Aziende vicino alle case? Sì, se le loro immissioni non creano nocumento

L’ordinamento non vieta in assoluto che un’industria per l’attività di disosso e lavorazione della macellazione sia esercitata nell'abitato o vicino allo stesso , allorché si provi che il suo esercizio non rechi nocumento alla salute del vicinato.

Le immissioni dell’azienda non devono essere nocive, ma se il parere dell’Azienda per i servizi sanitari è negativo, il Comune non può discostarsene, a meno di un’adeguata motivazione. Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 6616/2011 depositata il 15 dicembre. Due le classi in cui vengono elencate le fabbriche che producono esalazioni. L’art. 216 r.d. n. n. 1265/1934 recante approvazione del testo unico delle leggi sanitarie così dispone Le manifatture o fabbriche che producono vapori, gas o altre esalazioni insalubri o che possono riuscire in altro modo pericolose alla salute degli abitanti sono indicate in un elenco diviso in due classi. La prima classe comprende quelle che debbono essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni la seconda quelle che esigono speciali cautele per la incolumità del vicinato. Questo elenco, compilato dal consiglio superiore di sanità, è approvato dal Ministro della sanità, sentito il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, e serve di norma per l'esecuzione delle presenti disposizioni. Le stesse norme stabilite per la formazione dell'elenco sono seguite per iscrivervi ogni altra fabbrica o manifattura che posteriormente sia riconosciuta insalubre. Una industria o manifattura la quale sia inscritta nella prima classe, può essere permessa nell'abitato, quante volte l'industriale che l'esercita provi che, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, il suo esercizio non reca nocumento alla salute del vicinato. Chiunque intende attivare una fabbrica o manifattura compresa nel sopra indicato elenco, deve quindici giorni prima darne avviso per iscritto al sindaco, il quale, quando lo ritenga necessario nell'interesse della salute pubblica, può vietarne l'attivazione o subordinarla a determinate cautele. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa da lire 40.000 a lire 400.000. . Distanze derogate se l’attività non reca nocumento. Come si rileva, il comma 5 della citata disposizione non vieta in assoluto che una industria o manifattura del genere di quelle all’esame del Collegio sia esercitata nell'abitato allorché si provi che il suo esercizio non rechi nocumento alla salute del vicinato. Peraltro la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è spinta in passato ancora oltre, ed è pervenuta alla significativa affermazione per cui l'art. 216 r.d. 27 luglio 1934 n. 1265, nel prescrivere che le industrie insalubri di prima classe devono essere isolate dalle campagne e tenute lontane dall'abitazione, non fissa specifiche distanze. Ciò significa che se il titolare dimostra che, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, l'esercizio dell'attività non reca nocumento alla salute del vicinato, le distanze eventualmente prescritte dal p.r.g. possono essere derogate. Consiglio Stato, sez. V, n. 6648/2004 . Il caso. La questione posta all’esame della Sezione è relativa ad un diniego del Comune alla realizzazione di un opificio, sulla base del parere negativo espresso dall’Asl ed annullato per carenza assoluta di motivazione dal Giudice di primo grado. A tale proposito il Collegio esprime alcune rilevanti considerazioni. La prima è che, in via di principio, l’amministrazione comunale mantiene proprie potestà in subiecta materia e potrebbe motivatamente discostarsi dalle determinazioni rese dall’Autorità sanitaria, anche se il consolidato orientamento giurisprudenziale Consiglio Stato, sez. V, n. 1794/2005 Sezione V n. 338/1996 ha costantemente affermato come gli art. 216 e 217 r.d. n. 1265/1934 conferiscono al comune ampi poteri in materia di industrie insalubri, anche prescindendo da situazioni di emergenza e dall'autorizzazione a suo tempo rilasciata, a condizione, però, che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di eliminarli Consiglio Stato, sez. V, n. 1794/2005 . A dire il vero – osserva la Sezione – nelle citate decisioni sono state esaminate situazioni speculare a quella odierna in cui, pur a fronte di una determinazione favorevole dell’autorità sanitaria, l’amministrazione comunale era addivenuta all’emissione di un’ordinanza contingibile