Il rientro illegale in Italia non basta per negare al detenuto l’affidamento al servizio sociale

Riprende vigore la richiesta presentata da un uomo che deve scontare meno di tre anni di reclusione. Per i Giudici della Cassazione il rientro non autorizzato in Italia non è elemento sufficiente per negare l’affidamento in prova. Necessario, invece, valutare l’evoluzione della personalità del condannato ed il suo inserimento familiare, sociale e lavorativo.

Meno di tre anni da scontare per reati commessi tra il 2005 e il 2008. Illegittimo negare allo straniero , costretto in carcere , l’affidamento in prova ai servizi sociali basando tale decisione solo sulla constatazione che egli è rientrato in Italia nonostante l’espulsione decisa a suo carico nel 2012 e accompagnata dal divieto fino al 2022 di reingresso nel territorio italiano Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza n. 20337/21, depositata il 21 maggio . Prima tappa della vicenda giudiziaria è la decisione con cui il Tribunale di sorveglianza respinge nell’ottobre del 2020 l’istanza proposta da un uomo e mirata all’ottenimento dell’ affidamento in prova al ‘Servizio sociale’, in relazione ad una pena detentiva residua inferiore a tre anni di reclusione . Per i giudici l’accoglimento della richiesta è precluso dal fatto che l’uomo, già espulso dall’Italia con divieto di rientro sino al 2022 , è rientrato illegalmente nel nostro Paese, così determinando l’attuale condizione di detenzione, che egli avrebbe, altrimenti, evitato . Questa valutazione viene fortemente contestata dall’uomo, il quale lamenta che il Tribunale di sorveglianza non ha tenuto conto delle informazioni, assolutamente positive, acquisite in ordine al suo comportamento carcerario ed alle prospettive di reinserimento familiare, sociale e lavorativo . In premessa, i Giudici della Cassazione ribadiscono che l’ affidamento in prova al ‘ Servizio sociale ’ è una misura alternativa alla detenzione carceraria che attua la finalità costituzionale rieducativa della pena e che può essere adottata allorché, sulla base dell’osservazione della personalità del condannato condotta in istituto, o del comportamento da lui serbato in libertà, si ritenga che essa, anche attraverso l’adozione di opportune prescrizioni, possa contribuire alla risocializzazione prevenendo il pericolo di ricaduta nel reato . Ciò significa che il giudizio in merito alla ammissione all’affidamento si fonda sull’osservazione dell’evoluzione della personalità registratasi successivamente al fatto-reato, nella prospettiva di un ottimale reinserimento sociale . In questa vicenda, però, il Tribunale di sorveglianza ha assegnato valenza ostativa all’ammissione ad una delle invocate misure alternative alla detenzione al fatto che l’uomo è stato espulso nel 2012 dall’Italia, con divieto di reingresso nel territorio dello Stato sino al 2022 . Per il Tribunale di sorveglianza, acclarato che l’uomo ha trasgredito il divieto, è legittimo rigettare la richiesta di affidamento , posto che egli non può essere meritevole di misura alternativa, avendo lui stesso determinato l’attuale condizione di detenzione, evitabile rispettando il divieto di rientro in Italia . Questo ragionamento non è condiviso dai Giudici della Cassazione. Questi ultimi osservano, innanzitutto, che il rientro non autorizzato si colloca in epoca successiva alla commissione dei reati cui si riferiscono le condanne in esecuzione, relative a fatti commessi tra il 2005 ed il 2008, sicché è concettualmente inesatto stabilire un collegamento causale tra la volontaria presenza in Italia e l’esecuzione delle pene, che ben avrebbe potuto avvenire, attivando gli opportuni strumenti di cooperazione internazionale, anche qualora l’uomo fosse rimasto all’estero , e poi aggiungono che la condotta esaltata dai giudici di sorveglianza avrebbe dovuto essere vagliata congiuntamente agli elementi ulteriormente disponibili al fine di comprendere se ed in quale misura il condannato ha avviato, dopo la commissione dei reati che gli sono valsi la pena in esecuzione, un percorso di emenda e se ed in quale misura possa ritenersi sussistente, ad oggi, il rischio di recidiva . Inoltre, non possono essere ignorate, aggiungono i magistrati, le informazioni a disposizione in ordine alla evoluzione della personalità del condannato ed al suo inserimento familiare, sociale e lavorativo , con specifico riferimento alla disponibilità di un domicilio, ove vivono la moglie, il figlio ed il cognato ed alla proficua partecipazione al trattamento, all’attività svolta in carcere, alla revisione critica rispetto alla devianza, alle buone relazioni familiari ed affettive . Di tutti questi elementi dovranno tenere conto i giudici di sorveglianza prima di decidere sull’affidamento dello straniero al servizio sociale.