Autotutela: la sindacabilità del diniego non consente al giudice di sostituirsi alla discrezionalità dell’Amministrazione

Con la sentenza in esame, la Cassazione ritorna a pronunciarsi sulla portata ed i connessi limiti del sindacato del giudice tributario sul diniego di autotutela.

Con sentenza n. 23765, depositata in data 20 novembre, la Cassazione torna ancora una volta a chiarire la portata ed i connessi limiti del sindacato del giudice tributario sul diniego di autotutela. Il caso. Nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate impugna la sentenza di appello che, sulla base di sopravvenuta sentenza penale di assoluzione, disponeva la riforma della pronuncia di prime cure che aveva respinto il gravame del contribuente avverso il diniego di autotutela. Il giudice di secondo grado, in particolare, si era detto convinto che nella specie fosse ravvisabile un erroneo presupposto d’imposta”, giacché era evidente – in ragione delle prove acquisite nel giudizio penale – che a carico del contribuente vi fosse un’obbligazione tributaria in totale assenza di alcuni redditi da sottoporre a tassazione . Il rifiuto dell’istanza di autotutela. La Suprema Corte ritiene dunque di procedere ancora una volta con una ricostruzione dei limiti e dell’estensione della valutazione del giudice tributario avente ad oggetto il rifiuto dell’istanza di autotutela. Tre sono le regole fondamentali emerse dai molteplici arresti culminati nella celebre pronuncia delle SS.UU n. 7388/2007, in seguito chiariti e corroborati dalla giurisprudenza posteriore - è sussunto alla giurisdizione tributaria qualunque atto, indipendentemente dalla denominazione che esso assume, rappresentativo di una pretesa tributaria, ad eccezione di quelli che appartengono alla fase dell’esecuzione. Anche il diniego di autotutela è espressione di una potestà tributaria - l’impugnabilità del diniego di autotutela è soggetta ai limiti di proponibilità entro cui la disciplina positiva del processo consente l’impugnazione degli atti tributari esso è pertanto sindacabile solo per vizi propri art. 19, comma 3, D.Lgs. 546/1992 - il sindacato che si chiede al giudice tributario a seguito dell’impugnazione dell’anzidetto rifiuto si esplica nei limiti di un controllo inteso a verificare che l’esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione sia avvenuto correttamente ovvero in adesione alle norme positive che ne disciplinano l’esercizio. E la sindacabilità del giudice tributario. Ne discende che la riconosciuta sindacabilità del diniego di autotutela non autorizza il giudice tributario a rivedere il fondamento della pretesa impositiva a suo tempo non contestata, e che alla valutazione discrezionale dell’Amministrazione non possa sostituire quella dell’organo giurisdizionale. In altri termini può esercitarsi un sindacato sulla mera legittimità del rifiuto, e non già sulla fondatezza della pretesa impositiva cfr. Cass. civ., sez. un., 23 aprile 2009, n. 9669 sez. trib., 12 maggio 2010, n. 11457 sez. VI-T, 2 dicembre 2014, n. 25524 sez. trib., 20 febbraio 2015, n. 3442 . La Corte accoglie dunque le doglianze dell’Agenzia, ritenendo che la CTR abbia nella specie travalicato i ricordati limiti che presidiano il sindacato giurisdizionale sul diniego di autotutela. A nulla rileva il giudicato penale sopravvenuto, giacché il suo valore probatorio dispiega effetti sul merito della pretesa non opposta e non afferisce a vizi propri dell’atto impugnato. Fonte www.iltributario.it

Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza 26 ottobre – 20 novembre 2015, n. 23765 Presidente Piccininni – Relatore Marulli Svolgimento del processo 1. L’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione avverso la sentenza 18/34/09 della CTR Lombardia che, pronunciandosi sull’appello promosso da B.O., ha riformato la decisione di primo grado che ne aveva respinto il ricorso nei confronti del diniego dell’amministrazione di annullare in via di autotutela, sulla base della sentenza penale di assoluzione emessa dal Tribunale di Voghera, due pregressi avvisi di accertamento divenuti definitivi per difetto di tempestiva impugnazione. Il giudice d’appello, previamente considerato che ‘ non sussistono dubbi sul fatto che gli organi della giustizia tributaria possano giurisdicere anche in materia di autotutela , in questo senso orientandosi la giurisprudenza di legittimità e potendosi trarre argomento