Anche il Giudice di pace deve tutelare la propria immagine

Il Giudice di pace non deve consentire alla diminuzione della credibilità della propria figura. Di conseguenza, in una causa civile, deve fare in modo che la stessa si concluda il prima possibile.

Il caso. All'esame della Sezione con la sentenza n. 6346/2011 depositata il 1° dicembre , la revoca dell'incarico a giudice di pace a seguito di una contestazione di addebiti formulata ai sensi dell’art. 17 del d.p.r. n. 198/2000 e che ha preso il via da un giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso nei suoi riguardi, di addivenire in via transattiva al pagamento di quanto a lui richiesto al pur dichiarato e solo fine di salvaguardare la propria immagine . In pratica, il pagamento doveva essere fatto prontamente proprio al fine di concludere la vicenda con la rapidità asseritamente ricercata dall’interessato, verosimilmente consapevole che la vicenda poteva assumere effetti pregiudizievoli per la credibilità e il decoro delle proprie funzioni. È necessario tutelare l'immagine. Dalla vicenda civilistica, osserva la decisione, emerge che il ritardo del pagamento ha per certo contribuito a prolungare una situazione che lo stesso interessato aveva apprezzato come non consona all’ufficio da lui ricoperto ritardo che è stato esplicitamente posto a fondamento della deliberazione adottata dal Consiglio Superiore della Magistratura. Nel proprio ricorso l'interessato si era richiamato, a giustificazione del ritardo medesimo, al principio inadimplenti non est adimplendum , ex art. 1460 c.c. principio di per sé inattaccabile e al quale egli per certo poteva richiamarsi al fine di tutelare i propri diritti, ma il cui utilizzo, proprio in dipendenza dell’assodata pervicacia dell’avversario, era sicuramente foriera di ulteriori iniziative da parte di quest’ultimo finalizzate a protrarre la situazione di conflitto fino all’esito voluto, ossia fino a che il Giudice di pace avesse per primo adempiuto all’obbligo da lui assunto in sede di giudizio civile, ed era pertanto incompatibile con il pur conclamato intento del medesimo di ripristinare con prontezza la generale e quanto mai indispensabile estimazione della propria immagine. Il diritto di difesa cum grano salis. Con ciò osserva il Collegio non si intende per certo affermare il principio per cui il magistrato – sia di ruolo, sia onorario – anche se spiacevolmente coinvolto in un giudizio civile deve soggiacere a limitazioni nell’esercizio del proprio diritto di difesa inderogabilmente garantito ad ogni cittadino dall’art. 24 Cost. ma risulta altrettanto assodato che, allorquando il magistrato medesimo abbia reputato di recedere da un contenzioso civile per certo suscettibile di determinare, ove ulteriormente coltivato, una diminuzione della credibilità della propria figura e si sia formalmente impegnato in tal senso, egli deve assumere ogni iniziativa per eliminare con prontezza ogni residua ragione del contendere. Nel caso specifico tale disponibilità non c'è stata, con conseguente e quanto mai poco commendevole trasformazione di una causa civile in una sorta di guerra personale con ben intuibile riflesso negativo sulla credibilità e affidabilità delle funzioni giudiziali svolte dall’attuale appellante. A ciascuno il suo. Sintomatico è, inoltre, l’atteggiamento del Giudice di pace, afferma la decisione, laddove pretenderebbe di dare ingresso nel giudizio disciplinare promosso nei suoi riguardi a quelle prove a fondamento dell’asserita insussistenza di suoi obblighi nei confronti della controparte che egli viceversa non ha voluto o potuto fornire nella competente sede di giudizio civile, e che pertanto ora gli sono ineludibilmente precluse. Il giudizio disciplinare, infatti, per sua intrinseca natura non può configurarsi quale sede istituzionalmente suppletiva o sostitutiva rispetto a quelle giurisdizionali, non essendo – diversamente da queste ultime – preordinata ad accertare l’avvenuta commissione di reati o ad affermare o negare la sussistenza di lesioni di diritti o di interessi legittimi, ma è essenzialmente deputata a valutare la conformità dell’operato di colui che è assoggettato alla potestà disciplinare medesima rispetto alle norme relative