La messa in mora non basta a sconfessare l'atto impositivo

È valido l'accertamento parametrico, anche in tempi di grave insolvenza da parte degli enti pubblici, pure se il contribuente non ha riscosso i crediti dalla pubblica amministrazione. L'atto di diffida e la messa in mora prodotte nel contraddittorio con l'ufficio delle imposte sono insufficienti a sconfessare l'atto impositivo.

Va confermato l'accertamento nei confronti di un contribuente per maggiori ricavi accertati dalle Entrate, anche se questi non ha incassato i crediti dalla pubblica amministrazione. Tale principio è stato statuito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 23994 del 23 ottobre 2013. Il caso. La controversia verteva sui maggiori ricavi accertati dall'ufficio per i quali il contribuente, già previamente invitato al contraddittorio nella fase endoprocedimentale, aveva addotto di non averli realmente incassati nell'anno di imposta oggetto dell'accertamento. Il contribuente adduceva di non aver percepito, nell'anno di imposta per il quale si era provveduto all'accertamento, i maggiori importi che contestava il fisco. Il giudice del gravame, ha respinto l’appello del fisco poiché il contribuente aveva dimostrato con la produzione di un atto di diffida e messa in mora del 21 settembre 2001 diretto alla AUSL di Frosinone, di non aver percepito da detto Ente compensi quanto all’anno 1998 per euro 226.288.356. La Suprema Corte, rigettando gli altri, ha accolto il terzo motivo del ricorso del fisco per vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. della sentenza impugnata, atteso che il vizio di omessa motivazione sussiste quando nella motivazione non sia chiaramente illustrato il percorso logico seguito per giungere alla decisione e non risulti comunque desumibile la ragione per la quale ogni contraria prospettazione sia stata disattesa. Secondo gli Ermellini il giudice del gravame doveva meglio precisare quale era l'ammontare del reddito accertato dall'amministrazione finanziaria e quale l'entità dello scostamento rilevato rispetto alla dichiarazione del contribuente, al fine di chiarire perché le giustificazioni offerte dal professionista, in ordine alla mancata percezione di compensi, fossero congrue e costituissero idonea prova contraria. Infatti, a fronte di una pretesa fiscale fondata su di una prova per presunzione, il contribuente, per resistere, deve contrastare tale prova e quindi, a questo fine, ha l'onere di dimostrare un fatto, positivo, vale a dire la percezione del reddito in un periodo diverso da quello ritenuto, sulla base di un preciso riferimento probatorio, dall'Amministrazione, ovvero la esistenza di impedimenti alla percezione o comunque di fattori idonei a impedire l'incasso tempestivo dei compensi . Il vizio di omessa motivazione della sentenza. Il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall'art. 360, comma 1, c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l'esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Il giudice di legittimità non ha il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Il vizio di omessa, insufficiente o contraddittorietà della motivazione sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito si possa rinvenire traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto alla base della decisione. Il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., quando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo ragionamento Cass. n. 16697/2013 .

Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza 9 novembre 2012 - 23 ottobre 2013, n. 23994 Presidente Pivetti – Relatore Iofrida Svolgimento del processo Con sentenza n. 479 del 5/7/2007, depositata in data 27/8/2007, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio Sez. 40 respingeva, con compensazione delle spese di lite, l'appello proposto, in data 13/1/2006, da Agenzia delle Entrate Ufficio di Cassino, avverso la decisione n. 132/4/2005 della Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone che aveva accolto il ricorso avanzato da N. M. avverso l'avviso di accertamento n. RC07000009, notificato il 17/5/2003, relativo ad IRPEF, IVA, IRAP anno 1998, con il quale, applicando i parametri di cui all'articolo 3 comma 181 L.549/1995, veniva accertato il maggior reddito di lavoro autonomo del contribuente. La Commissione Tributaria Regionale respingeva il gravame dell'Ente impositore, in quanto rilevava che, da un lato, erano fondati i rilievi mossi dalla C.T.P. alla motivazione dell'avviso di accertamento, carente in punto di iter logico adottato per la determinazione dei compensi omessi e delle consequenziali rettifiche dei volumi di affari e del reddito di lavoro autonome dichiarato e, dall'altro lato, il contribuente aveva offerto adeguata prova contraria all'accertamento induttivo dell'Agenzia delle Entrate, in particolare dimostrando, con la produzione di un atto di diffida e messa in