente ritenendo a del tutto discutibili i criteri adottati dall’Amministrazione finanziaria per il computo del maggior reddito accertato b non corretto il calcolo del ricarico peraltro privo dell’elenco analitico delle merci. Gli Ermellini, con la pronuncia citata, hanno accolto il ricorso in cassazione presentato dal fisco. In particolare, i Giudici di legittimità hanno precisato che la ricostruzione del reddito, secondo la modalità induttiva, ai sensi dell’art. 39, comma 2, lett. d , d.P.R. n. 600/1973 è legittima, quando gli elementi indiziari gravi precisi e concordanti, univocamente la confermano. La norma, infatti, prescrive che l’Ufficio procede alla rettifica quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate, ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse. A questo punto, prosegue la Corte, è onere del contribuente dimostrare l’inesattezza della ricostruzione che nella specie non era avvenuta. In riferimento alla percentuale di ricarico, gli Ermellini precisano che nonostante la circolare 185/2000 prescriva al riguardo una percentuale massima del 502%, nella specie l’ufficio aveva applicato una percentuale di ricarico sensibilmente inferiore. Orientamenti giurisprudenziali. È illegittimo l’accertamento di maggiori ricavi fondato sulla quantità di miscela caffè mediamente necessaria per la produzione di una tazzina. Il ricorso alle nozioni di comune esperienza fatto notorio , comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile. Pertanto non si possono reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, nè quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio. I fatti notori vanno circoscritti a situazioni limitate e non vi possono rientrare elementi valutativi, come la dose di caffè occorrente per preparare la tazzina di caffè Cass. n. 10204/16 . E’ illegittimo il cd. tazzinometro utilizzato dal fisco per la contabilizzazione dei ricavi del bar ai fini IVA, IRPEF ed IRAP. Non si possono fondare le entrate di un locale su dati ritenuti di comune e notoria esperienza come ad esempio il numero dei caffè serviti e la percentuale di rincaro applicata dal commerciante. L'individuazione dei grammi di caffè necessari per preparare una tazzina e la determinazione della percentuale di rincaro, infatti, non sono elementi idonei a rappresentare fatti notori e di comune esperienza. Il giudice non può ritenere fatto notorio la quantità di miscela per preparare un caffè e il rincaro applicato dal bar. Tale assunto è stato stabilito dalla Corte di Cassazione, quinta sezione civile, con la sentenza n. 10204 del 18 maggio 2016. Il caffettometro non basta al fisco per provare che il ristorante ha omesso di dichiarare redditi. La ricostruzione operata dall'Agenzia delle Entrate sui consumi di caffè non ha valore indiziario di gravità e precisione tale da dimostrare la fondatezza dell'accertamento. In tema di accertamento delle imposte sui redditi e IVA, la quantità di caffè consumata non può ricostruire induttivamente il volume dei ricavi di un'azienda. E’ errore commesso dall’Ufficio, quello di attribuire forza presuntiva alla mera allegazione” secondo cui 6/7 grammi di caffè sarebbero la quantità generalmente utilizzata per ottenerne una tazza Cass. n. 25093/14 . La dose di caffè occorrente per preparare una tazzina non può assurgere al rango di fatto notorio, ex art. 115 comma 2 c.p.c., e quindi sollevare il Fisco dall’onere di provare la bontà del proprio operato.

Corte di Cassazione, sez. V Civile, ordinanza 26 ottobre 2017 – 27 aprile 2018, n. 10207 Presidente Greco – Relatore Mengoni Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 18/11/2011, la Commissione tributaria regionale della Campania rigettava l'appello proposto dalla Agenzia delle Entrate avverso la pronuncia n. 273/02/2009 della Commissione tributaria provinciale di Benevento, con la quale era stato annullato un atto impositivo a carico di Gi. Mu A parere del Collegio, l'Agenzia appellante - oltre a non aver proposto censure puntuali alla prima sentenza - avrebbe quantificato i ricavi derivanti dalla vendita di caffè con un criterio meramente empirico 8 grammi a tazzina e senza tener conto di plurimi, ulteriori elementi negativi, tali da incidere sull'ammontare dei ricavi stessi ancora, quanto al ricarico del 100% sugli altri prodotti venduti nel bar, l'appellante non avrebbe rispettato i principi di cui alla circolare n. 185/2000 e, in particolare, non avrebbe allegato l'elenco analitico delle merci. 2. Propone ricorso per cassazione l'Agenzia delle Entrate, deducendo i seguenti motivi - violazione e falsa applicazione dell'art. 53, comma 1, D.Lgs. n. 546 del 1992, in relazione all'art. 360, comma 1, cod. proc. civ Contrariamente all'assunto della Commissione regionale, l'atto di appello conterrebbe puntuali doglianze alla motivazione della prima decisione, come da stralci che il gravame riporta - violazione dell'art. 39, comma 2, lett. d , D.P.R. n. 600 del 1973, 54, comma 2, D.P.R. n. 633 del 1972, in combinato disposto con l'art. 2697 cod. civ. e con riferimento all'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ La sentenza non avrebbe considerato che, in materia di prova presuntiva, sarebbe sufficiente anche un unico fatto noto, quando i suoi aspetti siano chiaramente ed univocamente concordanti sul verificarsi del fatto ignoto proprio come nel caso di specie, nel quale il primo sarebbe costituito dal consumo di caffè, in sé pacifico, e sulla base di questo sarebbero stati poi accertati i ricavi. Ciò, peraltro, portando da 7 a 8 i grammi indicati come necessari per una tazzina di caffè, nonché applicando una percentuale di ricarico - sugli altri prodotti - pari al 100%, ossia inferiore a quella mediamente applicata. Criteri, peraltro, sui quali il Mu. non avrebbe speso considerazioni, non allegando elementi di segno contrario, come invece suo onere a fronte di prova per presunzioni - insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ La sentenza non indicherebbe da quale fonte avrebbe tratto la misura del calcolo degli sfridi, né le ulteriori considerazioni in ordine al caffè non venduto si ribadisce, inoltre, che la percentuale di ricarico del 100% applicata dall'Agenzia e mai smentita dal ricorrente costituirebbe il minimo previsto dagli studi di settore, e sarebbe ben inferiore a quella del 279% risultante dalla parte 11 della circolare n. 185 del 2000, ampiamente rispettata nel calcolo effettuato dall'Ufficio, contrariamente a quanto affermato in sentenza. Con controricorso ritualmente depositato, e successiva memoria, il Mu. ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso e, comunque, rigettarlo. CONSIDERATO IN DIRITTO 3. Il gravame merita accoglimento. Per quanto riguarda il primo motivo, lo stesso risulta fondato, sebbene di fatto irrilevante ed invero, premesso che - come legittimamente verificato da questa Corte - le doglianze proposte dall'Agenzia non rivestivano carattere generico ed aspecifico, ma sufficientemente puntuale, devesi osservare che la Commissione regionale - pur pervenuta a differente giudizio - ha comunque affrontato nel merito le questioni alla stessa sottoposte all'evidenza, quindi, di adeguato contenuto , si che la doglianza appare priva di decisivo rilievo. 4. Per quanto poi concerne il secondo motivo, il controricorrente assume trattarsi di censura inammissibile, poiché volta ad ottenere in questa sede una nuova indagine sul fatto oggetto di giudizio grammi di caffè impiegati per una tazzina calcolo della percentuale di ricarico orbene, tale assunto non sembra condivisibile. La sentenza impugnata, infatti, ha obliterato del tutto il criterio impiegato dall'Agenzia delle Entrate per l'individuazione dei consumi di caffè e, quindi, dei redditi prodotti , ossia l'elemento noto - non controverso - costituito dal confronto tra le rimanenze iniziali di materiale presenti in bilancio, le fatture di acquisto rilevate nell'anno di interesse e le rimanenze di fine esercizio acquisito, in tal modo, un dato quantitativo certo, sullo stesso è stato quindi applicato un criterio comune di consumo 8 grammi a tazza , si da pervenire ad una presunzione di reddito nei termini poi contestati al contribuente. Presunzione che, pertanto, quest'ultimo avrebbe avuto onere di superare, senza che di ciò, tuttavia, risulti traccia in sentenza in violazione, quindi, del costante indirizzo di legittimità in forza del quale, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell'accertamento analitico - induttivo del reddito d'impresa, ai sensi dell'art. 39, primo comma, lett. d , del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto contrastante con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente. In tali casi, pertanto, è consentito all'ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici - purché gravi, precise e concordanti -, maggiori ricavi o minori costi, ad esempio determinando il reddito del contribuente utilizzando le percentuali di ricarico, con conseguente spostamento dell'onere della prova a carico del contribuente stesso Sez. 5, n. 7871 del 18/5/2012, Rv. 622907-01 Sez. 5, n. 6852 del 20/3/2009, Rv. 607154-01 . La radicale, omessa valutazione del criterio suddetto costituisce, dunque, una violazione dell'appena citato art. 39, comma 1, D.P.R. n. 600 del 1973 in uno con l'art. 54, comma 2, D.P.R. n. 633 del 1972 , a mente del quale l'esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti norma che la sentenza non ha preso affatto in esame, si da doversi accogliere la seconda censura. 5. Nei medesimi termini, poi, conclude la Corte anche quanto alla terza doglianza, con la quale si contesta il vizio motivazionale con riguardo ai criteri impiegati in sentenza per abbattere il consumo presunto di caffè e, pertanto, i ricavi del contribuente. Ed invero, le circostanze negative fattuali indicate dalla Commissione dal calcolo dello sfrido al 10% alla mancata somministrazione dei primi caffè della giornata dall'impiego di parte del caffè per i cappuccini alla vendita del prodotto anche in confezioni risultano non solo oggetto di mera elencazione, del tutto astratta e priva di riferimenti concreti, ma anche - ed a monte - scevre da qualsivoglia indicazione in punto di fonte, si da non potersi comprendere da dove la Commissione le abbia concretamente tratte. E fermo restando, peraltro, che lo stesso motivo di gravame deve esser accolto anche nell'ulteriore sviluppo, laddove si contesta che le percentuali medie di ricarico impiegate dall'Agenzia sarebbero state individuate in assenza di riferimenti alla circolare n. 185 del 13/10/2000 per contro, prodotta con l'atto di appello ed espressamente richiamata nel presente gravame e, soprattutto, in termini superiori quanto al caffè in tazza, ad esempio, l'Agenzia aveva pacificamente applicato un ricarico del solo 100%, pur a fronte di una percentuale del 502%, per come riportata nella citata circolare. Dal che, il vizio motivazionale denunciato, ravvisabile nel passaggio con il quale la sentenza ha erroneamente contestato la mancata allegazione id est il mancato utilizzo del medesimo documento amministrativo. 6. In forza di quanto precede, dunque, il ricorso deve essere accolto, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio, per nuovo giudizio, alla Commissione tributaria regionale della Campania in diversa composizione. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania in diversa composizione, anche per le spese.