Non va alle Sezioni Unite il contrasto sulla competenza delle guardie zoofile

Le guardie particolari giurate delle associazioni zoofile riconosciute, nonostante rivestano la qualifica di agenti di polizia giudiziaria soltanto con riferimento alla tutela degli animali da affezione, sono pur sempre legittimate a segnalare le violazioni della legge in materia di tutela della fauna selvatica.

Così ha deciso la Suprema Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 6146/21, depositata il 17 febbraio. Non si spara ai frosoni . Il frosone – nome comune dal suono curioso di una specie ornitologica protetta – è oggetto di tutela dalle norme in materia di attività venatoria e protezione della fauna selvatica . Una coppia di coniugi, però, ne fa secco un esemplare durante una battuta di caccia e, per questa ragione, viene denunciata in seguito alla segnalazione di due guardie zoofile in servizio presso l'E.N.P.A. Ente Nazionale Protezione Animali . Ne nasce una vicenda processuale terminata con una sentenza di condanna alla pena dell'ammenda. Non potendosi proporre appello, la difesa segue la strada obbligata del ricorso per cassazione. Tra i vari argomenti proposti, quello principale riguarda la fase genetica” del procedimento penale, ossia la predisposizione della notizia di reato. Nel caso che ci occupa, secondo la tesi sostenuta nel ricorso, le guardie zoofile dell'ENPA non avrebbero alcuna competenza in materia di fauna selvatica, essendo il loro raggio d'azione limitato soltanto alla tutela degli animali d'affezione. Sul punto esiste – incredibilmente – un contrasto giurisprudenziale generato dalla cronica contorsione sintattica delle nostre disposizioni normative, cui si aggiunge, per dare l'ultimo ritocco in termini di incertezza interpretativa, un orientamento della giurisprudenza amministrativa. Le due opzioni ermeneutiche . Secondo alcune pronunce l'ultima delle quali risalente al 2019 le guardie particolari giurate , nominate con decreto del Prefetto, non posseggono la qualifica di agenti di polizia giudiziaria in materia venatoria. Possono interessarsi, invece, soltanto della tutela degli animali d'affezione . Altro orientamento, anch'esso sostenuto fino al 2019, ritiene invece che le guardie zoofile possono estendere la propria vigilanza anche alla fauna selvatica . Le ragioni del contrasto, per risolvere il quale il Procuratore Generale ha invocato senza successo l'intervento delle Sezioni Unite, si basano sul groviglio delle disposizioni di legge in materia. La legge del 2004 in materia di protezione degli animali stabilisce espressamente che le guardie zoofile possono svolgere funzioni di vigilanza con riguardo agli animali di affezione” probabilmente perchè la maggiore sensibilità è canalizzata nei confronti delle specie domestiche”. Il significato del dato letterale sarebbe rimasto pacifico se il Consiglio di Stato non ci avesse messo del suo, pronunciandosi nel 2007 e sostenendo che – in forza di una legge di oltre cento anni fa – le società protettrici degli animali” potevano nominare delle guardie cui era da riconoscersi la qualifica di agenti di pubblica sicurezza. Questa disposizione normativa d'anteguerra il riferimento, s'intende, è alla prima guerra mondiale si deve saldare ad un'altra del 1992 in materia di tutela della fauna selvatica. Qui si stabilisce espressamente che la vigilanza venatoria può essere esercitata anche dalle guardie volontarie delle associazioni a tutela della fauna. Le Sezioni Unite non saranno chiamate a dirimere il contrasto . La matassa normativa in tema di tutela della selvaggina viene dipanata in autonomia dalla Terza Sezione della Suprema Corte che, quindi, afferma la legittimità dell'intervento ispettivo delle guardie zoofile dal quale sarebbe scaturita la notitia criminis . Quest'ultima, apprendiamo dalla lettura della sentenza, sarebbe poi stata indirizzata ad un agente della Polizia Provinciale al quale sarebbe toccato il compito di procedere al sequestro delle armi e dei miseri resti del frosone finito nel mirino della coppia di cacciatori. Tanto rumore per nulla.