ed urgente di natura inibitoria resa necessitata dal permanere di una grave situazione igienico-sanitaria. Il comune è obbligato a motivare la decisione solo se si discosta dal parere dell’autorità sanitaria. Affermata la persistenza di discrezionalità valutativa del comune in materia, appare ovvio che essa possa e debba riscontrarsi anche in senso inverso id est quello invocato dall’appellata società, ampliativo rispetto ad un parere negativo rilasciato dall’autorità sanitaria . Ma, affermato in via di principio detto potere, è evidente che il comune che non possiede né strumenti né competenze per accertare in proprio le condizioni sanitarie di una industria insalubre possa esercitarlo – così discostandosi dal parere negativo reso dall’Autorità sanitaria - in ipotesi che configurano veri e propri casi limite e che potrebbero sinteticamente indicarsi in una compresenza di due condizioni l’assoluta insufficienza, carenza, approssimazione del parere negativo reso dall’azienda sanitaria, e la contemporanea sussistenza di allegazioni di parte – o comunque acquisite dall’amministrazione comunale - che provino oltre ogni dubbio l’inattendibilità del parere negativo e la sussistenza di comprovati elementi che escludano inconvenienti sanitari ascrivibili all’azienda. Soltanto in presenza di tale coacervo di condizioni l’amministrazione comunale potrebbe motivatamente discostarsi dal parere reso dall’autorità che ha competenza in materia e possiede le professionalità necessarie . Di converso, sottolinea la decisione, è ovvio che, laddove non si riscontrino tali condizioni, l’amministrazione comunale è tenuta ad attenersi alle prescrizioni dell’autorità sanitaria e dalle stesse non si possa discostare senza stravolgere l’ordine delle competenze e macchiare, a propria volta, di illegittimità la propria azione amministrativa. In sintesi, il Collegio ritiene che l’amministrazione comunale sarebbe tenuta ad un obbligo di stringente motivazione soltanto allorché intenda discostarsi dal parere sia esso di natura favorevole, che negativo reso dall’autorità sanitaria, mentre, laddove ne condivida gli approdi e ad essi intenda conformarsi, potrebbe semplicemente richiamarlo. Anche la CE tutela la salute dagli odori. La Sezione prende, peraltro, in esame la questione connessa alla tutela della salute dagli odori fastidiosi. Il problema delle emissioni odorigene – afferma infatti la decisione – è collegato al principio di precauzione in tema di tutela della salute umana e dell'ambiente e assurge addirittura a parametro di costituzionalità delle disposizioni di legge ordinaria mercé l'inclusione dello stesso nell'ambito dell'art. 191 del Trattato Ce e in considerazione della previsione di cui al comma 1, art. 117 Cost. Consiglio Stato , sez. VI, n. 98/2011 . Tale principio, direttamente cogente per tutte le amministrazioni, ha trovato ampio riconoscimento, ancorché sia menzionato nel trattato CE soltanto in relazione alla politica ambientale, da parte degli organi comunitari soprattutto nel settore della salute, con una valenza non solo programmatica, ma direttamente imperativa nel quadro degli ordinamenti nazionali. Tutti i soggetti pubblici, quindi, sono vincolati ad applicarlo qualora sussistano incertezze con riguardo all'esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone. In tal caso, infatti, le istituzioni comunitarie possono adottare misure di tutela senza dover attendere che siano approfonditamente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi. Detto principio generale integra, quindi, un criterio orientativo generale e di larga massima che deve caratterizzare non soltanto le attività normative, ma prima ancora quelle amministrative, come prevede espressamente l'art. 1 della legge 7 agosto 1990 n. 241, ove si stabilisce che l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta dai principi dell'ordinamento comunitario . Ne consegue che, su tale scorta, si costituisce l'obbligo da parte delle autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire rischi anche se unicamente potenziali per la salute, la sicurezza e per l'ambiente, facendo in ciò necessariamente prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali valori sugli interessi economici dei singoli cui sia fondatamente addebitabile il pregiudizio temuto ovvero già occorso. Infatti, essendo le istituzioni comunitarie e nazionali responsabili - in tutti i loro ambiti di azione - della tutela