all’esercizio delle proprie incombenze. In tale contesto, quindi, a ragione il Consiglio Giudiziario prima, e il Consiglio Superiore della Magistratura poi, hanno respinto la richiesta del Giudice di pace decaduto dall'incarico, di introdurre elementi probatori in alcun modo più suscettibili di influire sulla propria posizione, dato che egli stesso – come detto innanzi – non aveva voluto o potuto avvalersene in sede di giudizio civile, forse anche in quanto consapevole che la rinuncia da parte del professionista legale al proprio compenso deve essere fondata su particolari e ben circoscrivibili esigenze etico-sociali giustificatrici della totale o parziale gratuità della prestazione da lui resa, salvo che la rinuncia stessa si risolva in un espediente del legale per conseguire maggiori vantaggi economici attraverso un non consentito accaparramento di affari futuri, e fermo altresì restando che la rinuncia medesima ancorché costituisca esercizio della libera autonomia normalmente consentita dall’ordinamento e non contrasti, astrattamente con effetti riprovati dall’ordinamento medesimo in via assoluta rispetto agli interessi pubblicistici in funzione dei quali il divieto altrimenti ex se si giustifica – soggiace per ciò solo a comprova rigorosa circa la sua genuinità rigorosità che, in linea di principio, mal si attaglia con l’utilizzo della registrazione di una conversazione sull’ammissibilità della prestazione professionale gratuita da parte dell’avvocato, Cass. Civ., Sez. Lav., n. 6449/1988 , se non altro in considerazione della natura di atto unilaterale abdicativo assunto dalla rinuncia medesima. La parcella giustifica il decreto ingiuntivo. A questo punto va osservato rileva il Collegio che al protrarsi della sconveniente situazione di conflitto tra il un giudice onorario e un avvocato con studio nello stesso foro in cui il giudice esercita le proprie funzioni addebitabile per parte determinante al comportamento del Giudice di pace, si è aggiunto l’ulteriore e quanto mai grave episodio costituito dall’avvenuta reiezione da parte del Giudice di pace, con motivazione definita dal Consiglio Superiore della Magistratura abnorme considerato l’importo complessivamente percepito dalla ricorrente in riferimento all’attività sostanzialmente proposta, ed in atti, nei confronti del proprio cliente, ritiene quest’ultima sufficientemente retribuita un ricorso per emissione di un decreto ingiuntivo per recupero di crediti professionali presentato da altri due legali. Sull’abnormità della motivazione non sussistono dubbi di sorta, posto che risulta ben noto che ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo assume rilievo, ai fini dell’art. 633 e ss. c.p.c., la mera esistenza della formale prova scritta del credito, espressamente riferita anche agli onorari per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborso di spese fatte da avvocati, procuratori, cancellieri, ufficiali giudiziari o da chiunque altro ha prestato la sua opera in occasione di un processo cfr. art. 633 cit. , e senza che il giudice adito possa formulare un giudizio di merito sull’entità del credito medesimo. Anche il magistrato onorario deve necessariamente essere indipendente ed equilibrato. Se così è, la stessa giustificazione fornita in sede giudiziale dall'interessato e consistente nell’allegazione del suo stato di insufficiente concentrazione conseguente all’intensa conflittualità dei suoi rapporti con l’Avv., controparte nella causa civile, risulta confessoria del riflesso negativo che i rapporti medesimi hanno avuto sullo svolgimento delle proprie funzioni giurisdizionali e tutto ciò, pertanto, rende fondato nella specie l’apprezzamento del Consiglio Superiore della Magistratura circa la sopravvenuta mancanza, in capo all’interessato, dei necessari caratteri di indipendenza e di equilibrio che devono caratterizzare il comportamento anche del magistrato onorario. Né – come rettamente evidenziato dallo stesso giudice di primo grado – possono essere ravvisate contraddizioni di sorta nella motivazione della decisione nella specie assunta dal Consiglio Superiore della Magistratura, posto che tale organo ha correttamente fatto discendere, sia pure riportandosi alle stesse considerazioni formulate dal Consiglio Giudiziario, da una condotta espressi verbis definita come palesemente inadeguata l’applicazione della sanzione della revoca delle funzioni, nel mentre un salto logico nella motivazione sussiste proprio nel presupposto parere reso dal Consiglio Giudiziario, laddove dall’affermazione della medesima inadeguatezza della condotta apoditticamente consegue l’assunto per cui, nondimeno, non sarebbero venute meno le condizioni di indipendenza, di equilibro e di prestigio alle quali è irrinunciabilmente connesso l’esercizio di qualsivoglia funzione giurisdizionale.

Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 28 giugno – 1° dicembre 2011, n. 6346 Presidente Leoni – Relatore Rocco Fatto e diritto 1.1. Il dott. A. C. è stato nominato giudice di pace presso la sede di Mestre Venezia con D.M. 19 giugno 2003 e ha iniziato a svolgere ivi le proprie funzioni in data 20 luglio 2004. In data 23 gennaio 2007 il Presidente della Corte d’Appello di Venezia ha contestato al medesimo C. la violazione dei doveri imposti ai giudici di pace dall’art. 10 della L.21 novembre 1991 n. 374 e ciò in considerazione di comportamenti suscettivi di inficiare l’indipendenza e il prestigio legato all’esercizio delle funzioni giurisdizionali con riguardo, in ispecie, a ripetuti esposti nei suoi confronti”, segnatamente riferiti comportamenti non consoni tenuti nell’esercizio delle proprie funzioni, a inadempimenti contrattuali e a denunce per ingiuria, diffamazione e calunnia. I fatti contestati erano sostanzialmente riconducibili ai seguenti due ordini di circostanze. 1.a . Sussisterebbe un presunto debito del C. nei riguardi dell’Avv. E. L.M., in ordine al quale quest’ultimo aveva chiesto e ottenuto l’emissione di un decreto ingiuntivo per ottenerne il pagamento 2.b sarebbero stati presentati esposti e denunce-querele a carico del medesimo C 2 Il C. avrebbe respinto con motivazione definita dal Consiglio Superiore della Magistratura abnorme” considerato l’importo complessivamente percepito dalla ricorrente in riferimento all’attività sostanzialmente proposta, ed in atti, nei confronti del proprio cliente, ritiene quest’ultima sufficientemente retribuita” un ricorso per emissione di un decreto ingiuntivo per recupero di crediti professionali presentato dall’Avv. M. B. e dall’Avv. C. G In data 18 aprile 2007 il Presidente della Corte d’Appello di Venezia ha quindi formulato la proposta di revoca del C. dalle proprie funzioni. Il Consiglio giudiziario costituito presso la Corte d’Appello di Venezia nella seduta dell’11 luglio 2007 - convocata in composizione integrata a’ sensi dell’art. 4 della L. 347 del 1991 - ha respinto le istanze istruttorie ivi prodotte dal C. reputandone l’ incoerenza” e ha quindi deliberato a maggioranza di proporre nei riguardi dell’incolpato l’applicazione della sanzione della censura, in quanto la lunga sequela di esposti, querele e denunce reciprocamente proposte tra l’Avv. L.M. e il Giudice di Pace C. attesta comportamenti animosi, querulomani e rancorosi che non collimano con i caratteri di indipendenza ed equilibrio che devono caratterizzare il comportamento del magistrato, seppure onorario art. 10 legge istitutiva . La dimostrazione di tale conclusione trova riscontro nella condotta palesemente inadeguata del dott. C., anche sul piano professionale, come dimostrato dai fatti esposti dagli Avvocati B. e G., ammessi e riconosciuti dallo stesso interessato” e, quindi, pur ritenendo che non sembrano venute definitivamente meno le condizioni di indipendenza, equilibrio e prestigio cui è legato l’esercizio della funzione onoraria non di meno i rilievi suddetti costituiscono comunque motivo idoneo all’applicazione della sanzione disciplinare della censura”. In difformità al surriportato parere, nella seduta del 24 ottobre 2007 il Consiglio Superiore della Magistratura ha deliberato la revoca del C. dalle funzioni di giudice di pace e, conseguentemente, con decreto dd. 16 novembre 2007, notificato il 17 dicembre 2007, il Ministro della Giustizia ha disposto l’irrogazione di tale sanzione a carico dell’interessato. 