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 ottobre 2020 – 17 febbraio 2021, n. 6146 Presidente di Nicola – Relatore Zunica Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 29 maggio 2019, il Tribunale di Padova condannava G.G. alla pena, condizionalmente sospesa, di 775 Euro di ammenda, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui alla L. n. 157 del 1992, art. 30, lett. b , in relazione all’art. 2, comma 1, lett. c , della stessa legge, reato a lui contestato per aver abbattuto un frosone Coccothraustes coccothraustes appartenente alla famiglia dei Fringillidi, specie indicata dalla Convenzione di Berna, ratificata dalla L. n. 157 del 1992, come rigorosamente protetta ed esclusa dall’elenco delle specie cacciabili di cui alla L. n. 157 del 1992, art. 18, comma 1, fatto commesso in OMISSIS 2. Avverso la sentenza del Tribunale patavino, G. , tramite i propri difensori, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando quattro motivi. Con il primo, viene censurata la violazione dell’art. 191 c.p.p., il R.D.L. n. 1952 del 1935, artt. 2 e 5 e la L. n. 189 del 2004, art. 6, osservandosi che la pronuncia di condanna dell’imputato è stata fondata sulla denuncia redatta dalle guardie zoofile dell’E.n. p.a. di Padova, sebbene tale denuncia fosse inutilizzabile, atteso che, per poter essere legittimamente eseguito, il servizio delle guardie zoofile avrebbe dovuto ricevere l’approvazione del Questore mediante un regolamento di servizio che, nel caso di specie, è risultato del tutto mancante. Si evidenzia per altro verso che, ai sensi della L. n. 189 del 2004, art. 6, l’ambito di vigilanza affidato alle guardie zoofile è circoscritto agli animali d’affezione, per cui i controlli in tema di caccia non possono ritenersi consentiti. Con il secondo motivo, la difesa deduce la nullità della sentenza per la violazione degli artt. 516, 520 e 521 c.p.p., evidenziando che il Tribunale ha condannato l’imputato quantomeno a titolo di concorso , sebbene nella contestazione non vi fosse alcun riferimento all’eventuale concorso di persone. Si rileva in proposito che il fatto storico oggetto del presente giudizio ha costituito oggetto di due distinti procedimenti penali, in ciascuno dei quali l’evento è stato attribuito ai singoli autori del reato, non operanti in concorso tra loro, per cui, non essendovi stata alcuna modifica del capo di imputazione, doveva ritenersi integrato il violato il principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza. Con il terzo motivo, il ricorrente eccepisce l’inutilizzabilità delle dichiarazioni auto-indizianti dell’imputato e da questi rese alle guardie zoofile, in quanto utilizzate illegittimamente ai fini della ricostruzione della vicenda, sebbene acquisite in violazione degli artt. 63, 199 e 350 c.p.p., e art. 351 c.p.p., commi 5, 6 e 7 si tratta infatti dichiarazioni autoaccusatorie fornite da un soggetto non sottoposto alle indagini, che avrebbe dovuto al più essere sentito come persona informata sui fatti, venendo altresì informato della facoltà di astenersi dal rendere dichiarazioni, in quanto prossimo congiunto della donna nei cui confronti era stato operato il sequestro dei capi abbattuti e dell’arma da caccia. Peraltro, aggiunge la difesa, ove anche G. fosse stato indagato, l’art. 350 c.p.p., chiarisce che sono vietate rigorosamente ogni documentazione e utilizzazione delle dichiarazioni dell’indagato eventualmente assunte dagli ufficiali di P.G. nell’immediatezza dei fatti ai fini della rapida prosecuzione delle indagini, con l’ulteriore precisazione che, laddove si tratti di dichiarazioni spontanee rese dall’indagato, le stesse sono comunque inutilizzabili in dibattimento, con la sola eccezione dell’art. 503 c.p.p., comma 3, non applicabile nel caso di specie. Con il quarto motivo di ricorso, infine, la difesa deduce la violazione dell’art. 533 c.p.p. e la illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza, osservando che il Tribunale aveva illogicamente escluso la possibilità di una diversa ricostruzione dei fatti, pur a fronte dell’acquisizione