della salute, della sicurezza e dell'ambiente, la regola della precauzione può essere considerata come un principio autonomo che discende dalle menzionate disposizioni del trattato. Applicazione di sanzioni penali non è richiesta la prova di un concreto pericolo per la salute delle persone. La Sezione osserva che le emissioni inquinanti integrano reato contravvenzionale penale la costante giurisprudenza di legittimità ne ha interpretato l’ambito oggettivo in senso largamente estensivo ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 674 c.p. non è richiesta la prova di un concreto pericolo per la salute delle persone in quanto tale norma fa riferimento al concetto più attenuato di molestia ed ha costantemente affermato che esso è configurabile indipendentemente dal superamento dei valori limite di emissione stabiliti dalla legge qualora le emissioni moleste non siano una diretta conseguenza dell'attività autorizzata, ma siano dovute all'omessa attuazione degli accorgimenti tecnici idonei ad eliminarle o contenerle Cass. pen., sez. III, n. 23796/2007 . Appare poi sintomatico della correttezza della impostazione prevenzionistica dell’autorità sanitaria - e del comune che ad essa pedissequamente si adegua - l’orientamento della costante giurisprudenza di legittimità, secondo il quale la contravvenzione di cui all'art. 674 c.p. sussiste anche in presenza di rituali autorizzazioni amministrative per l'esercizio di un'attività d'impresa, ove da tale esercizio derivino esalazioni odorifere moleste alle persone, poiché l'imprenditore ha comunque il dovere di adottare tutte le misure consigliate dall'esperienza e dalla tecnica atte a evitare il disagio, fastidio o disturbo generalizzati ovvero a turbare il modo di vivere quotidiano. Né in proposito rileva che la competente autorità amministrativa abbia attestato che l'impianto non produce inquinamento atmosferico”, giacché la norma incriminatrice de qua ” non tutela il bene giuridico aria” in sé considerato, bensì le persone che possono ricevere pregiudizio diretto da eventuali emissioni, eccedenti il limite della normale tollerabilità Cass. pen., sez. III, n. 11688/1999 . La disciplina delle immissioni acustiche è valida anche per quelle odorigene? Ulteriore elemento processuale preso in considerazione dal Collegio, è quello per cui nell’area vicina all’impianto sorgevano costruzioni adibite a civile abitazione. A tale proposito viene richiamato il comma 2 dell’art. 844 del c.c. che fa riferimento al criterio della prevenzione nell’uso , ma ciò costituisce elemento meramente facoltativo a fini valutativi. Più di recente, la Cassazione ha chiarito che il principio, dettato in tema di immissioni acustiche è agevolmente traslabile a quelle odorigene. Si è affermato che In tema di immissioni, l'art. 844, comma 2, c.c., nella parte in cui prevede la valutazione, da parte del giudice, del contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, considerando eventualmente la priorità di un determinato uso, deve essere letto, tenendo conto che il limite della tutela della salute è da ritenersi ormai intrinseco nell'attività di produzione oltre che nei rapporti di vicinato, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, dovendo considerarsi prevalente rispetto alle esigenze della produzione il soddisfacimento ad una normale qualità della vita. Ne consegue che le immissioni acustiche determinate da un'attività produttiva che superino i normali limiti di tollerabilità fissati, nel pubblico interesse, da leggi o regolamenti, e da verificarsi in riferimento alle condizioni del fondo che le subisce, sono da reputarsi illecite, sicché il giudice, dovendo riconoscerle come tali, può addivenire ad un contemperamento delle esigenze della produzione soltanto al fine di adottare quei rimedi tecnici che consentano l'esercizio della attività produttiva nel rispetto del diritto dei vicini a non subire immissioni superiori alla normale tollerabilità Cass. civ., sez. II, n. 5564/2010 . Ciò si inquadra nel condivisibile orientamento Cass. civ., sez. III, n. 5844/2007 per cui l'art. 844 c.c. impone, nei limiti della normale tollerabilità e dell'eventuale contemperamento delle esigenze della proprietà con quelle della produzione, l'obbligo di sopportazione di quelle inevitabili propagazioni attuate nell'ambito delle norme generali e speciali che ne disciplinano l'esercizio. Viceversa, l'accertamento del superamento della soglia di normale tollerabilità di cui all'art. 844 c.c., comporta, nella liquidazione del danno da immissioni, sussistente in re ipsa ”, l'esclusione di qualsiasi criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell'uso, in quanto venendo in considerazione, in tale ipotesi, unicamente l'illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell'azione generale di risarcimento danni di cui all'art. 2043 c.c. e specificamente, per quanto concerne il danno alla salute, nello schema del danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 2059 c.c. .

