Indeducibile la consulenza se manca il contratto con il commercialista

La dicitura prestazione di consulenza commerciale effettuata” sulla fattura emessa dal commercialista, essedo generica, preclude all’impresa la deducibilità del relativo costo, salvo che non sia esibita la documentazione di riferimento che consenta la verifica dell’inerenza della spesa all’attività d’impresa.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 7231, del 13 aprile 2016, ha affermato che non è sufficiente la generica fattura emessa dal commercialista e la conseguente contabilizzazione da parte della società per consentire a quest’ultima di dedurre il costo dal suo reddito nel caso in cui sia mancante la documentazione del contratto che ha dato luogo a quella prestazione, l’Amministrazione Finanziaria non può verificare l’inerenza effettiva della spesa sostenuta all’attività d’impresa. Il contenzioso. A seguito di una verifica generale in una società cooperativa, l'Agenzia delle Entrate ha riscontrato una differenza tra la merce formalmente prodotta o acquistata e le rimanenze di magazzino. L'Agenzia ha dunque presunto un maggior reddito, utilizzando a presupposto dell’accertamento proprio la differenza tra la merce contabilizzata e quella risultante dai relativi registri ancora in magazzino. Inoltre ha ritenuto che la società avesse imputato come costi deducibili due fatture relative a prestazioni di opera professionale, non sufficientemente documentate. Ha proceduto, pertanto, a rideterminare le rimanenze di magazzino, presumendo maggiori ricavi ed ha recuperato a tassazione i costi ritenuti non documentati inerenti le prestazioni professionali del commercialista. La società ha fatto ricorso alla Commissione Provinciale, che ha rigettato la domanda per converso la Commissione regionale ha invece accolto il ricorso, ritenendo che l'onere di dimostrare il maggior ricavo competeva all'Ufficio, che invece si sarebbe limitato a presumere il maggior reddito dal mero dato della rimanenza di magazzino. Per quanto, invece, relativamente ai costi portati in deduzione, secondo la Commissione di secondo grado, essi dovevano ritenersi in senso lato attinenti all’attività di impresa. Avverso la sentenza sfavorevole l’Agenzia delle Entrate è ricorsa in Cassazione. L’analisi della Cassazione. Nel ricorso in Cassazione l’Agenzia delle Entrate evidenzia che la Commissione Tributaria ha ritenuto che la stessa Agenzia ha fatto cattivo uso delle presunzioni, ricavando dal dato di magazzino mancanza di capi, pur contabilizzati la conclusione che quei capi mancanti erano stati venduti, e dunque avevano prodotto reddito, non dichiarato. Secondo il giudice di appello si tratta di una induzione indimostrata, nel senso che l'Agenzia non avrebbe adeguatamente giustificato come da quel dato noto mancanza di capi in magazzino sia risalita al fatto ignoto che i capi sono stati venduti . L'Agenzia ricorrente denuncia violazione di legge, in quanto la presunzione è prevista espressamente da un norma, e dunque non v'era bisogno di dimostrare la fondatezza dell'inferenza. In particolare, l’Agenzia ricorrente lamenta violazione dell’art. 1 del d.P.R. n. 441/1997, nella parte in cui consente di presumere, al contrario di quanto affermato dal giudice di appello, che quanto non risultante come giacente nella sede dell'impresa sia stato in realtà venduto. Secondo la ricorrente, è sbagliata la decisione di secondo grado quando afferma che spettasse all'Agenzia l'onere di dimostrare che lo scarto tra quanto formalmente prodotto o acquistato e le effettive rimanenze di magazzino significasse un reddito maggiore di quello dichiarato, per via di vendite o cessioni onerose maggiori di quelle dichiarate. Per la Corte di Cassazione la motivazione dell’Agenzia delle Entrate è fondata. Quanto deciso dal giudice impugnato viola il disposto dell’art. 1, del d.P.R. n. 441/1997, il quale prevede che si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni. Davanti dunque al fatto che risultavano formalmente dal bilancio circa diecimila capi di abbigliamento, mentre dalle scritture di magazzino i capi erano poco meno di settemila, e dunque davanti al dato che in magazzino mancavano capi risultanti invece in bilancio, l'Agenzia delle Entrate ha legittimamente presunto che i capi non contabilizzati siano stati ceduti, e che la loro cessione ha prodotto un reddito. In particolare l'art. 1, d.P.R. n. 441/1997, contiene infatti una presunzione che si ricava non solo dal dato letterale si presumono ceduti , ma altresì dalla circostanza che al successivo comma 2, indica i fatti da addurre per superare quanto stabilito al primo comma. Di fronte al ricorso alla presunzione di cessione dei beni, e dunque del conseguente reddito, era onere del contribuente allegare uno dei fatti indicati nel secondo comma. Cosi che l'onere della prova non era, se non nei limiti del ricorso alla presunzione, dell'Agenzia, ma era, una volta fatta valere correttamente la presunzione, del contribuente, che evidentemente, per quanto risulta agli atti, non l'ha assolta. L’Agenzia delle Entrate nel ricorso