degli atti del procedimento penale n. 10162/2015 R.G.N. R. e dell’escussione dell’ufficiale di PG della polizia provinciale V. , il quale aveva ricondotto il fatto solo alla Dietre. Con memoria pervenuta il 21 settembre 2020, i difensori del ricorrente hanno insistito nell’accoglimento del ricorso, osservando, a integrazione del primo motivo di ricorso, che la Questura di Padova ha confermato di non aver mai approvato il regolamento di servizio delle guardie zoofile dell’E.n.p.a., venendo archiviato il relativo procedimento per l’eventuale approvazione del regolamento il successivo 11 marzo 2020, per cui il servizio svolto dalle guardie zoofile in carico all’E.n.p.a. doveva ritenersi senz’altro illegittimo. Considerato in diritto Il ricorso è infondato. 1. Iniziando dal primo motivo, deve innanzitutto premettersi che il Collegio è consapevole dell’esistenza di un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di legittimità in ordine alle competenze delle guardie zoofile secondo alcune pronunce cfr. Sez. 6, n. 21508 del 07/05/2019, Rv. 275676 e Sez. 3, n. 23631 del 09/04/2008, Rv. 240231 , infatti, le guardie particolari giurate delle associazioni zoofile riconosciute, nominate con decreto prefettizio, non rivestono la qualifica di agenti di polizia giudiziaria con riguardo ai controlli in materia venatoria, per il solo fatto che è a loro affidata, ai sensi della L. n. 189 del 2004, art. 6, comma 2, la vigilanza sull’applicazione di tale legge e delle altre norme a tutela degli animali da affezione , in quanto rientrano in questa categoria i soli animali domestici o di compagnia, con esclusione della fauna selvatica viceversa, secondo un diverso approdo interpretativo cfr. Sez. 6, n. 27992 del 14/03/2019, Rv. 276224 e Sez. 3, n. 28727 del 18/05/2011, Rv. 250609 , le guardie zoofile nominate con decreto prefettizio rivestono la qualifica di agenti di polizia giudiziaria, anche nel caso in cui svolgano attività di vigilanza sulla fauna selvatica. Il dato testuale da cui muovono le diverse tesi è costituito dalla L. n. 189 del 2004, art. 6, Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate , secondo cui la vigilanza sul rispetto della predetta legge e delle altre norme relative alla protezione degli animali è affidata anche, con riguardo agli animali di affezione, nei limiti dei compiti attribuiti dai rispettivi decreti prefettizi di nomina, ai sensi degli artt. 55 e 57 c.p.p., alle guardie particolari giurate delle associazioni protezionistiche e zoofile riconosciute. Ora, effettivamente la frase incidentale con riguardo agli animali di affezione , letta nel contesto della norma, pare avere un effetto restrittivo e non ampliativo delle competenze delle guardie zoofile, nel senso che le funzioni di polizia giudiziaria di cui agli artt. 55 e 57 c.p.p., sono loro attribuite solo e non anche , essendo la congiunzione collocata significativamente prima della virgola, riferendosi cioè al solo concetto dell’estensione dei compiti rispetto alla tutela degli animali di affezione cioè per gli animali domestici e di compagnia , non anche per tutti gli altri, tra cui la fauna selvatica, giustificandosi la limitazione, evidentemente, in ragione della maggiore sensibilità sociale verso la protezione degli animali di cui gli esseri umani sono abituati da sempre a circondarsi. Premesso dunque che, in sintonia con il primo dei due indirizzi ermeneutici prima richiamati, la veste di agenti di polizia giudiziaria può essere riconosciuta in capo alle guardie zoofile solo rispetto alla vigilanza sugli animali di affezione, deve tuttavia evidenziarsi che, come sottolineato dalla giurisprudenza amministrativa Consiglio di Stato, VI, n. 298 del 26/01/2007, peraltro in un caso riguardante proprio l’Enpa , le guardie zoofile dell’Enpa, pur non rivestendo la qualità di agenti di polizia giudiziaria, sono pur sempre guardie giurate volontarie di un’associazione protezionistica nazionale riconosciuta , atteso che la L. n. 611 del 1913, recante norme relative alle società protettrici degli animali, prevedeva espressamente la