Consiglio di stato, sez. IV, sentenza 6 – 15 dicembre 2011, n. 6616 Presidente Numerico – Relatore Taormina Fatto Con la sentenza in epigrafe impugnata, il Tribunale amministrativo regionale della Campania – sede di Salerno – ha respinto il ricorso proposto da F. F., D. F. ed A. D., volto ad ottenere l’annullamento del provvedimento del 3 settembre 2009, con cui il Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano aveva comunicato che l’intervento proposto e consistente nella realizzazione di due unità immobiliari, ubicato nel Comune di Castellabate, in zona Alano, foglio 16 particella 14 – 108 – 110, non era autorizzabile, e degli atti connessi. Erano state articolate otto censure prospettanti i vizi di violazione di legge ed eccesso di potere. Il primo giudice, premessa una dettagliata ricostruzione in ordine alle disposizioni di legge applicabili alla fattispecie, ha respinto il ricorso alla stregua di un duplice convincimento ha in primo luogo evidenziato che il punto 1.8 intitolato Zone agricole” del punto 1 Piano regolatore generale” del Titolo II Direttive – Parametri di pianificazione , allegato alla l. r. Campania del 20 marzo 1982, n. 14 Indirizzi programmatici e direttive fondamentali relative all’esercizio delle funzioni delegate in materia di urbanistica, ai sensi dell’art. 1, secondo comma, della l. r. 1 settembre 1981, n. 65” , prevedeva che Nelle zone agricole la concessione ad edificare per le residenze può essere rilasciata per la conduzione del fondo esclusivamente ai proprietari coltivatori diretti, proprietari conduttori in economia, ovvero ai proprietari concedenti, nonché agli affittuari o mezzadri aventi diritto a sostituirsi al proprietario nell’esecuzione delle opere e considerati imprenditori agricoli a titolo principale ai sensi dell’art. 12 della L. 9 maggio 1975, n. 153”. Ha in proposito chiarito che, se poteva concordarsi con la tesi per cui la detta norma assumeva una valenza chiaramente programmatica, pur tuttavia tale prescrizione risultava doppiata” dalla disciplina urbanistica sottesa, nel Comune di Castellabate, all’intervento richiesto. Ciò perché le particelle n. 14, 108 e 110 del foglio 16 del Comune di Castellabate, di proprietà degli originari ricorrenti come risultava dal certificato di destinazione urbanistica allegato al ricorso , erano comprese, secondo il P. R. G. dell’ente, in zona E3 – Territorio Rurale Agricolo, in cui erano consentiti lett. c e d gli interventi di nuova costruzione”e gli interventi di ampliamento delle costruzioni a destinazione agricola comportanti la realizzazione di un volume non superiore al 20% del volume dell’edificio principale” nella stessa zona, era altresì ammessa la realizzazione di nuove costruzioni a destinazione agricola e dei manufatti necessari alla regolazione del regime idro–geologico delle aree”. In ogni caso, la stessa disciplina urbanistica, dettata dal Comune, recava la precisazione per cui la concessione ad edificare, relativa alle a opere di ampliamento dei fabbricati esistenti a destinazione agricola” e b alle nuove costruzioni”, poteva essere rilasciata ai soli proprietari coltivatori diretti, proprietari conduttori in economia, ovvero ai proprietari concedenti, nonché agli affittuari o mezzadri aventi diritto a sostituirsi al proprietario nell’esecuzione delle opere e considerati imprenditori agricoli a titolo principale ai sensi dell’art. 12 della L. 9 maggio 1975, n. 153”. Posto che in nessuna parte del progetto, presentato per l’approvazione al Comune di Castellabate, era stata documentata la sussistenza, in capo agli originari ricorrenti, delle richiamate qualità soggettive tali da legittimare, in loro favore, il rilascio di una concessione, relativa ad una nuova costruzione”, in zona agricola, esattamente il provvedimento gravato aveva rilevato che non era stata effettuata alcuna verifica in ordine ai requisiti