Lo sfottò allo stadio si trasforma in offesa online: è diffamazione

Condannato l’allenatore di una squadra di calcio, che, a poche ore da una partita, ha preso di mira online il presidente della compagine appena affrontata. Inequivocabili le parole rivolte soprattutto all’indirizzo della moglie della persona offesa.

Tollerabile lo sfottò volgare e offensivo nel contesto dello stadio. Riproporlo online, utilizzando un social network, invece, vale una condanna per diffamazione Cassazione, sentenza n. 36026/20, depositata il 16 dicembre . Protagonisti della vicenda sono rispettivamente il presidente e l’allenatore di due diverse squadre di calcio. L’antefatto è rappresentato dallo scontro in campo tra le due compagini, scontro caratterizzato dalla tensione verbale tra il primo – Manolo, nome di fantasia – e il tecnico – Dario, nome di fantasia –. Lo strascico è invece rappresentato da un post pubblicato su Facebook , poche ore dopo il match, da Dario e caratterizzato da frasi offensive rivolte, in particolare, alla moglie di Manolo. Gli ulteriori confronti tra i due soggetti si svolgono esclusivamente in un’aula di giustizia, dove Dario finisce sotto processo per diffamazione , essendo accusato di avere pubblicato sul proprio profilo Facebook espressioni offensive della reputazione di Manolo . Ricostruiti i dettagli della vicenda, i Giudici di merito ritengono indiscutibile la responsabilità penale di Dario. Indiscutibile, difatti, non solo il contenuto offensivo del messaggio condiviso tramite il social network, e incontestabile l’addebito della pubblicazione alla persona di Dario, titolare del profilo su Facebook. Identica posizione assume anche la Cassazione, rendendo definitiva la condanna per l’allenatore. Innanzitutto, i magistrati spiegano che è altamente indicativo che il post sia comparso sul profilo Facebook di Dario, stante la necessità, notoria, di una password per accedervi e stante il fatto che nessuna indicazione è da lui provenuta circa l’intrusione di estranei nel suo profilo . Allo stesso tempo, è chiara, sempre secondo i Giudici, l’individuazione della persona offesa in Manolo, alla luce di precisi elementi di sicura valenza indiziaria, sia in relazione al contesto temporale in cui il post è apparso, sia in relazione ai suoi contenuti . Irrilevanti, invece, gli errori presenti nel post in merito all’età, al numero di figli e al Comune di residenza della persona offesa. Significativo, poi, che il post sia stato pubblicato il giorno successivo alla partita di calcio e che, già durante il match fossero intervenuti sfottò tra le parti, anche con riferimento alla famiglia di Manolo. Per chiudere il caso, infine, i Giudici della Cassazione tengono anche a precisare che gli sfottò che intercorrono durante un match di calcio non sono minimamente equiparabili agli insulti proferiti on-line, dopo la partita stessa, specie se coinvolgono persone la moglie di Manolo, in questo caso estranee al contesto sportivo . Senza dimenticare, poi, che presunti atteggiamenti ingiuriosi, o soltanto inurbani, tenuti sul campo da Manolo sono stati presentati come tali solo da Dario, mentre alcuni testimoni hanno raccontato di una discussione animata e di episodi molto ripetuti all’interno di partite amatoriali , nulla, però, che sia qualificabile come provocazione , concludono dalla Cassazione.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 15 ottobre – 16 dicembre 2020, n. 36026 Presidente Vessichelli – Relatore Settembre Ritenuto in fatto 1. La Corte d'appello di Trieste ha confermato la decisione di primo grado, che aveva condannato Ca. Pa. per diffamazione in danno di Ga. Fa. per avere - dopo una partita di calcio svoltasi tra la squadra di cui Ga. era presidente e quella di cui l'imputato era allenatore - pubblicato sul proprio profilo Facebook espressioni offensive della reputazione di quest'ultimo, 2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell'imputato con cinque motivi. 2.1. Col primo lamenta che le espressioni in questione siano state attribuite all'imputato per il semplice fatto che sono apparse sul suo profilo Facebook, senza l'individuazione dell'indirizzo IP utilizzato dall'autore delle stesse. 2.2. Col secondo si duole del ragionamento spiegato per l'individuazione del destinatario delle offese, atteso che il nome di Ga. non è mai stato fatto dall'autore del post e che gli elementi valorizzati dal giudicante sono tutti equivoci o non corrispondenti alle caratteristiche del diffamato. 2.3. Col terzo motivo si duole della mancata applicazione dell'art. 599 cod. pen., atteso che - come confermato dar testi esaminati - l'imputato avrebbe solo reagito a comportamenti contrari alla civile convivenza posti in essere da Ga. nel corso della partita di calcio. 2.4. Col quarto lamenta che illegittimamente sia stato ritenuto inammissibile il motivo sulla pena e sull'entità del risarcimento attribuito alla persona offesa. 