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 19 marzo – 21 maggio 2021, n. 20337 Presidente Di Tomassi – Relatore Cappuccio Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza del 20 ottobre 2020 il Tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato l’istanza, proposta da G.F. , intesa ad essere ammesso all’affidamento in prova al servizio sociale in relazione ad una pena detentiva residua inferiore a tre anni di reclusione. Ha, in proposito, ritenuto che l’accoglimento della richiesta è precluso dal fatto che G. , già espulso dall’Italia con divieto di rientro sino al 2022, è rientrato illegalmente nel nostro paese, così determinando l’attuale condizione di detenzione, che egli avrebbe, altrimenti, evitato. 2. G.F. propone, con l’assistenza dell’avv. Stefano Maranella, ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, con il quale deduce violazione di legge per avere il Tribunale di sorveglianza disatteso l’istanza senza tener conto delle informazioni, assolutamente positive, acquisite in ordine al suo comportamento carcerario ed alle prospettive di reinserimento familiare, sociale e lavorativo. 3. Il Procuratore generale ha chiesto, con requisitoria scritta, dichiararsi l’inammissibilità del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato e merita, pertanto, accoglimento. 2. L’affidamento in prova al servizio sociale, disciplinato dalla L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 47, è una misura alternativa alla detenzione carceraria che attua la finalità costituzionale rieducativa della pena e che può essere adottata, entro la generale cornice di ammissibilità prevista dalla legge, allorché, sulla base dell’osservazione della personalità del condannato condotta in istituto, o del comportamento da lui serbato in libertà, si ritenga che essa, anche attraverso l’adozione di opportune prescrizioni, possa contribuire alla risocializzazione prevenendo il pericolo di ricaduta nel reato. Il giudizio in merito alla ammissione all’affidamento si fonda, dunque, sull’osservazione dell’evoluzione della personalità registratasi successivamente al fatto-reato, nella prospettiva di un ottimale reinserimento sociale è infatti consolidato, presso la giurisprudenza di legittimità, l’indirizzo ermeneutico secondo cui In tema di affidamento in prova al servizio sociale, ai fini del giudizio prognostico in ordine al buon esito della prova, il giudice, pur non potendo prescindere dalla natura e gravità dei reati commessi, dai precedenti penali e dai procedimenti penali eventualmente pendenti, deve valutare anche la condotta successivamente serbata dal condannato Sez. 1, n. 44992 del 17/09/2018, S., Rv. 273985 , in tal senso deponendo il tenore letterale della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 47, commi 2 e 3, nella parte in cui condiziona l’affidamento al convincimento che esso, anche attraverso le prescrizioni impartite al condannato, contribuisca alla sua rieducazione ed assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. Il processo di emenda deve essere significativamente avviato, ancorché non sia richiesto il già conseguito ravvedimento, che caratterizza il diverso istituto della liberazione condizionale, previsto dal codice penale Sez. 1, n. 43687 del 07/10/2010, Loggia, Rv. 248984 Sez. 1, n. 26754 del 29/05/2009, Betti, Rv. 244654 Sez. 1, n. 3868 del 26/06/1995, Anastasio Rv. 202413 . Se il presupposto dell’emenda non è riscontrato, o non lo è nella misura reputata adeguata, il condannato, se lo consentono il limite di pena -diversamente stabilito con riferimento alle varie ipotesi disciplinate dalla L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 47-ter - ed il titolo di reato, può essere comunque ammesso alla detenzione domiciliare, alla sola condizione che sia scongiurato il pericolo di commissione di nuovi reati Sez. 1, n. 14962 del 17/03/2009, Castiglione, Rv. 