soggettivi del richiedente ed a quelli oggettivi. Neppure, ad avviso del Tribunale amministrativo, sussisteva la lamentata carenza istruttoria del provvedimento repressivo dell’Ente Parco in considerazione, come sostenutosi nel ricorso, che non spettava a questi sostituirsi al comune semmai, era pienamente legittimo che l’Ente Parco rilevasse la mancata verifica da parte del comune, delle condizioni soggettive ed oggettive in capo ai richiedenti necessarie, ai sensi dello strumento urbanistico vigente, per la realizzazione, in zona agricola E3, di un intervento di nuova costruzione ed era pacifico che non era stato provato neppure in sede processuale che taluno degli originari ricorrenti fosse titolare di impresa agricola”. Sotto altro profilo, non sussisteva la violazione del disposto di cui all’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990 n. 241, atteso che l’interlocutore dell’Ente Parco s’identificava non già con gli originari ricorrenti ma con il Comune di Castellabate. In ultimo, era infondata la censura di violazione del termine perentorio di giorni sessanta, stabilito dall’art. 13 della l. 6 dicembre 1991 n. 394 per l’espressione del nulla–osta da parte dell’Ente Parco, posto che, l’istanza, inerente alla realizzazione delle due unità immobiliari, era stata assunta agli atti dell’ente il 10 agosto 2009, ed il censurato diniego d’autorizzazione era stato reso il 3 settembre 2009. Gli originari ricorrenti rimasti soccombenti hanno impugnato la detta decisione criticandola sotto numerosi angoli prospettici e chiedendone l’annullamento riproponendo i motivi di censura prospettati nel mezzo di primo grado. Alla camera di consiglio del 6 dicembre 2011 la causa è stata posta in decisione. Diritto 1.Stante la completezza del contraddittorio la causa può essere decisa nel merito, tenuto conto della manifesta infondatezza dell’appello e dell’avvenuta informativa alle parti della possibilità di immediata definizione della causa. 1.1. Con i primi due motivi del ricorso in appello non si censura né la ricostruzione normativa contenuta nella sentenza gravata, né la ritenuta portata programmatica della disposizione contenuta al punto 1.8 del punto 1 del Titolo II, allegato alla l. r. Campania del 20 marzo 1982, n. 14, il cui ultimo capoverso espressamente richiamato nel provvedimento impugnato prevedeva che Nelle zone agricole la concessione ad edificare per le residenze può essere rilasciata per la conduzione del fondo esclusivamente ai proprietari coltivatori diretti, proprietari conduttori in economia, ovvero ai proprietari concedenti, nonché agli affittuari o mezzadri aventi diritto a sostituirsi al proprietario nell’esecuzione delle opere e considerati imprenditori agricoli a titolo principale ai sensi dell’art. 12 della L. 9 maggio 1975, n. 153”. Si afferma invece senza ulteriormente chiarire le ragioni di tale critica che sarebbe apodittica l’affermazione del primo giudice secondo cui anche il PRG comunale reiterava detta prescrizione con valenza, ovviamente, immediatamente precettiva . Posto che lo stralcio di interesse del PRG è stato acquisito in atti, ed ivi è dato riscontrare l’affermazione per cui la concessione ad edificare, relativa alle a opere di ampliamento dei fabbricati esistenti a destinazione agricola” e b alle nuove costruzioni”, poteva essere rilasciata ai soli proprietari coltivatori diretti, proprietari conduttori in economia, ovvero ai proprietari concedenti, nonché agli affittuari o mezzadri aventi diritto a sostituirsi al proprietario nell’esecuzione delle opere e considerati imprenditori agricoli a titolo principale ai sensi dell’art. 12 della L. 9 maggio 1975, n. 153”, appare evidente che nessun argomento di critica, collidente con il chiaro ordito precettivo ivi contenuto è accoglibile, posto che, come esattamente colto dal primo giudice, la chiara prescrizione del piano regolatore comunale non si presta ad alcun equivoco. 