Undici piantine di canapa a casa: coltivazione lecita e non punibile

Cade l’accusa nei confronti di un uomo beccato in possesso di alcune dosi di hashish e finito sotto processo anche per avere fatto crescere alcune piantine nella propria abitazione. Per i Giudici, però, si deve parlare di coltivazione domestica.

Coltivare undici piantine di canapa tra le mura domestiche è condotta che, secondo i Giudici, non merita sanzione penale. Legittimo, difatti, parlare di coltura domestica , per nulla organizzata, poco produttiva, e comunque destinata solo a soddisfare il bisogno personale del coltivatore Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 6599/21 depositata il 19 febbraio . A finire sotto accusa è un uomo, beccato non solo ad avere con sé alcune dosi di hashish ma anche a coltivare a casa alcune piante di canapa . In secondo grado la posizione dell’uomo si fa meno delicata. Cade, difatti, la contestazione relativa al reato di detenzione a fini di cessione di alcune dosi di sostanza stupefacente tipo hashish . Viene confermata invece la condanna per coltivazione di undici piante di canapa, le cui foglie e infiorescenze risultavano del peso complessivo pari a oltre 16 grammi con principio attivo pari a 102 milligrammi, dal quale erano ricavabili, secondo i parametri tabellari, due dosi di sostanza stupefacente . E la pena viene fissata in Appello in tre mesi di reclusione e 600 euro di multa . Secondo il difensore dell’imputato, però, va messa in discussione anche la condanna per la acclarata coltivazione di piantine di canapa. Così, col ricorso in Cassazione, il legale parla di erronea applicazione della legge penale poiché i Giudici di secondo grado non hanno verificato e valutato la ricorrenza della offensività in concreto della condotta , soprattutto tenendo presenti l’intervenuta assoluzione dal reato di detenzione , la mancanza di prove sulla finalità di spaccio e, infine, le concrete modalità della coltivazione e il numero di piante presenti nell’appartamento dell’uomo. Prima di esaminare i dettagli della vicenda, i Giudici della Cassazione pongono in evidenza che, alla fine di una complessa evoluzione, si è fissata una graduazione della risposta punitiva rispetto all’attività di coltivazione di piante stupefacenti, nelle sue diverse accezioni a devono considerarsi lecite la coltivazione domestica, a fine di autoconsumo per mancanza di tipicità, nonché la coltivazione industriale che, all’esito del completo processo di sviluppo delle piante non produca sostanza stupefacente, per mancanza di offensività in concreto b la detenzione di sostanza stupefacente esclusivamente destinata al consumo personale , anche se ottenuta attraverso una coltivazione domestica penalmente lecita, rimane soggetta al regime sanzionatorio amministrativo dell’art. 75 del d.P.R. n. 309/1990 c alla coltivazione penalmente illecita restano comunque applicabili l’art. 131- bis c.p, qualora sussistano i presupposti per ritenerne la particolare tenuità, nonché, in via gradata, l’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309/1990, qualora sussistano i presupposti per ritenere la minore gravità del fatto . In questo caso specifico, osservano i Giudici, si deve logicamente parlare di coltivazione domestica , preso atto delle concrete modalità del fatto, ossia piante coltivate in vasi, all’interno dell’abitazione, senza la predisposizione di particolari cautele per rafforzarne la produzione, quali la predisposizione di un impianto di irrigazione o di illuminazione numero davvero modesto di piante undici che, in relazione al grado di sviluppo raggiunto, hanno consentito la estrazione di un quantitativo minimo di sostanze stupefacente ragionevolmente destinata all’ uso personale . Peraltro, non è stato provato l’inserimento dell’uomo in un contesto di spaccio . Tutti gli elementi a disposizione, quindi, sono sufficienti, secondo la Cassazione, per far cadere definitivamente anche l’accusa relativa alla coltivazione di stupefacenti.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 5 novembre 2020 – 19 febbraio 2021, n. 6599 Presidente Fidelbo – Relatore Giordano Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 10 luglio 2018, la Corte di appello di Roma, ha assolto Si. Se. dal reato di detenzione a fini di cessione di alcune dosi di sostanza stupefacente tipo hashish e ne ha confermato la condanna, riducendo la pena inflitta a quella di mesi tre di reclusione ed Euro seicento di multa, in relazione alla condotta di coltivazione art. 73, comma 5, D.P.R. 309/1990 di 11 piante di canapa, le cui foglie e infiorescenze risultavano del peso complessivo di gr. 16,17 con principio attivo pari a mg. 102, dal quale erano ricavabili, secondo i parametri tabellari, due dosi di sostanza stupefacente. 2. Con i motivi di ricorso, di seguito sintetizzati ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, il difensore del ricorrente chiede l'annullamento della sentenza impugnata per erronea applicazione della legge penale perché i giudici di appello non hanno verificato e valutato la ricorrenza della offensività in concreta della condotta tenuto conto della intervenuta assoluzione dal reato di detenzione non essendone provata la finalità di spaccio e delle concrete modalità della coltivazione e del numero di piante. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato e la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio. Le ragioni per le quali la Corte di merito ha confermato la condanna richiamano un principio di diritto superato dalla giurisprudenza di legittimità con la più recente pronuncia delle Sezioni Unite in materia di coltivazione cd. domestica, ai fini di autoconsumo dell'agente. Va premesso che la Corte di merito ha assolto Si. Se. dal reato di detenzione a fini di cessione di gr. 13,71 di hashish perché ha ritenuto comprovata la detenzione a fini esclusivamente personali dello stupefacente detenuto. La Corte di appello ha ritenuto che, viceversa, non poteva escludersi la rilevanza penale della condotta di coltivazione richiamando il prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità che, in ragione della natura di reato di pericolo del delitto di coltivazione, slega la rilevanza penale della condotta sia dalle intenzioni dell'agente che dal numero delle piante coltivate riconoscendo rilevanza, ai fini della incriminazione, unicamente alla conformità della pianta al tipo botanico previsto per la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente, cosicché l'offensività della condotta può essere esclusa soltanto quando la sostanza ricavabile risulti priva della capacità di esercitare, anche in misura minima, effetto psicotropo il che non era nel caso in esame avuto riguardo al principio attivo mg. 102, pari a due dosi medie ricavabile dalle piante coltivate dall'imputato. 2. Le Sezioni Unite hanno, invece, enucleato dal sistema desumibile dalle norme e dalla interpretazione che ne avevano offerto le sentenze della Corte Costituzionale in particolare con la sentenza n. 109 del 2016 e il risalente precedente delle Sezioni Unite Sez. U., n. 28605 del 24/4/2008, Di Salvia, Rv. 239920 , un principio più articolato rispetto all'affermazione sulla quale si è arrestata la decisione impugnata, pure confermata nel principio di diritto enunciato ai sensi dell'art. 173, comma 3, disp. att. cod. proc. pen Infatti le Sezioni Unite hanno precisato che devono ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore Sez. U, n. 12348 del 19/12/2019, dep. 2020, Caruso, Rv. 278624 . Nella ricostruzione delle Sezioni Unite - in realtà molto più complessa perché muove dall'analisi delle annose questioni che concernono il delitto di coltivazione di sostanze stupefacenti in relazione al ciclo vegetativo della pianta, alle modalità della condotta di coltivazione ed al momento dell'accertamento - entrano in gioco, accanto alla nota distinzione tra le categorie concettuali della tipicità e dell'offensività del reato ed alla distinzione tra offensività in astratto e offensività in concreto, la nozione empirica di coltivazione domestica finalizzata all'uso personale o autoconsumo che, più volte, la giurisprudenza, nello sforzo di trovare elementi che offrissero una ricostruzione ragionevole della fattispecie incriminatrice a fronte di condotte marginali e finalizzate all'uso personale del coltivatore, aveva sovrapposto a quella di detenzione ad uso personale. Tale sovrapposizione, secondo le Sezioni Unite, non appare praticabile perché contraria alla lettera della legge. E' invece, sul piano della offensività, che regge l'ambito della rilevanza penale del fatto, che devono trovare collocazione sistematica adeguata ma diversificata le condotte di coltivazione cd. tecnico-agraria implicitamente richiamata dagli artt. 27 e ss. del D.P.R. 309/1990 , costituita da un'attività di apprezzabili dimensioni, sostenuta da scopi commerciali, protratta con tecniche e pratiche adeguate, e per natura in grado di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti e quella di coltivazione cd. domestica, capace di generare prevedibilmente una modestissima quantità di stupefacente e che sarebbe penalmente non rilevante se intrapresa a scopi di consumo personale. Allo scopo di enucleare il fine di consumo personale del coltivatore occorre la compresenza di alcuni requisiti la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, la mancanza di indici di un inserimento dell'attività nell'ambito del mercato degli stupefacenti, l'oggettiva destinazione di quanto prodotto all'uso personale esclusivo del coltivatore. E', dunque, sul versante dell'offensività e muovendo proprio dalla ritenuta rilevanza penale della sola coltivazione tecnico-agraria, cui si lega la capacità di accrescere indiscriminatamente il quantitativo di stupefacente disponibile in rerum natura, che trova giustificazione, nell'ottica del principio di ragionevolezza, la stigmatizzazione, da parte del legislatore, della condotta di coltivazione, fonte di aggressione potenziale al bene giuridico tutelato, il quale deve essere rinvenuto nella sola salute individuale o collettiva, con esclusione degli altri interessi solitamente enunciati la sicurezza e l'ordine pubblico ma che risultano generici e privi di un collegamento diretto con il bene-salute la salvaguardia delle giovani generazioni , condotta sanzionata ai sensi degli artt. 27 e ss. del D.P.R. 309/1990 e, all'opposto, la nozione di coltivazione domestica che deve essere esclusa dall'alveo della tipicità già a livello della nomenclatura giuridica adottata dal legislatore, per come desunta attraverso la lettura congiunta degli artt. 27 ss. e 73 D.P.R. 309/1990. Detto altrimenti, poiché gli artt. 27 e seguenti del D.P.R. 309/1990 fanno riferimento a locuzioni o comunque concetti che evocano la natura imprenditoriale