243745 . Il fine rieducativo si attua, in tal caso, mediante una misura dal carattere più marcatamente contenitivo, saldandosi alla tendenziale sfiducia ordinamentale sull’efficacia del trattamento penitenziario instaurato rispetto a pene di contenuta durata. Per quel che concerne la semilibertà - che attua la de-carcerazione solo parziale del condannato, ammesso a svolgere fuori dall’istituto, per parte del giorno, attività lavorativa o altra attività risocializzante - l’ammissione al relativo regime, pure ancorato a requisiti legali di pena, presuppone una prognosi favorevole, in relazione ai progressi trattamentali compiuti o, comunque, allo svolto percorso di emancipazione dalla devianza , in ordine alla mera possibilità di un suo graduale reinserimento nella società, secondo quanto previsto dalla L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 50. Rientra nella discrezionalità del giudice di merito l’apprezzamento in ordine all’idoneità o meno, ai fini della risocializzazione e della prevenzione della recidiva, delle misure alternative - alla cui base vi è la comune necessità di una prognosi positiva, seppur differenziata nei termini suindicati, frutto di un unitario accertamento Sez. 1, n. 16442 del 10/02/2010, Pennacchio, Rv. 247235 - e l’eventuale scelta di quella ritenuta maggiormente congrua nel caso concreto. Le relative valutazioni non sono censurabili in sede di legittimità, se sorrette da motivazione adeguata e rispondente a canoni logici Sez. 1, n. 652 del 10/02/1992, Caroso, Rv. 189375 , basata su esaustiva, ancorché se del caso sintetica, ricognizione degli incidenti elementi di giudizio. 3. Scrutinata alla luce di tali principi, l’ordinanza impugnata non supera il vaglio di legittimità. Il Tribunale di sorveglianza, invero, ha assegnato valenza ostativa all’ammissione di G.F. ad una delle invocate misure alternative alla detenzione al fatto che egli, nel 2012, è stato espulso dall’Italia, con divieto di reingresso nel territorio dallo Stato sino al 2022, che egli ha trasgredito, ciò che, ha aggiunto, è sufficiente a rigettare le istanze posto che il G. non può essere meritevole di misura alternativa avendo lui stesso determinato l’attuale condizione di detenzione, evitabile rispettando il divieto di rientro in Italia . Il predetto ragionamento si connota per evidenti tratti di manifesta illogicità e non appare rispettoso dei canoni ermeneutici sopra sinteticamente delineati. Da un canto, infatti, il rientro non autorizzato si colloca in epoca successiva alla commissione dei reati cui si riferiscono le condanne in esecuzione, relative a fatti commessi tra il 2005 ed il 2008, sicché è concettualmente inesatto stabilire un collegamento causale tra la volontaria presenza in Italia e l’esecuzione delle pene, che ben avrebbe potuto avvenire, attivando gli opportuni strumenti di cooperazione internazionale, anche qualora G. fosse rimasto all’estero. Dall’altro, e soprattutto, la condotta esaltata dai giudici di sorveglianza avrebbe dovuto essere vagliata congiuntamente agli elementi ulteriormente disponibili al fine di comprendere se ed in quale misura il condannato ha avviato, dopo la commissione dei reati che gli sono valsi la pena in esecuzione, un percorso di emenda e se ed in quale misura possa ritenersi sussistente, ad oggi, il rischio di recidiva. Tanto, al di fuori di qualsivoglia automatismo, quale quello che sembra avere ispirato la decisione impugnata, ed in ragione della disponibilità, della quale il Tribunale romano dà atto, di informazioni in ordine all’evoluzione della personalità del condannato ed al suo inserimento familiare, sociale e lavorativo - specificamente relative alla disponibilità di un domicilio, ove vivono la moglie, il figlio ed il cognato, alla proficua partecipazione al trattamento, all’attività svolta in carcere, alla revisione critica rispetto alla devianza, alle buone relazioni familiari ed affettive - delle quali, nondimeno, non ha in alcun modo tenuto conto. 4. Il provvedimento impugnato si palesa, in altri termini, affetto da carenze talmente gravi da renderlo illegittimo e da imporne l’annullamento con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Roma in vista di un nuovo giudizio che, libero nell’esito, sia scevro dai vizi riscontrati. P.Q.M. Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Roma.