1.2. Stante la letterale formulazione della prescrizione, non può assumere rilievo contrario la nota n. 1554 del 21 ottobre 2010 resa dal Responsabile dell’Ufficio tecnico del comune di Castellabate, laddove si afferma che ai fini del rilascio del permesso di costruire in area agricola non è richiesto il requisito soggettivo della qualità di imprenditore agricolo professionale del richiedente. Peraltro la detta nota non risulta decisiva neppure sotto il profilo contenutistico, posto che la prescrizione del PRG non vieta che la concessione sia rilasciata ai proprietari concedenti”. Si osserva inoltre che risulta inconducente, in relazione al thema decidendi devoluto al Collegio, la produzione giurisprudenziale dell’appellante decisioni del Tribunale amministrativo regionale della Campania – Sede di Salerno – coeve a quella per cui è causa n. 256/2011 e 255/2011 . Ciò perché in dette pronunce il Tribunale amministrativo aveva preso in esame situazioni di fatto differenti da quella oggetto dell’odierno giudizio essendo stata documentata in quei giudizi, rispettivamente, la pregressa coltivazione del fondo, e la circostanza che la costruzione di cui alla richiesta concessione sarebbe stata adibita a deposito di utensili agricoli . 1.2.1. Nulla di tutto ciò risulta nel procedimento in esame, laddove non è stata documentata né la qualità di imprenditore agricolo di alcuno dei richiedenti, né la pregressa coltivazione del fondo, né l’utilizzo agricolturale dell’erigendo manufatto. Le relative censure sono pertanto certamente infondate in quanto collidono con l’inequivoco tenore della più volte richiamata prescrizione del piano regolatore comunale Zona E3 territorio rurale agricolo . 2. Nella incontestata circostanza che nessuno dei richiedenti ha mai documentato le dette qualità all’amministrazione comunale deputata al rilascio del permesso di costruire, e che quest’ultima non svolse alcuna istruttoria sul punto, occorre adesso interrogarsi sulle ulteriori connesse censure proposte avverso la decisione che ha riconosciuto la legittimità del provvedimento repressivo reso dall’Ente Parco. 2.1. Secondo la più radicale di dette doglianze, l’Ente Parco non avrebbe potuto rilevare tale carenza istruttoria, né su di essa fondare la propria determinazione repressiva tale illegittima condotta configurava un vero e proprio straripamento rispetto alle competenze ex lege assegnategli. In ogni caso l’appellata amministrazione non avrebbe potuto limitarsi ad annullare il provvedimento autorizzatorio comunale, ma avrebbe al più dovuto espletare autonoma istruttoria sul punto, richiedendo una integrazione documentale. La sentenza appellata erroneamente non avrebbe colto tali vizi. 2.1. Rileva il Collegio che, in disparte la endemica contraddittorietà intrinseca delle censure proposte, nessuna di esse appare persuasiva. 2.2. Quanto alla prima, rileva il Collegio che per pacifica giurisprudenza l'art. 13, della legge 6 dicembre 1991 n. 394 dispone che il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell'Ente Parco e che il nulla osta verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del regolamento e l'intervento sicché l'operatività della previsione dell'art. 13 non è subordinata alla previa approvazione del piano e del regolamento del parco, atteso che, in mancanza, la valutazione spettante all'Ente Parco deve fare riferimento agli atti istitutivi del parco, alle deliberazioni ed agli altri provvedimenti emanati dagli organi di gestione dell'ente, alle misure di salvaguardia, ai piani paesistici territoriali o urbanistici, i quali hanno valenza fino al momento dell'approvazione del piano del parco. 2.2.1. Rammenta il Collegio che la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato Consiglio Stato, sez. VI, 23 luglio 2009, n. 4652 ha condivisibilmente affermato che ai sensi dell'art. 2 della legge quadro sulle aree protette l. 6 dicembre 1991 n. 394 , i parchi nazionali sono costituiti da aree terrestri, fluviali, lacuali o marine che contengono uno o più ecosistemi intatti o anche parzialmente alterati da interventi antropici, una o più formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche, biologiche, di rilievo internazionale o nazionale per valori naturalistici, scientifici, estetici, culturali, educativi e ricreativi tali da richiedere l'intervento dello Stato ai fini della loro conservazione per le generazioni presenti e future . In ragione del carattere ora detto gli enti parco nazionali soddisfano, pertanto, esigenze e interessi che non sono stati intesi dal Legislatore come circoscritti, in termini essenziali, al limitato ambito regionale, in quanto dotati di rilevanza in ambito non solo nazionale, ma anche internazionale, tanto da richiedere, logicamente, a tutela degli stessi, il diretto intervento dello Stato. 