evidenzia, inoltre, la violazione dell'art. 109, del d.P.R. n. 917/1986. L’Ufficio, infatti, non ha consentito il recupero in deduzione, come costi d'impresa, di alcune fatture, relative a rapporti non sufficientemente documentati. In particolare una fattura risultava emessa da un professionista, nel caso in esame si trattava di un commercialista, con la dicitura prestazione di consulenza commerciale effettuata mentre le altre fatture risultavano emesse da una società terza per prestazioni di intermediazione nell'acquisto di merce da imprese provenienti dall’estero. In entrambi i casi, non solo le fatture contenevano diciture generiche, ossia generici riferimenti al rapporto retribuito, ma non è stata trovata sufficiente documentazione di quest'ultimo. La Commissione Regionale, pur prendendo atto di tale insufficienza documentale, ha ritenuto, però, che i costi relativi potessero essere dedotti, in quanto comunque correlati in senso ampio” all’attività di impresa. L'Agenzia delle Entrate denuncia il fatto che la Commissione ha ritenuto legittima la deduzione del costo, pur in presenza di una documentazione del tutto insufficiente a dimostrarne l'inerenza, e lo ha fatto ritenendo che sia sufficiente una inerenza in senso ampio”. Per la Corte di Cassazione il motivo è fondato entrambe le fatture contengono una generica menzione della prestazione effettuata a favore della società e da quest'ultima retribuita, prestazione della quale la società non ha esibito documentazione di riferimento. La CTR ha ritenuto legittima la deduzione ritenendo i costi in contestazione comunque correlati in senso ampio” all’attività d’impresa ma, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che spetta al contribuente l’onere della prova dell’inerenza del costo e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria, della coerenza economica dei costi deducibili. A tal fine non è sufficiente che la spesa si stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa da ultimo, Cass. n. 21184/2014 . Un siffatto onere non può ritenersi assolto quando non solo la descrizione della prestazione in fattura è generica e laconica, ma anche quando sia insufficiente o mancante la documentazione del contratto che ha dato luogo a quella prestazione, così che l’Amministrazione Finanziaria non può verificare l’inerenza effettiva della spesa sostenuta all’attività d’impresa. Il ricorso è pertanto accolto.

Corte di Cassazione, sez. V Civile, sentenza 1 febbraio – 13 aprile 2016, n. 7231 Presidente Di Iasi – Relatore Cricenti Svolgimento del processo A seguito di una verifica generale nella sede della società Cooperativa MA”, l'Agenzia delle Entrate ha riscontrato una differenza tra la merce formalmente prodotta o acquistata e le rimanenze di magazzino. L'Agenzia ha dunque presunto un maggior reddito, utilizzando a presupposto dell'accertamento proprio la differenza tra la merce contabilizzata e quella risultante dai relativi registri ancora in magazzino. Inoltre ha ritenuto che la società avesse imputato come costi deducibili due fatture relative a prestazioni di opera non sufficientemente documentate. Ha proceduto pertanto a rideterminare le rimanenze di magazzino, presumendo maggiori ricavi per circa 1.218314,96 euro, ed ha recuperato a tassazione i costi ritenuti non documentati per 44.284,00 euro. La società ha fatto inizialmente ricorso alla Commissione Provinciale, che ha rigettato la domanda. Fatto appello, la Commissione regionale ha invece accolto il ricorso, ritenendo che l'onere di dimostrare il maggior ricavo competeva all'Ufficio, che invece si sarebbe limitato a presumere il maggior reddito dal mero dato della rimanenza di magazzino. Per quanto, invece, relativamente ai costi portati in deduzione, secondo la Commissione di secondo grado, essi dovevano ritenersi in senso lato attinenti all'attività di impresa. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione l'Agenzia deducendo violazione di legge, ed in particolare dell'art. 1 del DPR 441 del 1997, che consente di presumere dai dati di magazzino un reddito diverso da quello dichiarato, e violazione delle norme che impongono una stretta attinenza dei costi dedotti all'attività di impresa. Resiste con controricorso la società, che ha presentato anche memoria integrativa. Motivi della decisione 1.- Con il primo ed il secondo motivo l'Agenzia fa valere la violazione dell'art, 1 DPR 441 del 1997, e difetto di motivazione. La Commissione Tributaria ha ritenuto che l'Agenzia ha fatto cattivo uso delle presunzioni, ricavando dal dato di magazzino mancanza di capi, pur contabilizzati la conclusione che quei capi mancanti erano stati venduti, e dunque avevano prodotto reddito, non dichiarato. Secondo il giudice di appello si tratta di una induzione indimostrata, nel senso che l'Agenzia non avrebbe adeguatamente giustificato come da quel dato noto mancanza di capi in magazzino sia risalita al fatto ignoto che i capi sono stati venduti . L'Agenzia ricorrente denuncia violazione di legge, in quanto la presunzione è prevista espressamente da un norma, e dunque non v'era bisogno di dimostrare