dalle disposizioni di settore che ne prevedono l’applicazione anche ai provvedimenti divenuti definitivi, si dice nel merito convinto che nella specie sia ravvisabile un erroneo presupposto d’imposta , ritenendo che a carico del contribuente vi fosse un’obbligazione tributaria in totale assenza di alcuni redditi da sottoporre a tassazione . E ciò in ragione delle prove acquisite nel giudizio penale , la cui utilizzabilità non è preclusa al giudice tributario, che su di esse può legittimamente fondare il proprio giudizio, e dal cui esame era nella specie desumibile che il Tribunale di Voghera con certezza oggettiva aveva statuito sia in sede civile che penale che il contribuente non disponeva delle fonti di reddito accertate da parte dell'ufficio tributario per una serie di raggiri e comportamenti fraudolenti, posti in essere da altri nei suoi confronti . Il mezzo erariale si vale di tre motivi. Resiste con controricorso la parte che ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. Motivi della decisione 2.1. Con il primo ed il secondo motivo di ricorso, l’Agenzia lamenta, rispettivamente, ai sensi dell’art. 360, comma primo, 4, c.p.c., nullità della sentenza per violazione degli artt. 19 e 21 D.lg. 546/92, del D.P.R. 287/92 e del DM 37/97 ed ai sensi dell’art. 360, comma primo, 3, c.p.c. errore di diritto in relazione alle medesime disposizioni normative in quanto la CTR, ritenendo impugnabile il diniego di autotutela, si era appellata alla giurisdizione del giudice tributario sussistente in materia, ancorché nella specie questa non fosse controversa, ma controversa fosse al contrario la possibilità del contribuente di aggirare la preclusione derivante dal maturare dei termini di cui all’art. 21 D.lg. 546/92, attraverso la proposizione successiva alla definitività degli avvisi di accertamento di una istanza di autotutela fondata oltre tutto su elementi che erano già conosciuti dal contribuente prima che i detti termini venissero a scadenza. 2.2. Entrambi i motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per unitarietà della censura, meritano accoglimento. Largamente dibattuto per il fatto di sfuggire, da un lato, all’elencazione degli atti impugnabili operata dall'art. 19 D.lg. 546/92 e, dall'altro, di situarsi a livello sistematico al crocevia tra giurisdizione tributaria e giurisdizione amministrativa, il tema della diretta impugnabilità del diniego di autotutela - che com'è noto si raccorda al potere che l’art. 2-quater, d.l. 564/94 convertito in L. 656/94 attribuisce all’amministrazione finanziaria al fine procedere d'ufficio all’annullamento ovvero alla revoca degli atti illegittimi o infondati - ha trovato una stabile composizione a seguito del duplice pronunciamento delle SS.UU che ne hanno tracciato le coordinate di principio alla luce delle novità ordinamentali introdotte nella giurisidizione tributaria dall’art. 12, comma 2, L. 448/01. La norma, che ha modificato l'originario tenore dell’art. 2 D.Ig 546/92, prevedendo che appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio sanitario nazionale, nonchè le sovrimposte e le addizionali, le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio , con la sola esclusione dei soli atti esecutivi, ha indotto le SS.UU. a prendere atto che la giurisdizione tributaria è divenuta, nell'ambito suo proprio, una giurisdizione a carattere generale, competente ogni qual volta si faccia questione di uno specifico rapporto tributario o di sanzioni inflitte da uffici tributari, dal cui ambito restano così escluse solo le controversie in cui non è direttamente coinvolto un rapporto tributario, ma viene impugnato un atto di carattere generale art. 7, comma 5, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 , o si chiede il rimborso di una somma indebitamente versata a titolo di tributo, della quale l'amministrazione riconosce pacificamente la spettanza al contribuente 7388/07 , traendone il corollario che la novella del 2001, infatti, ha necessariamente comportato una modifica del disposto dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, perché l'aver consentito l'accesso al contenzioso tributario in ogni controversia avente ad oggetto tributi si traduce nella possibilità per il contribuente di rivolgersi al giudice tributario quando l'amministrazione manifesti, anche attraverso il silenzio rigetto, la convinzione che il rapporto tributario debba essere regolato in