della coltivazione, ciò comporterebbe che la coltivazione di cui all'art. 73 D.P.R. 309/1990, che si qualifica già a livello testuale quale coltivazione senza l'autorizzazione di cui all'art. 17 , debba intendersi quale coltivazione tecnico-agraria. Secondo tale ricostruzione il reato di coltivazione di sostanze stupefacenti, quale reato di pericolo presunto sanziona l'attività svolta dall'agente in ogni fase dello sviluppo della pianta, dalla semina fino al raccolto e la sua punibilità prescinde pertanto dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza cionondimeno, al fine di recuperare il profilo della verifica della offensività in concreto della condotta, va individuato il grado di maturazione della pianta escludendosi l'offensività e dunque la punibilità se la pianta non ha prodotto sostanza idonea a indurre un effetto stupefacente principio attivo insussistente o scarso a tal fine ovvero, se l'attività è ancora in divenire, può escludere la punibilità l'inadeguatezza della modalità di coltivazione in relazione alla realizzazione del prodotto finale perché le piantumazioni sono prevedibilmente in grado di realizzare un prodotto finale conforme al normale tipo botanico e con principio attivo in grado di esplicare l'effetto stupefacente ferma restando la possibilità di applicare gli artt. 73, comma 5, D.P.R. cit. e 131-bis. cod. pen A tale tipologia di reato fa, dunque, riferimento il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite secondo il quale sul piano dell'offensività, deve concludersi che il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficiente la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e produrre sostanza stupefacente e la individuazione della condotta di coltivazione come quella svolta dall'agente in ogni fase dello sviluppo della pianta, dalla semina fino al raccolto. Qualora, però, si sia in presenza di coltivazione domestica a fini di autoconsumo, sulla scorta dei descritti caratteri materiali della condotta, il fatto sarà da considerare non tipico e pertanto non penalmente rilevante né punibile anche se, ricorrendone i presupposti, ovvero in quanto detentore di stupefacente destinato all'uso personale, il coltivatore-consumatore dovrà essere assoggettato alle sanzioni di cui all'art. 75 D.P.R. 309 cit Conclusivamente l'irrilevanza penale della coltivazione di minime dimensioni, finalizzata esclusivamente al consumo personale, deve essere ancorata, non alla sua assimilazione alla detenzione e al regime giuridico di quest'ultima, ma, più linearmente, alla sua non riconducibilità alla definizione di coltivazione come attività penalmente rilevante dandosi, così, un'interpretazione restrittiva della fattispecie penale, che si giustifica tanto più per la sua natura di reato di pericolo presunto, nell'ottica garantista di un corretto bilanciamento fra ampiezza e anticipazione della tutela. Vi è, dunque, una graduazione della risposta punitiva rispetto all'attività di coltivazione di piante stupefacenti, nelle sue diverse accezioni a devono considerarsi lecite la coltivazione domestica, a fine di autoconsumo - alle condizioni sopra elencate - per mancanza di tipicità, nonché la coltivazione industriale che, all'esito del completo processo di sviluppo delle piante non produca sostanza stupefacente, per mancanza di offensività in concreto b la detenzione di sostanza stupefacente esclusivamente destinata al consumo personale, anche se ottenuta attraverso una coltivazione domestica penalmente lecita, rimane soggetta al regime sanzionatorio amministrativo dell'art. 75 del D.P.R. n. 309 del 1990 c alla coltivazione penalmente illecita restano comunque applicabili l'art. 131-bis cod. pen., qualora sussistano i presupposti per ritenerne la particolare tenuità, nonché, in via gradata, l'art. 73, comma 5, del D.P.R. n. 309 del 1990, qualora sussistano i presupposti per ritenere la minore gravità del fatto. 3. Ritiene, conclusivamente, il Collegio che la fattispecie in esame debba correttamente inquadrata in un caso di coltivazione domestica avuto riguardo alle concrete modalità del fatto le piante erano coltivate in vasi, all'interno dell'abitazione senza la predisposizione di particolari cautele per rafforzarne la produzione, quali la predisposizione di un impianto di irrigazione o illuminazione al numero davvero modesto di piante undici che, in relazione al grado di sviluppo raggiunto hanno consentito la estrazione di un quantitativo minimo di sostanze stupefacente ragionevolmente destinata - al pari dell'hashish detenuto e per il quale è già intervenuta l'assoluzione - all'uso personale dell'imputato del quale non è stato provato l'inserimento in un contesto di spaccio. Né si era in presenza, stante le concrete modalità del fatto, di autonoma condotta di detenzione dello stupefacente che è stato ricavato in esito al procedimento di estrazione seguito dagli inquirenti, sicché neppure deva farsi luogo alla denuncia del fatto all'autorità amministrativa, ai sensi dell'art. 75, D.P.R. 309/1990. Con riguardo agli aspetti in fatto, pacificamente accertati, ed al loro corretto inquadramento giuridico l'affermazione di responsabilità dell'imputato denuncia limiti strutturali che si appalesano totalmente carenti e non utilmente integrabili sicché l'annullamento va disposto senza rinvio. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. Così deciso il 5 novembre 2020