la fondatezza dell'inferenza. In particolare, la ricorrente lamenta violazione dell'art. 1 DPR n. 441 del 1997, nella parte in cui consente di presumere, al contrario di quanto affermato dal giudice di appello, che quanto non risultante come giacente nella sede dell'impresa sia stato in realtà venduto. Secondo la ricorrente, erra la decisione di secondo grado nel ritenere che spettasse all'Agenzia l'onere di dimostrare che lo scarto tra quanto formalmente prodotto o acquistato e le effettive rimanenze di magazzino significasse un reddito maggiore di quello dichiarato, per via di vendite o cessioni onerose maggiori di quelle dichiarate. Il motivo è fondato. Quanto deciso dal giudice impugnato viola il disposto dell'art. 1 DPR n. 441 del 1997 il quale prevede che si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni. Davanti dunque al fatto che risultavano formalmente dal bilancio 95687 capi di abbigliamento, mentre dalle scritture di magazzino i capi erano 68497, e dunque davanti al dato che in magazzino mancavano capi risultanti invece in bilancio, l'Agenzia ha legittimamente presunto che i capi non contabilizzati siano stati ceduti, e che la loro cessione ha prodotto un reddito. L'art. 1 DPR n. 441 del 1997 contiene infatti una presunzione che si ricava non solo dal dato letterale si presumono ceduti , ma altresì dalla circostanza che al successivo comma 2 indica i fatti da addurre per superare quanto stabilito al primo comma. Di fronte al ricorso alla presunzione di cessione dei beni, e dunque del conseguente reddito, era onere del contribuente allegare uno dei fatti indicati nel secondo comma. Cosi che l'onere della prova non era, se non nei limiti del ricorso alla presunzione, dell'Agenzia, ma era, una volta fatta valere correttamente la presunzione, del contribuente, che evidentemente, per quanto risulta agli atti, non l'ha assolta. La sentenza va pertanto cassata con rinvio affinché il giudizio di merito si attenga al principio per cui, nell'accertamento del venduto, opera la presunzione di cui all'art. 1 della legge n. 441 del 1997, mentre è a carico del contribuente smentirla deducendo una delle circostanze di cui al secondo comma del medesimo articolo. Il secondo motivo, che denuncia difetto di motivazione su tale punto, può dirsi assorbito dal primo. 2.- Con il terzo motivo l'Agenzia denuncia la violazione dell'art. 75 ora 109 del DPR n. 917/ 1986. L'Ufficio infatti non ha consentito il recupero in deduzione, come costi d'impresa, di alcune fatture, relative a rapporti non sufficientemente documentati. In particolare una fattura risultava emessa da un professionista commercialista , con la dicitura prestazione di consulenza commerciale effettuata”, mentre le altre fatture risultavano emesse da una società terza per prestazioni di intermediazione nell'acquisto di merce da imprese runene. In entrambi i casi, non solo le fatture contenevano diciture generiche, ossia generici riferimenti al rapporto retribuito, ma non è stata trovata sufficiente documentazione di quest'ultimo. La Commissione Regionale, pur prendendo atto di tale insufficienza documentale, ha ritenuto, però, che i costi relativi potessero essere dedotti, in quanto comunque correlati in senso ampio” all'attività di impresa. L'Agenzia denuncia il fatto che la Commissione ha ritenuto legittima la deduzione del costo, pur in presenza di una documentazione del tutto insufficiente a dimostrarne l'inerenza, e lo ha fatto ritenendo che sia sufficiente una inerenza in senso ampio”. Il motivo è fondato. Entrambe le fatture contengono una generica menzione della prestazione effettuata a favore della società e da quest'ultima retribuita, prestazione della quale la società non ha esibito documentazione di riferimento. È regola invero che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, spetta al contribuente l'onere della prova dell'inerenza del costo e, ove contestata dall'Amministrazione finanziaria, della coerenza economica dei costi deducibili. A tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall'imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione dì supporto da cui ricavare, oltre che l'importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all'oggetto dell'impresa da ultimo Cass. n. 21184 del 2014 . Non può ritenersi assolto questo onere quando non solo la descrizione della prestazione in fattura è generica e laconica, ma anche quando sia insufficiente o mancante la documentazione del contratto che ha dato luogo a quella prestazione, cosi che il Fisco non può verificare l'inerenza effettiva della spesa sostenuta all'attività di impresa. Anche su questo punto dunque la decisione va cassata affinché il giudice del rinvio tenga conto del principio di diritto per cui la spesa portata in deduzione va documentata in modo che se ne possa ricavare l'inerenza e la coerenza economica della stessa, che non può intendersi come correlata in senso ampio” all'attività di impresa. P.Q.M. La Corte, accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria regionale di Bologna, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.