possibilità di nomina da parte delle stesse società di guardie, cui era da riconoscersi, ai sensi dell’art. 7 della legge medesima, la qualifica di agenti di pubblica sicurezza, possibilità questa confermata dalla L. n. 612 del 1938, n. 612, istitutiva dell’E.n.p.a. dunque, in presenza di un riconoscimento ex lege, ritenuto valido dal Consiglio di Stato, non appare pertinente l’obiezione difensiva circa l’assenza di un riconoscimento formale da parte dell’Autorità amministrativa. Ora, se è vero che, in base al D.P.R. 31 marzo 1979, l’E.n.p.a. ha perso il carattere di persona giuridica pubblica, è altrettanto vero che l’art. 5 del citato decreto presidenziale, pur avendo privato le guardie zoofile della qualifica di agenti di pubblica sicurezza, ha mantenuto alle stesse la qualifica di guardie giurate. Ciò posto, deve evidenziarsi che la L. n. 157 del 1992, art. 27, comma 1, norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio ha affidato la vigilanza venatoria a agli agenti dipendenti degli enti locali delegati dalle regioni, gli unici cui è attribuibile la qualifica di agenti di P.G. e b alle guardie volontarie delle associazioni venatorie, agricole e di protezione ambientale nazionali presenti nel Comitato tecnico faunistico-venatorio nazionale e a quelle delle associazioni di protezione ambientale riconosciute dal Ministero dell’ambiente, alle quali sia riconosciuta la qualifica di guardia giurata. Dunque, ribadito che alle guardie zoofile dell’E.n.p.a., alla luce della L. n. 189 del 2004, art. 6 e a seguito della perdita della personalità di diritto pubblico, non può riconoscersi la veste di agenti di polizia giudiziaria, se non rispetto agli animali d’affezione, tra cui non può farsi rientrare la fauna selvatica, deve tuttavia evidenziarsi come rilevato anche dal Consiglio di Stato nella pronuncia prima richiamata che le stesse, quali guardie giurate di un’associazione di protezione ambientale riconosciuta ex lege , possono esercitare i poteri di vigilanza e di accertamento indicati nella L. n. 157 del 1992, art. 28, commi 1 e 5, ovvero possono chiedere a qualsiasi persona trovata in possesso di armi o arnesi atti alla caccia, in esercizio o in attitudine di caccia, l’esibizione della licenza di porto di fucile per uso di caccia, del tesserino di cui all’art. 12, comma 12, del contrassegno della polizza di assicurazione, nonché della fauna selvatica abbattuta o catturata e inoltre possono accertare, anche a seguito di denuncia, violazioni delle disposizioni sull’attività venatoria, redigere verbali, conformi alla legislazione vigente, in cui devono essere specificate tutte le circostanze del fatto e le eventuali osservazioni del contravventore, dovendo trasmetterli all’Ente da cui dipendono e all’Autorità competente ai sensi delle disposizioni vigenti. 2. Orbene, alla luce di tale premessa ricostruttiva, deve escludersi che, nel caso di specie, l’operato delle guardie zoofile dell’E.n.p.a. abbia dato luogo a violazioni di legge E invero, come emerge dalla sentenza impugnata alla luce di un accertamento fattuale non smentito dal ricorrente, le guardie F. e R. non hanno operato il sequestro della fauna, ma, all’esito di un servizio di vigilanza venatoria loro consentito ai sensi della L. n. 157 del 1992, art. 28, hanno compiuto una segnalazione a un agente di polizia giudiziaria, ovvero l’agente della Polizia Provinciale di Padova V.P. , il quale, una volta sopraggiunto dopo insistenti chiamate da parte delle guardie zoofile, ha verificato di persona le circostanze riferitegli e ha proceduto al sequestro degli uccelli abbattuti e dei fucili nella disponibilità dell’imputato G.G. e alla moglie D.R. . Dunque, a prescindere dai profili di merito che saranno in seguito esaminati, deve evidenziarsi che, nel caso di specie, le guardie zoofile dell’E.n.p.a. non hanno compiuto alcun atto esorbitante le loro competenze, ma si sono limitate a compiere un legittimo servizio di vigilanza venatoria, all’esito del quale hanno contattato un agente di polizia giudiziaria, il quale, avuta contezza direttamente della vicenda riferitagli, ha proceduto al sequestro degli esemplari abbattuti e delle armi, per cui l’iniziativa cautelare reale risulta adottata da un agente di P.G. a ciò abilitato. Di qui l’infondatezza della doglianza difensiva. 