1.2. Con ricorso proposto sub R.G. 2052 del 2008 innanzi al T.A.R. per il Lazio, sede di Roma, il C. ha pertanto chiesto l’annullamento di tale decreto ministeriale, nonché di tutti gli atti presupposti e conseguenti, ivi segnatamente compresi la predetta deliberazione del Consiglio Superiore della Magistratura dd. 24 ottobre 2007, della parimenti citata delibera del Consiglio Giudiziario integrato presso la Corte d’Appello di Venezia dd. 11 luglio 2007, della nota di contestazione di addebiti dd. 23 gennaio 2000 formulata a’ sensi dell’art. 17 del D.P.R. 10 giugno 2000 n. 198 e della surriferita proposta di revoca formulata dal Presidente della Corte d’Appello di Venezia in data 18 aprile 2007. In sintesi, nel giudizio di primo grado il C. ha dedotto a Violazione dell’art. 9, comma 4, della L. 374 del 1991 e successive modiche violazione del § 4 della circolare P – 1436 dd. 21 gennaio 2000 emanata dal Consiglio Superiore della Magistratura e relativa alle incompatibilità, trasferimenti, decadenza, dispensa e sanzioni disciplinari dei giudici di pace eccesso di potere per contraddittorietà e illogicità manifeste della motivazione. Ad avviso del C. il Consiglio Superiore della Magistratura non avrebbe nella specie chiarito il motivo per cui la sanzione disciplinare della censura fosse inadeguata e, quindi, anche il motivo per cui il parere reso dal Consiglio Giudiziario dovesse essere disatteso. b Eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà della motivazione, carenza dei presupposti e ingiustizia manifesta. Secondo il C., il comportamento asseritamente animoso, querulomane e rancoroso” a lui attribuito consisterebbe nel mero esercizio del proprio diritto di difesa con riguardo agli esposti presentati nei suoi confronti dall’Avv. L.M c Eccesso di potere per difetto di istruttoria. Il C. ha rimarcato che il Consiglio Giudiziario e il Consiglio Superiore della Magistratura hanno disatteso le sue istanze istruttorie aventi ad oggetto l’acquisizione di un’audiocassetta e l’audizione di testimoni, con ciò ricusando di assumere prove idonee a chiarire i fatti contestati e a destituire di fondamento gli addebiti formulati nei suoi riguardi. 1.3. Con sentenza n. 1976 dd. 25 febbraio 2009 la Sezione I del T.A.R. per il Lazio ha respinto il ricorso, reputando in particolare che le considerazioni svolte dal Consiglio Superiore della Magistratura non erano viziate da eccesso di potere in quanto il Consiglio medesimo non aveva inteso stigmatizzare l’avvenuto esercizio, da parte del C., del proprio diritto di difesa o, comunque, il lecito esercizio di iniziative giudiziali, ma la mancanza di equilibrio che emergeva dalle relative vicende. Inoltre, ad avviso dello stesso giudice di primo grado la deliberazione assunta dal Consiglio Superiore della Magistratura non era insufficientemente motivata rispetto a quanto invece deliberato dal Consiglio Giudiziario, essendo semmai proprio tale pronuncia carente di motivazione né, sempre secondo il T.A.R., non era nella specie ravvisabile un’insufficienza istruttoria in quanto il quadro fattuale era stato congruamente rappresentato. Il giudice di primo grado ha compensato integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio. 2.1. Ciò posto, con il ricorso in epigrafe il C. impugna tale sentenza, chiedendone la riforma e deducendo al riguardo le censure qui appresso descritte. a Eccesso di potere per manifesta illogicità, contraddittorietà e irragionevolezza della motivazione, carenza di presupposti, travisamento dei fatti, carenza di istruttoria e ingiustizia manifesta. Il C. riferisce in tal senso che l’Avv. L.M. aveva chiesto e ottenuto dal Presidente del Tribunale ordinario di Venezia l’emissione di un decreto ingiuntivo nei suoi confronti per il pagamento di una prestazione professionale avanti al Tribunale di Trento relativa ad una sentenza ivi pronunciata nel 2004, e di aver presentato al riguardo sia opposizione a’ sensi dell’art. 645 c.p.c., sia una denuncia-querela nei confronti del medesimo Avv. L.M Quest’ultimo, a sua volta, ha presentato nei confronti dell’attuale appellante una serie di esposti presso l’Ordine degli Avvocati di Venezia, il Presidente del Tribunale ordinario di Venezia, il Coordinatore dell’Ufficio del Giudice di Pace di Mestre e il Consiglio Superiore della Magistratura, nonché varie denunce-querele alla Procura della Repubblica di Venezia per ingiuria, diffamazione e calunnia. Il C. ha quindi documentato che all’udienza del 14 luglio 2006 tenutasi in relazione al predetto giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo è intervenuto un accordo tra le parti per cui egli ha provveduto al pagamento alla controparte dell’importo di € 5.250,00.