mora in data 21/9/2001 diretto alla AUSL di Frosinone, di non avere percepito da detto Ente compensi, quanto all'anno 1998, per £ 226.288.356. Avverso tale sentenza ha promosso ricorso per cassazione l'Agenzia delle Entrate, deducendo tre motivi di ricorso per cassazione, per violazione di legge, ex articolo 360 n. 4 c.p.c. Motivo 1, in relazione agli articolo 132 c.p.c. e 36 d.lgs. 546/1992, non essendo stata nella sentenza ricostruita la fattispecie concreta ed i tratti essenziali della lite e n. 3 c.p.c. Motivo 2, in relazione agli articolo 42 DPR 600/1973, 3, comma 181, L.549/1995, in combinato disposto con l'articolo 2728 c.c. e 2697 c.c., non avendo il giudice tributario riconosciuto il valore di presunzione legale ai parametri presuntivi di reddito applicati nell'accertamento, a seguito di contraddittorio correttamente instaurato con il contribuente , e per vizio motivazionale, ex articolo 360 n. 5 c.p.c. Motivo 3, non avendo il giudice tributario dato adeguatamente conto delle ragioni in fatto che lo hanno condotto a ritenere non sufficientemente motivato l'avviso di accertamento ed infondata la pretesa tributaria . Non ha resistito il resistente con controricorso. Motivi della decisione Il primo motivo di ricorso, inerente un error in procedendo per violazione degli articolo 132 c.p.c. e 36 d.lgs. 546/1992, stante la carenza, nella sentenza impugnata, della ricostruzione della fattispecie concreta e dei tratti essenziali della lite, è infondato, essendo sufficiente, ai fini delle norme procedurali richiamate dalla ricorrente, l'esposizione del fatto controverso effettuata attraverso la sintesi dei contenuti ricorso e della sentenza della C.T.P., comunque riportati nella decisione della C.T.R. qui impugnata. Con il secondo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate denuncia, sotto il vizio di violazione di legge della sentenza impugnata, la non corretta applicazione della L. n. 549 del 1995, articolo 3, comma 181 ss., D.P.R. n, 600 del 1973, articolo 39, articolo 2697 e 2727 c.c. affermando essenzialmente che il valore presuntivo dei parametri determini un inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, il quale dovrà provare le ragione del suo mancato adeguamento ai limiti previsti dallo strumento accertativo. Il ricorso non è fondato. Questa Corte ha chiarito che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati - meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività - ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell'accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest'ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e dì contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l'esclusione dell'impresa dall'area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell'attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell'atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell'applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L'esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell'accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l'applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall'ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l'accertamento sulla sola base dell'applicazione degli standards , dando conto dell'impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all'invito cfr. Cass. S.U. 26635/2009, Cass. 12558/2010, Cass.12428/2012, Cass.23070/2012 . In termini di onere della prova, nella citata sentenza delle Sezioni unite, si è affermato, schematicamente, che l’onere della prova è così ripartito a all'ente impositore fa carico la dimostrazione dell'applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto dell'accertamento b al contribuente fa carico la prova della sussistenza di condizioni che giustificano 1'esclusione dell'impresa dall'area dei soggetti cui possano essere applicati gli standard o della specifica realtà dell'attività economica nel periodo di tempo cui l'accertamento si riferisce . Come successivamente precisato ulteriormente da questa Corte, in una recente pronuncia Cass.3312/2011 , il fine e l'effetto del principio dì diritto affermato delle Sezioni Unite è stato quello di porre in luce l'importanza del contraddittorio, non solo nel processo ma anche nella realtà, quale strumento principale di verificazione o falsificazione della corrispondenza tra realtà e sua rappresentazione, in quanto proprio in sede di contraddittorio - il quale può avvenire già in fase amministrativa, ma anche e soprattutto nel giudizio - il contribuente potrà in primo luogo dedurre e dimostrare che i parametri utilizzati sono in sé erronei perché sono basati su elementi fattuali non corrispondenti alla realtà o su criteri di elaborazione e di inferenza illogici e potrà quindi chiedere l'annullamento del provvedimento che li ha approvati ovvero dedurre e dimostrare che l'Ufficio impositore è incorso in errore operativo