2. Passando ai restanti motivi di ricorso, suscettibili di trattazione unitaria perché tra loro sostanzialmente sovrapponibili, deve osservarsi che l’attribuzione all’imputato della condotta ascrittagli, in quanto preceduta da una disamina razionale del materiale probatorio disponibile, non presenta vizi di legittimità. Innanzitutto, occorre rilevare che il Tribunale ha correttamente ritenuto inutilizzabili le dichiarazioni del teste V. , nella parte in cui ha riportato le affermazioni di G. , peraltro non verbalizzate quanto invece alle dichiarazioni rese dall’imputato alle guardie zoofile, deve osservarsi che, proprio perché queste ultime, per quanto esposto, non sono qualificabili come agenti di polizia giudiziaria, non valgono i limiti posti dagli art. 195 c.p.p., commi 4 e 5 e artt. 350 e 351 c.p.p., non potendosi sottacere peraltro che il documento descrittivo dell’intervento delle guardie zoofile, anche nella parte relativa alle dichiarazioni di G. , è stato acquisito su accordo delle parti, non risultando formulate eccezioni in tal senso. In ogni caso, anche a voler prescindere dal contenuto delle dichiarazioni auto-accusatorie rese dall’imputato alle guardie zoofile, le quali, si ribadisce, le hanno acquisite al di fuori dello svolgimento di un’attività di P.G., va evidenziato che, ai fini dell’attribuzione del reato a G. , tali dichiarazioni non risultano decisive. Premesso infatti che nè le guardie zoofile, nè l’agente della Polizia provinciale intervenuto a seguito di sollecitazione delle prime hanno assistito all’azione di abbattimento del frosone, esemplare ritenuto pacificamente protetto, deve osservarsi che, nondimeno, tale condotta è stata ragionevolmente addebitata a G. in base alla circostanza, invero non contestata, che egli è stato sorpreso mentre era intento a possedere e a mantenere un richiamo vivo di frosone, il che è stato ritenuto, in maniera non illogica, indice dell’ascrivibilità dell’evento, essendo evidente che l’azione di portare in un capanno il richiamo vivo di un uccello non tacciabile induce la fauna selvatica di quel tipo ad avvicinarsi e quindi a rendersi destinataria dell’iniziativa venatoria del soggetto sorpreso con il richiamo, tanto più ove si consideri che quest’ultimo era in compagnia di un’altra persona, la moglie, a sua volta intenta a cacciare, essendo in possesso dei relativi strumenti. In tal senso si giustifica l’affermazione del Tribunale secondo cui, ove pure non fosse l’autore diretto dell’abbattimento del frosone, G. era comunque chiamato a risponderne almeno a titolo di concorso, avendo egli con la sua condotta agevolato comunque il compimento dell’azione illecita della persona in compagnia della quale si era recata nel capanno utilizzando il richiamo vivo. Nè sotto tale profilo appare ravvisabile una violazione del principio di cui all’art. 521 c.p.p., dovendosi richiamare la condivisa affermazione di questa Corte cfr. Sez. 2, n. 22173 del 24/04/2019, Rv. 276535 , secondo cui non sussiste violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza quando, contestato a taluno un reato commesso uti singulus , se ne affermi la responsabilità in concorso con altri, e ciò a maggior ragione ove, come avvenuto nel caso di specie, l’imputato abbia avuto la possibilità di difendersi ampiamente rispetto alle circostanze fattuali desumibili dalle fonti di prova a lui già note. Deve quindi ribadirsi che il giudizio di colpevolezza dell’imputato rispetto al reato a lui contestato non presta il fianco alle censure difensive, che invero, almeno rispetto alle censure in punto di valutazione del materiale probatorio e di responsabilità, risultano formulate in termini non adeguatamente specifici. 3. Alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto nell’interesse di G. deve essere quindi rigettato, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.