- con reciproco ritiro delle querele e degli esposti presentati nei riguardi dell’avversario cfr. docomma 3 di parte appellante . Il medesimo C. riferisce che, peraltro, l’Avv. L.M. non avrebbe ritirato l’esposto da lui presentato all’Ordine degli Avvocati di Venezia e che in data 22 settembre 2006 questi avrebbe pure presentato a’ sensi e per gli effetti dell’art. 410 c.p.p. opposizione all’archiviazione del procedimento penale pendente presso la Procura della Repubblica sub R.G.N.R. 899 del 2006 nel quale erano confluite a’ sensi dell’art. 11 c.p.p. tutte le querele da lui presentate. Tale opposizione è stata respinta, e per il procedimento predetto è stata pertanto disposta l’archiviazione. Il C. riferisce che in dipendenza di tali fatti egli aveva reputato di cautelarsi sospendendo il pagamento di quanto pattuito in sede di transazione, e che, a sua volta, l’Avv. Massa ha presentato un ulteriore esposto al Presidente del Tribunale di Venezia, lamentando di non aver ricevuto la somma concordata con il proprio avversario. L’Avv. L.M. ha quindi rimesso i residui esposti e querele dopo aver ricevuto il pagamento, che lo stesso C. - a sua volta - riferisce di aver eseguito in quanto stanco della vicenda” cfr. pag. 7 dell’atto introduttivo del presente grado di giudizio e, comunque, dopo aver acceduto alla predetta transazione sebbene – a suo dire – nulla fosse dovuto alla controparte e al solo fine di salvaguardare la propria immagine” cfr. ibidem, docomma 6 . Il C. reputa che, in considerazione di tutto quanto sin qui descritto, la propria condotta si è sostanziata nella presentazione di una sola querela a tutela della propria persona, e che tale iniziativa da lui assunta quale esercizio del diritto di difesa non potrebbe pertanto essere configurata nella sentenza impugnata quale comprova del comportamento che il Consiglio Giudiziario e il Consiglio Superiore della Magistratura hanno definito animoso, querulomane e rancoroso” valutazione, questa, che – a suo dire – dovrebbe essere semmai riguardare l’atteggiamento costantemente tenuto dall’Avv. L.M Per quanto attiene invece al secondo episodio, ossia la reiezione con motivazione abnorme del ricorso per decreto ingiuntivo presentato dall’Avv. B. e dall’Avv. G. per recupero di un credito personale, il C. afferma che la circostanza andrebbe ascritta a un mero errore di diritto, in ordine al quale il giudicante non dovrebbe incorrere in sanzioni. Il C., sempre a tale riguardo, rimarca che non risulterebbe l’avvenuta presentazione di altre doglianze aventi ad oggetto l’esercizio delle proprie funzioni giudiziali, e che pertanto non sarebbe ravvisabile nei suoi confronti la sopravvenuta mancanza dell’equilibrio richiesto al riguardo, viceversa affermata dal Consiglio Superiore della Magistratura nella delibera da lui impugnata. Secondo l’appellante, l’anzidetto errore di diritto sarebbe stato essenzialmente indotto dal suo stato di non elevata concentrazione conseguente ai suoi rapporti conflittuali con l’Avv. L.M b Eccesso di potere per difetto di istruttoria. Il C. deduce in tal senso che il giudice di primo grado non avrebbe erroneamente colto il vizio istruttorio pur da lui puntualmente dedotto in sede di atto introduttivo del relativo giudizio e riguardante l’omessa acquisizione di un’audiocassetta riproducente una sua conversazione con l’Avv. L.M., nel corso della quale questi avrebbe affermato che non gli avrebbe chiesto alcun compenso per la propria pregressa attività defensionale, nonché l’altrettanto omessa escussione di prove testimoniali su tale circostanza. L’appellante afferma che ciò avrebbe gravemente compromesso il proprio diritto di difesa nel procedimento conclusosi con la revoca delle proprie funzioni e che, nondimeno, secondo il T.A.R. né i testimoni indicati dal dott. C., né le registrazioni fonografiche, avrebbero potuto alterare un quadro fattuale dal ricorrente