termini che il contribuente ritenga di contestare 16776/05 e a chiarire in prosieguo, fissando altresì i limiti di tale innovazione, che il carattere generale che occorre riconoscere alla giurisdizione tributaria in ragione del fatto che essa di radica in base alla materia indipendentemente dell'atto comporta la devoluzione alle commissioni tributarie anche delle controversie relative agli atti di esercizio dell'autotutela tributaria, non assumendo alcun rilievo la natura discrezionale di tali provvedimenti, in quanto l'art. 103 Cost. non prevede una riserva assoluta di giurisdizione in favore del giudice amministrativo per la tutela degli interessi legittimi, ferma restando la necessità di una verifica da parte del giudice tributario in ordine alla riconducibilità dell'atto impugnato alle categorie indicate dall’art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che non attiene alla giurisdizione, ma alla proponibilità della domanda e che il sindacato che per tale via si rende possibile deve riguardare, ancor prima dell'esistenza dell’obbligazione tributaria, il corretto esercizio del potere discrezionale dell'Amministrazione, nei limiti e nei modi in cui esso è suscettibile di controllo giurisdizionale, che non può mai comportare la sostituzione del giudice all'Amministrazione in valutazioni discrezionali, né l'adozione dell'atto di autotutela da parte del giudice tributario, ma solo la verifica della legittimità del rifiuto dell'autotutela , in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che consentono di procedere all’annullamento o alla revoca degli atti illegittimi o infondati 7388/07 . 2.3. Dunque alla stregua del dictum nomofilattico risultante dalle citate pronunce delle SS.UU lo stato dell'arte che si rende applicabile alla vicenda in giudizio ubbidisce a tre regole di fondo ovvero a la giurisdizione tributaria è una giurisdizione ad ampio spettro che abbraccia, indipendentemente dalla denominazione da esso assunto, qualunque atto rappresentativo di una pretesa tributaria ad eccezione di quelli che appartengono alla fase dell’esecuzione, di tal ché, risultando perciò conseguentemente modificato l'elenco degli atti impugnabili, anche il diniego di autotutela in quanto espressione di una potestà suscettibile di essere opposto avanti al giudice tributario in conformità alle norme che ne discplinano il relativo giudizio b l'impugnabilità del diniego di autotutela, proprio in ragione del fatto di poter essere fatta valere nelle forme del processo tributario, è soggetta ai limiti di proponibilità in cui la disciplina positiva del processo consente l'impugnazione degli atti tributari, sicché esso, ancorché rappresentativo di una pretesa siffatta, è impugnabile, giusta il dettato dell'art. 19, comma terzo, secondo inciso, D.lg. 546/92 solo per vizi propri c il sindacato che si richiede al giudice con l'impugnazione del diniego di autotutela, che è provvedimento che l'amministrazione nei limiti consentiti dall'ordinamento adotta sulla base di un giudizio discrezionale, esercitandosi il potere di annullamento o di revoca in funzione della riconosciuta illegittimità dell'atto ovvero della riconosciuta infondatezza della pretesa, si esplica nei limiti di un controllo inteso a verificare che l'esercizio di detto potere sia avvenuto correttamente ovvero in adesione alle norme positive che ne disciplinano l'esercizio, sicché non è consentito al giudice investito dell'opposizione travalicare i limiti propri delle sue attribuzioni e, sconfinando nella sfera delle valutazione autonome rimesse dall'ordinamento alla pubblica amministrazione, sostituirsi ad essa nel giudizio di discrezionalità. 2.4. Da queste premesse la giurisprudenza più recente ha tratto il conclusivo asserto - a cui non si sottraggono le successive pronunce delle SS.UU. in materia, attente a rivendicare i limiti della potestà giurisdizionale accordata in materia al giudice tributario sottolineando sia la discrezionalità che connota il provvedimento di diniego sia l'inammissibilità di un giudizio che investa la legittimità di un atto impositivo divenuto definitivo 2870/09 3698/09 - secondo cui è impugnabile di fronte alle Commissioni tributarie il diniego di autotutela in quanto l'attribuzione al giudice tributario di tutte le controversie in materia di tributi comporta che anche quelle relative agli atti di esercizio dell'autotutela tributaria, incidendo sul rapporto obbligatorio tributario, sono devolute al giudice indipendentemente dall’atto impugnato e dalla natura discrezionale dell'esercizio dell'autotutela tributaria. Nel giudizio instaurato contro il rifiuto di esercizio di autotutela può esercitarsi un sindacato solo sulla legittimità di rifiuto e non sulla fondatezza della pretesa tributaria SS.UU. 9669/09 3442/15 25524/14 11457/10 . 