Le sanzioni amministrative sono applicabili in caso di abuso del diritto?

In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che trova fondamento nell’art. 37 bis, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600.

Il caso. Una s.r.l. impugnava gli avvisi di liquidazione con i quali l’Amministrazione finanziaria pretendeva maggiori imposte di registro, ipotecaria e catastale. La rettifica, fondata sulla riqualificazione di una sequenza di contratti mutuo, costituzione di società di capitali, cessione delle quote sociali , era ritenuta legittima dalla Commissione Tributaria Provinciale adita. La Commissione Tributaria Regionale confermava la pronuncia impugnata, richiamando la giurisprudenza di legittimità in materia di abuso del diritto. Nell’ordinanza n. 2234/2013, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione rigetta il ricorso della società contribuente, con condanna alle spese. Nel ricorso per cassazione, la società contribuente lamentava – tra l’altro – la violazione degli artt. 3, comma 1, e 6, comma 2, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. Dal richiamo delle disposizioni menzionale si arguisce che, secondo l’impostazione difensiva, il Giudice del gravame, confermando la debenza delle sanzioni amministrative in una fattispecie in cui la condotta non contrastava con specifiche e tassative disposizioni sanzionatorie, ma con un principio generale il divieto di abuso del diritto , ha leso il principio di legalità e la disciplina che esclude la punibilità del contribuente in caso di obiettiva incertezza normativa. Per la Suprema Corte, anche l’abuso del diritto deve essere sanzionato. Nell’ordinanza in rassegna, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione dichiara l’infondatezza del motivo di ricorso con il quale era contestata la debenza delle sanzioni amministrative. Il Collegio argomenta tale scelta riproducendo la massima ufficiale relativa alla sentenza del 30 novembre 2011, n. 25537 In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che trova fondamento nell’art. 37 bis, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, secondo il quale l’Amministrazione finanziaria disconosce e dichiara non opponibili le operazioni e gli atti, privi di valide ragioni economiche, diretti solo a conseguire vantaggi fiscali, in relazione ai quali gli organi accertatori emettono avviso di accertamento, applicano ed iscrivono a ruolo le sanzioni di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, comminate dalla legge per il solo fatto di avere il contribuente indicato in dichiarazione un reddito imponibile inferiore a quello accertato, rendendo così evidente come il legislatore non ritenga gli atti elusivi quale criterio scriminante per l’applicazione delle sanzioni, che, al contrario, sono irrogate quale naturale conseguenza dell’esito dell’accertamento volto a contrastare il fenomeno l’abuso del diritto . La sanzionabilità dell’abuso del diritto nasce da una massima tralatizia. L’ordinanza in rassegna si segnala per aver affermato la sanzionabilità delle condotte elusive contrastanti con il divieto dell’abuso del diritto. A mio sommesso avviso, tale posizione nasce soltanto da una lettura quantomeno affrettata della massima sopra enunciata l’analisi dell’arresto richiamato può contribuire a smorzare gli effetti – potenzialmente dirompenti – che la presa di posizione della Sesta Sezione potrebbe produrre a detrimento dei contribuenti. Nella sentenza n. 25537/2011, richiamata in motivazione, la Sezione Tributaria ha statuito che le sanzioni amministrative possono essere comminate nei confronti del contribuente soltanto quando egli ponga in essere condotte elusive osteggiate da specifiche disposizioni di legge, mentre ciò non è possibile qualora sia violato il principio generale antielusivo di matrice pretoria dell’abuso del diritto cfr. Cass., sez. unite civ., 23 dicembre 2008, nn. 30055, 30056 e 30057, in bancadati DeJure . La medesima conclusione è stata raggiunta in ambito penale nella sentenza del 28 febbraio 2012, n. 7739, relativa al caso Dolce e Gabbana. Il Supremo Collegio si è quindi limitato a rilevare l’esistenza di indizi normativi sulla punibilità delle sole condotte elusive ex art. 37 bis , d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, identificando nell’art. 1, comma 2, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 il fondamento normativo chiaro ed univoco delle sanzioni amministrative cfr. Corte di giustizia, 14 dicembre 2000, causa C-110/99, Emsland-Stärke , in Racc. , 