medesimo pacificamente ammesso e non contestato” cfr. pag. 7 della sentenza impugnata c Violazione dell’art. 9, comma 4, della L. 374 del 1991 e successive modiche violazione della circolare P – 1436 dd. 21 gennaio 2000 emanata dal Consiglio Superiore della Magistratura e relativa alle incompatibilità, trasferimenti, decadenza, dispensa e sanzioni disciplinari dei giudici di pace eccesso di potere per contraddittorietà, illogicità e carenza assoluta della motivazione. Il C. segnatamente contesta l’assunto del giudice di primo grado secondo cui il difetto di motivazione sarebbe riferibile non già alla deliberazione adottata nei suoi confronti dal Consiglio Superiore della Magistratura, ma al presupposto parere reso dal Consiglio Giudiziario. L’appellante si richiama in tal senso al generale canone secondo cui, se l’Amministrazione competente a definitivamente esprimersi nel procedimento intende discostarsi dai pareri previamente assunti al riguardo, deve comunque fornire una congrua motivazione in ordine alle ragioni che confortano il diverso suo apprezzamento della fattispecie motivazione che nel proprio caso non sarebbe stata – per l’appunto – esternata, e ciò anche in asserita violazione della testé riferita circolare P – 1436 dd. 21 gennaio 2000. Inoltre, secondo l’appellante la motivazione addotta nella deliberazione adottata dal Consiglio Superiore della Magistratura risulterebbe ex se illogica e contraddittoria, in quanto ivi si legge dapprima che l’irrogazione della più lieve sanzione disciplinare della censura non sarebbe condivisibile, e quindi che risulta congrua la sanzione della revoca delle funzioni, peraltro con motivazione perfettamente eguale a quella addotta da Consiglio Giudiziario. 2.2. Si sono costituiti in giudizio il Ministero della Giustizia e il Consiglio Superiore della Magistratura, replicando puntualmente alle censure avversarie e concludendo per la reiezione dell’appello. 3. Alla pubblica udienza del 28 giugno 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione. 4.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto. 4.2. Il Collegio innanzitutto non sottace che il C. ha in effetti presentato una sola querela ovvero un esposto-querela nei confronti del L.M., il quale – per contro – risulta formalmente essere stato ben più prolifico di iniziative giudiziarie nei suoi riguardi. Va tuttavia considerato che, allorquando l’attuale appellante ha reputato - in sede di giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso nei suoi riguardi - di addivenire in via transattiva al pagamento di quanto a lui richiesto al pur dichiarato e solo fine di salvaguardare la propria immagine”, il pagamento medesimo doveva essere fatto prontamente proprio al fine di concludere la vicenda con la rapidità asseritamente ricercata dall’interessato, verosimilmente consapevole che la vicenda poteva assumere effetti pregiudizievoli per la credibilità e il decoro delle proprie funzioni. Dalla stessa ricostruzione dei fatti svolta dal C. altrettanto inequivocabilmente consta che ciò non è avvenuto. L’attuale appellante afferma che il tutto è dipeso dal mancato ritiro da parte dell’Avv. L.M. dell’esposto da lui presentato presso l’Ordine degli Avvocati di Venezia, cui hanno fatto seguito ulteriori iniziative dello stesso avversario, sia giudiziarie opposizione all’archiviazione del procedimento penale pendente contro il medesimo C. presso la Procura della Repubblica di Trento , sia in sede amministrativa nuovo esposto presentato al Presidente del Tribunale ordinario di Venezia . Lo stesso C. ammette quindi di aver proceduto, in dipendenza di ciò, al pagamento perché stanco della vicenda”. Verosimilmente, l’intervenuto pagamento cui egli si era comunque obbligato ha dunque concluso la vicenda, o dovrebbe averla ragionevolmente conclusa, posto che per effetto di tale circostanza è venuto a cadere lo stesso presupposto di fondo sia del precedente esposto presentato all’Ordine professionale, sia del nuovo esposto presentato al Presidente del Tribunale, e che in ogni caso l’archiviazione delle denunce-querele risultato – quest’ultimo - oltre a tutto, utilmente spendibile anche nelle sedi istituzionali ulteriormente adite dal L.M. ha escluso una valenza