2.5. Stando a questo quadro di indirizzo è dunque di palmare evidenza l'errore di giudizio in cui è caduta la CTR nel ritenere che il diniego di tutela opposto nella specie dall'amministrazione al resistente fosse da essa sindacabile puramente e semplicemente, ad onta del fatto che il contribuente avesse impugnato detto atto non già in ragione di un vizio intrinseco che ne inficiasse la legittimità, bensì per far valere le ragioni assolutorie che, tanto in sede civile che in sede penale, l'avevano scagionato da ogni addebito e delle quali auspicava che potesse esserne riconosciuta l'efficacia anche dal giudice tributario in rapporto ad un pregresso provvedimento impositivo divenuto da tempo definitivo. La CTR, nel determinarsi nei riferiti termini, si è invero basata su una lettura parziale e sommaria dell'enunciato di legittimità, assumendo che la riconosciuta sindacabilità del diniego di autotutela l'autorizzasse a rivedere il fondamento della pretesa a suo tempo non opposta e che alla valutazione negativa dell'amministrazione potesse sostituirsi la propria. In tal modo essa è venuta a disattendere entrambi i corollari che, secondo il diritto vivente, si ritraggono da quell'enunciato ammettendo a giudizio un'istanza che, in difetto di vizi propri dell'atto, sarebbe andata incontro ad una scontata pronuncia di inammissibilità e travalicando i limiti della sua potestà in quanto solo l'amministrazione nella sua discrezionalità avrebbe potuto annullare o altrimenti revocare un atto impositivo non più opponibile. 3.1. Con il terzo motivo del proprio ricorso l'Agenzia si duole ex art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. della violazione e falsa applicazione di legge in cui la CTR sarebbe incorsa in relazione agli art. 654 c.p.p. e 116 c.p.c., poiché, richiamando quanto al merito delle proprie statuizione le sentenze emesse dal Tribunale civile e penale di Voghera , ha ritenuto di poter attribuire automatica prevalenza alle risultanze del giudizio penale , in particolare attribuendo efficacia di giudicato ai fatti accertati o esclusi dal giudice penale e ritenendo che tali elementi facessero piena prova nel giudizio tributario e dunque dovessero prevalere rispetto agli indizi e alle diverse risultanze emersi nel giudizio tributario . 3.2. II motivo è da reputarsi assorbito in ragione di quanto statuito con riguardo ai primi due motivi di ricorso. Va da sé, infatti, che se per quanto innanzi statuito il diniego di autotutela, impugnato dal B. ed annullato dalla CTR, non poteva essere opposto in quanto la proposta impugnazione, non rappresentando vizi propri dell'atto ed intendendo unicamente far valere nei confronti di un precedente atto impositivo divenuto definitivo gli effetti liberatori delle sentenze pronunciate in sede civile e penale in ordine ai medesimi fatti, fuoriusciva manifestamente dal perimetro in cui il diritto vivente ne ammette I'esperibilità, il giudice d’appello non ne avrebbe dovuto sindacare la legittimità alla luce dell'intervenuto giudicato penale, ma avrebbe dovuto arrestare la sua cognizione in limine litis prendendo atto e dichiarando che la spiegata impugnativa era inammissibile. 4. Accolti dunque i primi due motivi di ricorso ed assorbiti il terzo, la sentenza impugnata andrà conseguentemente cassata e la causa, non appalesandosi necessari ulteriori accertamenti di fatto, potrà essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384, comma secondo, c.p.c. mediante il rigetto del ricorso introduttivo. 5. Spese alla soccombenza in questo giudizio e compensate quanto ai gradi di merito in considerazione del non univoco tenore del quadro di riferimento giurisprudenziale. P.Q.M. Accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso, dichiara assorbito il terzo, cassa l'impugnata sentenza e, decidendo nel merito, respinge il ricorso introduttivo condanna parte resistente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5000,00= oltre alle somme prenotate a debito e agli eventuali accessori e compensa le spese di merito.