2.2.2. Gli interessi tutelati dagli Enti gestori delle aree protette, quindi, già a tenore della prescrizione di legge citata non sono confinabili nel ristretto alveo delle valutazioni di compatibilità della tipologia e modalità costruttiva dei manufatti come sostenuto dall’appellante a pag. 13 del ricorso in appello . 2.3. Per altro verso, sol che si esaminino le prescrizioni contenute nel d.p.r. 5 giugno 1995 istitutivo dell’Ente Parco, è agevole riscontrare disposizioni precettive che si pongono in frontale contrasto con la tesi dell’appellante. Invero all’art. 2 è espressamente affermato che le finalità protettive si sostanziano nella a la conservazione di specie animali o vegetali, di associazioni vegetali o forestali, di singolarità geologiche, di formazioni paleontologiche, di comunità biologiche, di biotopi, di valori scenici e panoramici, di processi naturali, di equilibri idraulici ed idrogeologici, di equilibri ecologici b l'applicazione di metodi di gestione e di restauro ambientale idonei a realizzare un'integrazione tra uomo ed ambiente naturale, anche mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici ed architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali c la promozione di attività di educazione, di formazione e di ricerca scientifica, anche interdisciplinare, nonché di attività ricreative compatibili d la difesa e la ricostituzione degli equilibri idraulici ed idrogeologici.”. 2.3.1. Da ciò si ricava che il dato estetico” non è l’unico parametro entro il quale si può esercitare il sindacato dell’Ente Parco sui progetti, contrariamente a quanto sostenutosi nell’appello. 2.3.2. Sotto altro profilo, come esattamente colto dal primo giudice, gli interventi incidenti sulla zonizzazione 2 del Parco quale quello in esame trovano corrispondente referente normativo agli artt. 7 ed 8 del citato d.p.r L’art. 7, in particolare, prescrive che lett. l. anche il mutamento di destinazione d’uso di edifici esistenti è soggetto all’autorizzazione dell’Ente, mentre il successivo art. 8 comma 1 lett. b stabilisce che l'autorizzazione è rilasciata, per le opere che interessano esclusivamente le aree ricadenti nelle zone 2, entro sessanta giorni dalla ricezione della documentazione richiesta, completa in ogni sua parte tale termine potrà essere prorogato, per una sola volta, di ulteriori trenta giorni per necessità di istruttoria decorsi i predetti termini, l'autorizzazione si intende rilasciata.”. 2.4. Risultano evidenti, a questo punto della esposizione, le ragioni per cui il Collegio condivide l’iter motivazionale seguito dal primo giudice. 2.4.1. Se da un canto la carenza istruttoria riscontrata nel provvedimento autorizzatorio comunale rientrava pienamente nel parametro valutativo dell’Ente Parco, che esattamente l’ha rilevata e peraltro non risulta in alcun modo che si trattasse soltanto di una carenza formale, posto che nessuno degli appellanti ha documentato la conformità della propria situazione soggettiva, ovvero oggettiva del fondo, con le prescrizioni del PRG comunale , di converso deve affermarsi che il potere istruttorio suppletivo dell’Ente Parco ha latitudine ampiamente discrezionale, di guisa che nessuna illegittimità può discendere dal non avere quest’ultimo chiesto al Comune di integrare l’istruttoria ovvero dal non averla disposta direttamente in disparte la circostanza che neppure in corso di giudizio, lo si ripete, è stato prospettato alcun decisivo novum circa le condizioni soggettive degli appellanti e quindi la eventuale istruttoria non avrebbe potuto produrre alcun utile effetto . 3.Anche le ulteriori censure fondate sull’asserito ritardo del provvedimento repressivo e sul malgoverno della disposizione di cui all’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990 n. 241 risultano destituite di fondamento. 3.1. Quanto all’asserito ritardo nella emissione del diniego di approvazione impugnato, quarto motivo di censura è incontestabile che l’istanza inerente la realizzazione delle due unità immobiliari, era pervenuta all’Ente Parco il 10 agosto 2009, ed il censurato diniego d’autorizzazione è stato reso il 3 settembre 2009 risulta quindi pienamente rispettato il termine di 60 giorni, ed appare infondata - al limite della temerarietà- la pretesa degli appellanti di fissare il dies a quo della decorrenza di detto termine ad una data anteriore alla stessa proposizione dell’istanza e coincidente con altro giudizio, pendente innanzi al medesimo Tribunale amministrativo ed avente ad oggetto gli stessi manufatti proposto nei confronti della soprintendenza ed in cui era stato evocato e peraltro non si era costituito l’Ente Parco. 