2000, I-11569, § 56 Corte di giustizia, Grande sezione, 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax , ibidem , 2006, I-01609, § 93 . In motivazione si legge che la richiamata disciplina sanzionatoria non considera [ ] quale criterio scriminante la violazione della legge o la sua elusione o aggiramento, essendo necessario e sufficiente che le voci di reddito evidenziate nella dichiarazione siano inferiori a quelle accertate o siano indebite aggettivo espressamente menzionato nel 1° comma dell’art. 37 bis cit. In sostanza le sanzioni si applicano per il solo fatto che la dichiarazione del contribuente sia difforme rispetto all’accertamento. [ ] Presupposto [ ] è il dato non contestato della diretta applicabilità alla fattispecie dell’art. 37 bis in relazione all’oggetto dell’accertamento . Costituisce verosimilmente un obiter dictum l’inciso nel quale il Giudice di legittimità nega invece l’applicabilità delle sanzioni amministrative a fronte della violazione non di una precisa disposizione di legge ma di un principio generale, quale quello antielusivo ritenuto immanente al sistema anche anteriormente alla introduzione di una normativa specifica , per violazione dei principi di legalità e tassatività delle sanzioni, nonché – verrebbe da soggiungere – per lesione del principio di irretroattività, se la sanzione fosse riferita a condotte anteriori all’elaborazione pretoria del meccanismo antielusivo. Una via di fuga per il contribuente l’obiettiva incertezza normativa. A ciò si aggiunga che, nelle pronunce anteriori, il Giudice di legittimità si era limitato a riconoscere la fondatezza della domanda di disapplicazione delle sanzioni amministrative in presenza di obiettive condizioni d’incertezza, nel cui ambito è stata ritenuta riconducibile la violazione di un principio di ordine generale come l’abuso di diritto così Cass., sez. trib., 25 maggio 2009, n. 12042, nonché Cass., sez. trib., 19 maggio 2010, n. 12249, entrambe in bancadati DeJure . La lettura dell’ordinanza in commento lascia intendere che la difesa della società contribuente era fondata proprio sui principi enunciati dal Giudice di legittimità nei precedenti appena richiamati ciononostante, le doglianze esposte nel ricorso per cassazione non sono state accolte dalla Sesta Sezione.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – T, ordinanza 19 dicembre 2012 - 30 gennaio 2013, n. 2234 Presidente Cicala – Relatore Di Blasi Fatto e diritto La società T.B. srl ricorre contro l'Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, confermando la sentenza di primo grado, ha respinto il suo ricorso avverso gli avvisi di liquidazione relativi alle imposte di registro, ipotecaria e catastale pretese dall'Agenzia delle entrate in relazione alla pluralità di atti di seguito descritta, unitariamente considerati dall'Ufficio alla stregua di un solo atto di vendita di un compendio immobiliare del valore di € 1.501.000 dal sig. M.G. alla società T.B. srl - in data 14.12.04, stipula tra il sig. G. ed una banca di un contratto di mutuo fondiario, garantito da ipoteca sul suddetto compendio immobiliare, in forza del quale il primo riceveva dalla seconda la somma di € 1.500.000 - in data 28.12.04, costituzione tra il sig. G. ed altre tre persone fisiche della società a responsabilità limitata T.B., la quale si accollava il mutuo del sig. G. ed alla quale costui conferiva il predetto compendio immobiliare ipotecato, in tal modo acquisendo la quota societaria € 1.000 pari alla differenza tra il valore dell'immobile conferito e l'importo del mutuo sul medesimo gravante - in data 31.12.04, cessione dal sig. G. ad uno degli altri soci della quota sociale da lui detenuta e conseguente uscita dello stesso G. dalla compagine sociale. La Commissione Tributaria Regionale, richiamandosi alla giurisprudenza di legittimità in materia di abuso di diritto, ha ritenuto fondato l'assunto dell'Ufficio secondo cui i tre atti sopra descritti tendevano a realizzare non un lecito risparmio d'imposta, bensì un regime formalmente legittimo ma implicitamente riprovato dal sistema fiscale così pagina 6, rigo 10, della sentenza . Il ricorso della contribuente si fonda su tre motivi. Con il primo motivo si denuncia il vizio di ultrapetizione in cui sarebbe incorso il giudice di merito fondando la propria decisione su una disposizione - l'articolo 21 d.p.r. 131/86 - non richiamata né negli atti impositivi impugnati né nella sentenza di prime cure. Il motivo è infondato perché il giudice di secondo grado, richiamando, nello sviluppo del