2.5. Col quinto lamenta un'omessa motivazione - da parte del giudice d'appello -sulla richiesta, avanzata dall'appellante, di condanna della parte civile ai sensi dell'art. 542 cod. proc. pen Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile perché meramente riproduttivo di doglianze già esaminate, esaustivamente e correttamente, dal giudice d'appello e perché manifestamente infondato. 1. La provenienza del post dall'imputato e l'individuazione della persona offesa in Ga. Fa. sono stati oggetto di attenta disamina da parte dei giudici di merito, i quali hanno valorizzato elementi di sicura valenza indiziaria, sia in relazione al contesto temporale in cui il post è apparso, sia in relazione ai suoi contenuti, sicché vanno disattese le doglianze tutte del ricorrente, in quanto a è, effettivamente, altamente indicativo che il post sia comparso sul profilo Facebook dell'imputato, stante la necessità, notoria, di una password per accedervi e stante il fatto che nessuna indicazione è provenuta dall'imputato circa l'intrusione di estranei nel suo profilo è fuor di luogo gridare all'inversione dell'onere della prova, giacché viene valorizzato, in tal caso, un dato obbiettivamente accertato b non ha nessun rilievo che il destinatario delle offese avesse 43 anni, invece che i 40 di Ga., dal momento che l'età delle persone può essere solo supposta da parte di chi non ne conosce l'esatta data di nascita c non è affatto detto che Ca. conoscesse il numero preciso dei figli di Ga L'aver parlato di tre figli, invece che di due, non costituisce dato dissonante per l'individuazione della provenienza delle espressioni diffamatorie d il fatto che Ga. abitasse a Cecchini, invece che a Visrnale località menzionata nel post non ha, effettivamente, alcun significato, dal momento che, come ricordato in sentenza, si tratta di paesi contigui e anche nel post i due luoghi sono rappresentati come vicini . La motivazione con cui si è pervenuti all'individuazione dell'autore e della vittima del post non è, quindi, affatto illogica o forzata , dal momento che, oltre ai dati di per sé significativi sopra esposti, ne sono stati evidenziati altri, aventi parimenti forza dimostrativa il fatto che Ga. fosse effettivamente presidente di una squadra di calcio come l'offeso il fatto che Garbrn gestisse un locale pubblico come l'offeso il fatto che il post sia stato pubblicato il giorno successivo alla partita di calcio svoltasi tra le squadre di imputato e persona offesa e il fatto che, già durante la partita, fossero intervenuti sfottò tra le parti, anche con riferimento alla famiglia dr Ga Consegue a tanto la manifesta infondatezza dei primi due motivi di ricorso. 2. Gli sfottò che intercorrono durante una partita di calcio non sono minimamente equiparabili agli insulti proferiti on-line, dopo la partita stessa, specie se coinvolgono persone la moglie di Ga., in questo caso estranee al contesto sportivo. Tanto, senza considerare che di atteggiamenti ingiuriosi, o soltanto inurbani, tenuti sul campo da Ga. parla solo l'imputato, dal momento che - dopo attento esame dette dichiarazioni rese dai soggetti vicini all'imputato o comunque presenti alla partita - atteggiamenti siffatti sono stati esclusi dalla Corte d'appello pag. 8 e seg., ove si parla - riportando le dichiarazioni del teste Ca. - di discussione animata , di episodi molto ripetuti all'interno di partite amatoriali , ma niente che sia qualificabile come provocazione . Inutilmente, pertanto, il ricorrente insiste nella tesi della provocazione, sostenuta in giudizio tesi peraltro contrastante con l'asserita estraneità alle condotte diffamatorie , dal momento che non compete a questa Corte riesaminare il compendio delle dichiarazioni su cui è fondato il giudizio dei Tribunale e della Corte di merito 3. Il motivo sulla pena e sull'entità del risarcimento è inammissibile per genericità, come lo era già stato in appello. La parte che intende impugnare una decisione sfavorevole deve puntualmente indicare, infatti, gli elementi che inficiano il giudizio espresso. Tanto non è avvenuto in appello e tanto non è avvenuto in cassazione, dal momento che la pretesa incertezza circa l'individuazione del reato contestato e circa fa individuazione di chi sia la persona offesa dal reato non rappresentano argomenti peraltro fallaci, come si è già detto con cui invalidare il ragionamento espresso, su tutt'altro punto, dal giudicante. 4. L'ultimo motivo è manifestamente infondato, dal momento che, a fronte della condanna dell'imputato per il reato che gli ascritto e a fronte dell'accoglimento della domanda risarcitoria avanzata dalla parte civile, il giudice non deve affatto spiegare perché non condanna il querelante alla rifusione delle spese sostenute dall'imputato qui, evidentia docet . 5. Consegue a tanto che il ricorso, manifestamente infondato sotto ogni profilo, va dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ravvisandosi profili di colpa netta proposizione del ricorso, al versamento di una somma a favore della Cassa delle ammende che, in ragione dei motivi dedotti, si stima equo determinare in Euro 3.000. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000 a favore della Cassa delle ammende.