3.2. Quanto all’asserito malgoverno della disposizione di cui all’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990 n. 241, il Collegio rammenta il condivisibile orientamento ermeneutico secondo cui le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo non debbono essere applicate meccanicamente, ma solo quando sono suscettibili di apportare una qualche utilità all'azione amministrativa, nel senso di un arricchimento sul piano del merito e della legittimità, che possa derivare dalla partecipazione del destinatario al provvedimento, con la conseguenza che l'omissione del preavviso, ex art. 10- bis , legge n. 241/1990, comporta l'illegittimità del provvedimento finale solo se il soggetto non avvisato possa provare che con la sua partecipazione avrebbe potuto, anche solo eventualmente, incidere, in termini a lui favorevoli, sul provvedimento finale.” Consiglio Stato , sez. III, 11 gennaio 2011 , n. 1638 . Da ciò discende che, in carenza di elemento alcuno prospettato tale da consentire di superare il diniego incentrato sulla ravvisata carenza istruttoria e sull’assenza di requisiti legittimanti, la eventuale violazione di detta disposizione non condurrebbe all’annullamento dell’impugnato provvedimento repressivo. 3.2.1. Più radicalmente, però, si rileva che il detto preavviso non era affatto dovuto nei confronti dei richiedenti atteso che l’unico interlocutore dell’Ente Parco era l’amministrazione comunale. L'interesse pretensivo del privato al rilascio del titolo volto a consentire la modifica al bene protetto si è consumato con la statuizione sulla domanda di autorizzazione solo in tale fase può ipotizzarsi l'obbligo del preavviso di rigetto, secondo la regola recata dall'art. 10 bis, l. n. 241 del 1990, e non nel diverso procedimento di secondo grado che coinvolge il rapporto interorganico fra l’ente Parco e l'autorità locale che ha rilasciato l'autorizzazione paesaggistica peraltro, l'adempimento procedimentale di cui all'art. 10 bis, l. n. 241 del 1990 sarebbe in contraddizione con la logica del procedimento demandato all’Ente Parco in quanto il termine breve a questi concesso verrebbe ulteriormente ridotto, posto che l'eventuale impostazione negativa per le ragioni dell'istante dovrebbe maturarsi in tempo utile per effettuare la comunicazione e all'istante dovrebbe essere concesso un tempo adeguatamente lungo per formulare le proprie osservazioni. Inoltre, il richiamato art. 10 bis prevede che la comunicazione ivi disciplinata interrompa il termine per la conclusione del procedimento. Di fatto, quindi, la comunicazione di cui all'art. 10 bis metterebbe l’Ente Parco in condizione di sempre venire meno al rispetto del termine di decadenza di sessanta giorni. Il che irragionevolmente contrasterebbe con ogni regola generale di buona amministrazione artt. 3 e 97 della Costituzione . La condivisibile giurisprudenza amministrativa, pronunciandosi in ordine all’assimilabile procedimento autorizzatorio affidato alle Soprintendenze, ha affermato analogo principio Consiglio Stato, sez. VI, 10 dicembre 2010, n. 8704 , che può certamente traslarsi all’autorizzazione oggetto della cognizione del Collegio, il che vieppiù depone per la reiezione della censura. 4. Non v’è luogo a pronunciarsi in ordine agli ulteriori motivi di doglianza contenuti nel gravame, costituenti riproposizione di quelli proposti nel mezzo di primo grado ed assorbiti dal primo giudice, in quanto essi, da una canto, prospettano censure analoghe a quelle sinora esaminate e disattese e, per altro verso, non potrebbero comunque incidere sulla riscontrata illegittimità dell’autorizzazione comunale annullata. 5.Conclusivamente l’appello va respinto. 6. Gli appellanti vanno condannati in solido al pagamento delle spese processuali del presente grado di giudizio in favore dell’appellato Ente Parco, nella misura che appare equo determinare in Euro tremila/00 € 3000,00 oltre accessori di legge, se dovuti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta definitivamente pronunciando sul ricorso, numero di registro generale 5681 del 2011 come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna in solido gli appellanti al pagamento delle spese processuali del presente grado di giudizio in favore dell’appellato Ente Parco nella misura di Euro tremila/00 € 3000,00 oltre accessori di legge, se dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.