proprio ragionamento giuridico, la disposizione di cui all'articolo 21 d.p.r. 131/86, non ha invocato un principio estraneo alla causa petendi degli avvisi di liquidazione impugnati - vale a dire la funzione elusiva, volta al conseguimento di un indebito vantaggio tributario, dei tre atti negoziali collegati posti in essere dal signor G. dal 14 al 31 dicembre 2004 si veda in particolare il paragrafo d dell'avviso di liquidazione, debitamente trascritto, in ottemperanza all'onere di autosufficienza, a pag. 4 del ricorso per cassazione - ma ha semplicemente arricchito e completato, col richiamo alla disciplina della tassazione degli atti contenenti più disposizioni fissata dal secondo comma dell'articolo 21 d.p.r. 131/86, la tesi della prevalenza della sostanza sulla forma ex art. 20 d.p.r. 131/86, sviluppata negli atti impositivi, condivisa dal primo giudice e richiamata nella stessa sentenza gravata a pag. 5, rigo 14 dei MOTIVI . Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell'articolo 53 della costituzione in cui sarebbe incorsa la sentenza gravata ravvisando la fattispecie di abuso del diritto pur mancando il presupposto dell'antieconomicità delle operazioni poste in essere dal signor G. secondo la ricorrente, infatti, le operazioni realizzate dal signor G. sarebbero state vantaggiose tanto per lui perché attraverso l'accensione di un mutuo ipotecario egli aveva ricevuto disponibilità liquide che verosimilmente non avrebbe potuto ottenere dalla società conferitaria degli immobili quanto per la società T.B. srl, che aveva potuto acquistare la proprietà di un immobile pagandone il corrispettivo con i tempi dilazionati di un mutuo fondiario. Il motivo è inammissibile perché muove una censura di violazione di legge all'apprezzamento operato dalla giudice di merito in ordine alla sussistenza, nella specie, degli elementi integrativi dell'abuso del diritto apprezzamento che, risolvendosi in un giudizio di fatto, sarebbe stato censurabile solo sotto il profilo del vizio di motivazione. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli articoli 3, primo comma, e 6, secondo comma, D.Lgs. 472/97, in cui il giudice di merito sarebbe incorso non escludendo l'irrogazione delle sanzioni in una ipotesi, quale quella di specie, in cui il comportamento della contribuente non contrasta con specifiche e tassative disposizioni sanzionatone, ma con un principio generale, quale quello del divieto di abuso del diritto. Il motivo deve giudicarsi infondato perché questa Corte ha di recente chiarito - con la sentenza 25537/11 resa con riferimento a sanzioni irrogate per il minor versamento di imposte dirette ed IVA, ma evidentemente riferibile al minor versamento di qualunque tipo di imposta che ai fini dell'applicazione delle sanzioni è irrilevante se il minor versamento deriva da una violazione, oppure da una elusione, di norme impositive In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che trova fondamento nell'art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, secondo il quale l'Amministrazione finanziaria disconosce e dichiara non opponibili le operazioni e gli atti, privi di valide ragioni economiche, diretti solo a conseguire vantaggi fiscali, in relazione ai quali gli organi accertatori emettono avviso di accertamento, applicano ed iscrivono a ruolo le sanzioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, comminate dalla legge per il solo fatto di avere il contribuente indicato in dichiarazione un reddito imponibile inferiore a quello accertato, rendendo così evidente come il legislatore non ritenga gli atti elusivi quale criterio scriminante per l'applicazione delle sanzioni, che, al contrario, sono irrogate quale naturale-conseguenza dell'esito dell'accertamento volto a contrastare il fenomeno l'abuso del diritto. . Si propone il rigetto del ricorso. che l'Agenzia delle entrate è costituita con controricorso che la relazione è stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata alle parti costituite che non sono state depositate memorie difensiva. Considerato che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide le argomentazioni esposte nella relazione, non inficiate dalle considerazioni svolte nella discussione orale del difensore della ricorrente che pertanto, riaffermati i principi sopra richiamati, il ricorso va rigettato che le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente a rifondere all'Agenzia delle entrate le spese del giudizio di cassazione, che liquida in € 2.500 per onorari, oltre spese prenotate a debito