Cane affidato al suocero e ritrovato morto: condannato l’uomo

Il quadrupede è stato rinvenuto dalla padrona in aperta campagna. L’uomo si è difeso sostenendo che il cane gli fosse scappato durante una passeggiata. Versione, questa, non credibile inevitabile la condanna.

Fatale l’abbandono in campagna per il cane, ritrovato morto. Inevitabile la condanna penale per l’uomo che, su incarico della nuora, aveva in custodia l’animale Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 15672/21, depositata il 27 aprile . A finire sotto processo è un uomo, accusato dalla nuora di avere abbandonato – provocandone così la morte – il cane che la donna gli aveva affidato per qualche giorno. Ricostruita, grazie alle parole della donna, l’assurda vicenda, i Giudici del Tribunale sanciscono la condanna dell’uomo, reo di avere abbandonato in aperta campagna il cane meticcio della nuora provvisto di microchip . In Cassazione l’uomo prova a difendersi, fornendo la propria versione e raccontando, in particolare, di avere portato fuori per una passeggiata il cane che è fuggito via , sottraendosi, sostiene l’uomo, al suo controllo. Chiaro l’obiettivo della difesa mettere in discussione il dolo attribuito all’uomo e scaricare, in sostanza, la responsabilità dell’episodio al cane, ritrovato poi in campagna morto. In aggiunta, il legale dell’uomo contesta anche l’attendibilità della nuora , visti gli screzi da lei avuti col figlio del suo cliente. Per i Giudici della Cassazione, invece, la versione fornita dalla donna, e messa nero su bianco nella denuncia, è assolutamente solida, connotata da linearità, coerenza e plausibilità, a differenza delle dichiarazioni fornite dall’uomo. In particolare, la donna ha prima descritto i rapporti tesi con il suocero e poi ha raccontato che l’uomo si era dichiarato disponibile, nonostante tutto, a custodire la cagnetta, ma il giorno in cui lei l’aveva chiesta indietro lui le aveva risposto che l’animale era scappato . A quel punto, la donna si è messa in cerca del cane e dopo quattro giorni l’ha trovato morto , e, racconta la donna, alla notizia il suocero le ha riso in faccia . Non credibili, invece, i racconti dell’uomo, il quale è caduto in contraddizione dicendo prima che l’animale era intestato al figliastro e poi alla nuora e poi aggiungendo che la nuora l’aveva denunciato per non incorrere in responsabilità a causa della scomparsa dell’animale , mentre alla donna sarebbe bastato dichiarare che la cagnetta era sfuggita alla custodia del suocero per andare esente da responsabilità . Definitiva, quindi, la condanna dell’uomo, colpevole di abbandono di animale .

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 15 dicembre 2020 – 27 aprile 2021, n. 15672 Presidente Ramacci – Relatore Macri Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 23 aprile 2018 il Tribunale di Brindisi ha condannato L.A. alle pene di legge per il reato di cui all’art. 727 c.p., perché aveva abbandonato in aperta campagna un cane meticcio provvisto di microchip di proprietà della nuora. 2. L’imputato presenta un atto di appello riqualificato come ricorso per cassazione. Con il primo motivo chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste o perché non costituisce reato perché la prova acquisita era contraddittoria. Sostiene che aveva portato il cane fuori per una passeggiata e che l’animale era sfuggito al suo controllo. Ritiene inattendibile la nuora per gli screzi che aveva avuto con il figlio. Nega l’elemento soggettivo del dolo. Con il secondo eccepisce l’omessa motivazione e invoca l’assoluzione ai sensi dell’art. 131-bis c.p Con il terzo lamenta l’eccesso di pena. Considerato in diritto 3. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato perché consiste in generiche deduzioni di fatto che sono state già vagliate e disattese con adeguata motivazione giuridica nella sentenza impugnata. Il Tribunale ha accertato che la proprietaria della cagnetta non sì era mai costituita parte civile e aveva persino rimesso la querela sporta nei confronti del suocero. Inoltre, non vi erano motivi per ritenere non veri i fatti da lei esposti nella denuncia-querela, atteso che apparivano connotati da linearità, coerenza e plausibilità, a differenza delle dichiarazioni dell’imputato. La donna, dopo aver descritto i rapporti tesi con il suocero, aveva infatti raccontato che l’uomo si era dichiarato disponibile, nonostante tutto, a custodire la cagnetta, ma il giorno in cui l’aveva chiesta indietro aveva risposto che era scappata. Quindi lei l’aveva cercata per quattro giorni e poi l’aveva trovata morta. Alla notizia lui le aveva riso in faccia. Il Giudice non ha ritenuto credibile invece l’imputato, dal momento che era caduto in contraddizione dicendo prima che l’animale era intestato al figliastro e poi alla nuora che l’aveva denunciato per non incorrere in responsabilità a causa della scomparsa dell’animale. Tale circostanza non era stata ritenuta credibile perché, per andare esenti da responsabilità, bastava dichiarare che la cagnetta era sfuggita alla custodia del suocero. Di qui la prova logica della sussistenza dei presupposti del reato ascritto. L’esile tesi difensiva non è idonea a disarticolare il ragionamento del Tribunale. Va disatteso anche il secondo motivo sulla non particolare tenuità del fatto, perché la motivazione risulta implicitamente dalla pena irrogata in una misura superiore al minimo edittale, circostanza questa che costituisce chiaro indice della gravità della condotta. Infine, per il terzo motivo sulla congruità della pena si ricorda che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, non è necessaria una motivazione approfondita se la pena è, come nella specie, al di sotto del minimo edittale Cass., Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Del Papa, Rv. 276288 . Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.