penale dell’atteggiamento tenuto dal C. medesimo nei confronti dell’avversario. Nondimeno, da tutto ciò parimenti emerge che il ritardo giova ribadire, ammesso dallo stesso C. del pagamento ha per certo contribuito a prolungare una situazione che lo stesso interessato aveva apprezzato come non consona all’ufficio da lui ricoperto ritardo che è stato esplicitamente posto a fondamento della deliberazione adottata dal Consiglio Superiore della Magistratura. Nel proprio ricorso il C. si è invero richiamato, a giustificazione del ritardo medesimo, al principio inadimplenti non est adimplendum , ex art. 1460 c.c. principio di per sé inattaccabile e al quale egli per certo poteva richiamarsi al fine di tutelare i propri diritti, ma il cui utilizzo, proprio in dipendenza dell’assodata pervicacia dell’avversario, era sicuramente foriera di ulteriori iniziative da parte di quest’ultimo finalizzate a protrarre la situazione di conflitto fino all’esito voluto, ossia fino a che il C. avesse per primo adempiuto all’obbligo da lui assunto in sede di giudizio civile, ed era pertanto incompatibile con il pur conclamato intento del medesimo C. di ripristinare con prontezza la generale e quanto mai indispensabile estimazione della propria immagine. Con ciò - si badi - il Collegio non intende per certo affermare il principio per cui il magistrato – sia di ruolo, sia onorario – anche se spiacevolmente coinvolto in un giudizio civile deve soggiacere a limitazioni nell’esercizio del proprio diritto di difesa inderogabilmente garantito ad ogni cittadino dall’art. 24 Cost. ma risulta altrettanto assodato che, allorquando il magistrato medesimo abbia reputato di recedere da un contenzioso civile per certo suscettibile di determinare, ove ulteriormente coltivato, una diminuzione della credibilità della propria figura e si sia formalmente impegnato in tal senso, egli deve assumere ogni iniziativa per eliminare con prontezza ogni residua ragione del contendere. Il che, nella specie, non è per certo avvenuto, con conseguente e quanto mai poco commendevole trasformazione di una causa civile in una sorta di guerra personale con ben intuibile riflesso negativo sulla credibilità e affidabilità delle funzioni giudiziali svolte dall’attuale appellante. Sintomatico è, inoltre, l’atteggiamento del C. laddove pretenderebbe di dare ingresso nel giudizio disciplinare promosso nei suoi riguardi a quelle prove a fondamento dell’asserita insussistenza di suoi obblighi nei confronti del L.M. che egli - viceversa - non ha voluto o potuto fornire nella competente sede di giudizio civile, e che pertanto ora gli sono ineludibilmente precluse. Il giudizio disciplinare, infatti, per sua intrinseca natura non può configurarsi quale sede istituzionalmente suppletiva o sostitutiva rispetto a quelle giurisdizionali, non essendo – diversamente da queste ultime – preordinata ad accertare l’avvenuta commissione di reati o ad affermare o negare la sussistenza di lesioni di diritti o di interessi legittimi, ma è essenzialmente deputata a valutare la conformità dell’operato di colui che è assoggettato alla potestà disciplinare medesima rispetto alle norme relative all’esercizio delle proprie incombenze. In tale contesto, quindi, a ragione il Consiglio Giudiziario prima, e il Consiglio Superiore della Magistratura poi, hanno respinto la richiesta del C. di introdurre elementi probatori in alcun modo più suscettibili di influire sulla propria posizione, dato che egli stesso – come detto innanzi – non aveva voluto o potuto avvalersene in sede di giudizio civile, forse anche in quanto consapevole che la rinuncia da parte del professionista legale al proprio compenso deve essere fondata su particolari e ben circoscrivibili esigenze etico-sociali giustificatrici della totale o parziale gratuità della prestazione da lui resa, salvo che la rinuncia stessa si risolva in un espediente del legale per conseguire maggiori vantaggi economici attraverso un non consentito accaparramento di affari futuri, e fermo altresì restando che la rinuncia medesima - ancorché costituisca esercizio della libera autonomia normalmente consentita dall’ordinamento e non contrasti, astrattamente con effetti riprovati dall’ordinamento medesimo in via