nell'applicare i parametri alla sua realtà ovvero ancora dedurre o l'estraneità della propria attività rispetto alla tipologia alla quale quei parametri intendono riferirsi o la sussistenza, nella propria attività di caratteri per cosi dire anormali, cioè di elementi che la diversificano rispetto a quelle in riferimento alle quali è stata individuata la normalità reddituale. Ove il contribuente, pur essendo stato messo in condizione di dedurre, nulla dice, legittimamente l'Ufficio impositore prima e il giudice poi non avranno elementi per escludere che l'attività in questione sia un'attività normale ed abbia quindi una redditività normale ove il contribuente prospetti invece la sussistenza di circostanze di fatto, tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, spetterà all’ufficio prima e al giudice poi valutare in primo luogo se tali circostanze sono vere e poi se esse possono essere effettivamente idonee a giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe normale e quindi presuntivamente vero in assenza di esse . In sostanza, i parametri previsti dall'articolo 3, commi da 181 a 187, l. 28 dicembre 1995 n. 549, rappresentando la risultante dell'estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rivelano valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell'Ufficio del1'accertamento analitico-induttivo ex articolo 39, comma 1, lett. d, DPR 29 settembre 1973 n. 600, e, soltanto ove siano stati contestati, in sede di contraddittorio con il contribuente, sulla base di allegazioni specifiche, sono inidonei a supportare da soli l'accertamento medesimo, se non confortati da elementi concreti desunti dalla realtà economica dell'impresa. Nella fattispecie, pur vertendosi in ipotesi nella quale, come si evince dal ricorso, il contribuente aveva risposto all'invito dell'Ufficio impositivo al contraddittorio, il ricorso dell'Agenzia delle Entrate sostiene, al contrario, la sufficienza del solo scostamento dei redditi dichiarati rispetto a quelli risultanti dall'applicazione dei parametri ai fini della legittima rideterminazione del reddito del contribuente, attribuendo esclusivamente a quest'ultimo ogni onere probatorio. Il che non è corretto alla luce dei principi di diritto espressi da questa Corte a Sezioni Unite. Il terzo motivo, involgente vizio di motivazione, è invece fondato. Invero, poiché la controversia verteva sui maggiori ricavi accertati dall'Ufficio per i quali il contribuente, già previamente invitato al contraddittorio nella fase endoprocedimentale, aveva addotto di non averli realmente incassati nell'anno di imposta oggetto dell'accertamento 1998 , il giudice tributario doveva meglio precisare quale era l'ammontare del reddito accertato dall'Ufficio e quale l'entità dello scostamento rilevato rispetto alla dichiarazione del contribuente, al fine di ben chiarire perché le giustificazioni offerte dal contribuente, in ordine alla mancata percezione di compensi nell'anno 1998, fossero congrue e costituissero idonea prova contraria. Infatti, a fronte di una pretesa fiscale fondata su di una prova per presunzione nella specie, in primis, un credito del contribuente da compenso per prestazione professionale , il contribuente, per resistere, deve contrastare tale prova e quindi, a questo fine, ha l'onere di dimostrare un fatto, positivo, vale a dire la percezione del reddito in un periodo diverso da quello ritenuto, sulla base di un preciso riferimento probatorio, dalla Amministrazione, ovvero la esistenza di impedimenti alla percezione o comunque di fattori idonei ad impedire l’incasso tempestivo dei compensi Cass.Trib. 1508/1990 . Invece, nella sentenza impugnata, si legge soltanto che, da un lato, andava confermata la censura mossa dalla CTP alle carenze di motivazione dell'atto impugnato e, dall'altro, il contribuente aveva allegato al ricorso copia di un atto di diffida e messa in mora in data 21/9/2001 con il quale egli aveva richiesto alla AUSI di Frosinone il pagamento di compensi per un importo complessivo di £ 1.266.367.306 di cui £ 226.188.356 relative all'anno 1998 . Giova ribadire che il vizio di omessa motivazione sussiste quando nella motivazione non sia chiaramente illustrato il percorso logico seguito per giungere alla decisione e non risulti comunque desumibile la ragione per la quale ogni contraria prospettazione sia stata disattesa. Il ricorso deve essere pertanto accolto, quanto al terzo motivo, vizio motivazionale ex articolo 360 n. 5 c.p.c., rigettati gli altri, e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della CTR del Lazio, che procederà a nuovo esame, sulla base dei principi di diritto sopra esposti, e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. Rigetta il primo ed il secondo motivo del ricorso, accoglie il terzo motivo, cassa la sentenza impugnata, con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra Sezione della Commissione Tributaria del Lazio.