assoluta rispetto agli interessi pubblicistici in funzione dei quali il divieto altrimenti ex se si giustifica – soggiace per ciò solo a comprova rigorosa circa la sua genuinità rigorosità che, in linea di principio, mal si attaglia con l’utilizzo della registrazione di una conversazione cfr. in generale, sull’ammissibilità della prestazione professionale gratuita da parte dell’avvocato, Cass. Civ., Sez. Lav., 29 novembre 1988 n. 6449 Cass. Civ., Sez. II, 7 marzo 1983 n. 1680 Cass. Civ., Sez. II, 16 ottobre 1982 n. 5354 , se non altro in considerazione della natura di atto unilaterale abdicativo assunto dalla rinuncia medesima cfr. Cass. Civ., Sez. II, sent. 5354 del 1982 testé citata . In tal senso, quindi, il predetto assunto del giudice di primo grado secondo il quale né i testimoni indicati dal dott. C., né le registrazioni fonografiche, avrebbero potuto alterare un quadro fattuale dal ricorrente medesimo pacificamente ammesso e non contestato” risulta di per sé incensurabile. A questo punto va rimarcato che al dianzi evidenziato protrarsi della sconveniente situazione di conflitto tra il C. e il L.M. ossia – giova evidenziare - tra un giudice onorario e un avvocato con studio nello stesso foro in cui il giudice esercita le proprie funzioni addebitabile per parte determinante al comportamento del C. medesimo, si è aggiunto l’ulteriore e quanto mai grave episodio costituito dall’avvenuta reiezione da parte dell’attuale appellante, con motivazione definita dal Consiglio Superiore della Magistratura abnorme” considerato l’importo complessivamente percepito dalla ricorrente in riferimento all’attività sostanzialmente proposta, ed in atti, nei confronti del proprio cliente, ritiene quest’ultima sufficientemente retribuita” un ricorso per emissione di un decreto ingiuntivo per recupero di crediti professionali presentato dall’Avv. M. B. e dall’Avv. C. G Sull’abnormità della motivazione non sussistono dubbi di sorta, posto che risulta ben noto che ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo assume rilievo, ai fini dell’art. 633 e ss. c.p.c., la mera esistenza della formale prova scritta del credito, espressamente riferita anche agli onorari per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborso di spese fatte da avvocati, procuratori, cancellieri, ufficiali giudiziari o da chiunque altro ha prestato la sua opera in occasione di un processo” cfr. art. 633 cit. , e senza che il giudice adito possa formulare un giudizio di merito sull’entità del credito medesimo. Se così è, la stessa giustificazione fornita in sede giudiziale dal C. e consistente nell’allegazione del suo stato di insufficiente concentrazione conseguente all’intensa conflittualità dei suoi rapporti con l’Avv. L.M. risulta confessoria del riflesso negativo che i rapporti medesimi hanno avuto sullo svolgimento delle proprie funzioni giurisdizionali e tutto ciò, pertanto, rende fondato nella specie l’apprezzamento del Consiglio Superiore della Magistratura circa la sopravvenuta mancanza, in capo all’interessato, dei necessari caratteri di indipendenza e di equilibrio che devono caratterizzare il comportamento anche del magistrato onorario. Né – come rettamente evidenziato dallo stesso giudice di primo grado – possono essere ravvisate contraddizioni di sorta nella motivazione della decisione nella specie assunta dal Consiglio Superiore della Magistratura, posto che tale organo ha correttamente fatto discendere, sia pure riportandosi alle stesse considerazioni formulate dal Consiglio Giudiziario, da una condotta del C. espressi verbis definita come palesemente inadeguata” l’applicazione della sanzione della revoca delle funzioni, nel mentre un salto logico nella motivazione sussiste proprio nel presupposto parere reso dal Consiglio Giudiziario, laddove dall’affermazione della medesima inadeguatezza della condotta apoditticamente consegue l’assunto per cui, nondimeno, non sarebbero venute meno le condizioni di indipendenza, di equilibro e di prestigio alle quali è irrinunciabilmente connesso l’esercizio di qualsivoglia funzione giurisdizionale. 5. Le spese e gli onorari del giudizio possono essere, peraltro, integralmente compensati tra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.