Mascherine con marchio CE ma prive di documentazione: nessun dubbio sulla legittimità del sequestro

In caso di controllo sulla vendita di prodotti che recano il marchio CE, la mancata esibizione della documentazione che attesta la regolarità dell’apposizione di tale marchio, costituisce un comportamento significativo circa l’irregolarità dell’apposizione stessa ai fini della configurabilità del reato di tentativo di frode nell’esercizio del commercio di cui all’art. 515 c.p

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 33091/20, depositata il 25 novembre. Il Tribunale di Macerata respingeva il riesame proposto dall’amministratore di una società avverso il decreto di convalida del sequestro preventivo avente ad oggetto oltre mille mascherine facciali del tipo FFP2 , in quanto recanti il marchio CE ma prive di idonea documentazione. La pronuncia è stata impugnata con ricorso in Cassazione. Il ricorrente esclude la sussistenza di una condotta di contraffazione, dovendo configurarsi una mera irregolarità della procedura. La Corte precisa però che se il marchio è apposto da ente non autorizzato ricorre un’ipotesi di contraffazione e questa Corte ha già avuto modo di riconoscere che tale condotta è astrattamente riconducibile alla fattispecie contemplata dall’art. 515 c.p. . Difatti, la funzione della marcatura CE è la tutela degli interessi pubblici della salute e sicurezza degli utilizzatori dei prodotti mediante la attestazione della rispondenza alle disposizioni comunitarie che ne prevedono l’utilizzo la stessa, pur non fungendo da marchio di qualità o di origine, costituisce comunque un marchio amministrativo, che evidenzia la possibilità di libera circolazione del prodotto nel mercato comunitario v. Cass.Pen. n. 36228/09 . In altre parole, la marcatura CE attesta il rispetto di standard minimi di qualità e costituisce una garanzia della sicurezza del prodotto. La giurisprudenza ha inoltre precisato che la mancata esibizione da parte di colui che pone in vendita prodotti che recano il marchio CE, nel corso di un controllo, della documentazione che attesta la regolarità dell’apposizione di tale marchio, costituisce un comportamento significativo circa l’irregolarità dell’apposizione stessa, non comportando un’inammissibile inversione dell’onere della prova della sussistenza del reato di tentativo di frode nell’esercizio del commercio di cui all’art. 515 c.p In conclusione, la pronuncia impugnata si sottrae alle censure del ricorrente e il ricorso viene dunque dichiarato inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 20 ottobre – 25 novembre 2020, n. 33091 Presidente Gallo – Relatore Borsellino Ritenuto in fatto 1.Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di Macerata, sezione riesame, ha respinto il riesame proposto da C.A. , quale amministratore unico della società Centro accessori S.p.A., avverso il decreto di convalida del sequestro probatorio emesso il 23 maggio 2020 e il decreto di convalida di sequestro preventivo emesso dal GIP del Tribunale di Macerata il 25 maggio 2020 avente ad oggetto 1102 mascherine facciali del tipo FFP2, in quanto recanti il marchio CE, ma sprovviste di idonea documentazione certificante la corretta marcatura. Il GIP ha fatto proprie le argomentazioni del pubblico ministero e ha affermato che sussiste il fumus dei reati contestati poiché l’indagato aveva acquistato dalla Cina mascherine FF P2 recanti il marchio CE, irregolarmente apposto in quanto risultavano prive della necessaria certificazione, e le aveva già in parte cedute a terzi, per cui era necessario disporne il sequestro per evitare che il reato potesse essere portato ad ulteriori conseguenze con commercializzazione delle suddette mascherine. 2. Avverso il detto provvedimento propone ricorso C. il quale premette che all’indagato sono stati contestati la contravvenzione prevista dal D.Lgs. n. 475 del 1992, art. 14, lett. C e i delitti di vendita di prodotti industriali con segni mendaci previsto dall’art. 517 c.p. e di ricettazione e deduce 2.1 violazione di legge e in particolare dell’art. 125 c.p.p., art. 324 c.p.p., comma 7, art. 309 c.p.p., comma 9 e degli artt. 648 e 517 c.p. e del D.Lgs. n. 475 del 1992, art. 14 poiché il provvedimento del tribunale è ictu oculi affetto da carenza assoluta di motivazione in ordine al fumus dei reati contestati in ragione dell’evidente mancanza della esposizione della condotta dell’indagato, dell’elemento soggettivo del reato e della mancata disamina degli elementi di censura addotti dalla difesa sicché la motivazione deve ritenersi apparente. Il provvedimento risulta astratto poiché si riferisce ad ipotesi standard di sequestro preventivo di mascherine protettive di quel tipo e prescinde dalla concreta verifica della riconducibilità dei fatti storici all’ipotesi di reato prospettata si limita ad affermare che le mascherine avevano il marchio CE assumendone non tanto la contraffazione ma, al più, la ipotetica apposizione da parte di un soggetto non autorizzato. In particolare è stata omessa ogni risposta all’eccezione difensiva dell’impossibilità di qualificare la condotta dell’indagato come delitto di ricettazione, poiché tale reato non è ipotizzabile in riferimento a beni provenienti da contravvenzione e, nel caso in esame, la condotta di chi produce e mette a disposizione sul mercato dispositivi non conformi ai requisiti essenziali di sicurezza è punito con sanzione amministrativa o con l’arresto ai sensi del D.Lgs. n. 475 del 1992, art. 14. Il provvedimento manca inoltre di motivazione anche in riferimento al fumus dei reati di cui al D.Lgs. n. 475 del 1992, art. 14, lett. O e di cui all’art. 517 c.p. contestati al capo A e B dell’incolpazione provvisoria. Nel caso in esame il marchio CE è regolarmente presente sul dispositivo e di esso non si ipotizza la contraffazione, ma l’irregolare apposizione perché certificato da ente il cui nominativo non risulta inserito tra i soggetti autorizzati, in quanto la società cinese che li produce non rientra secondo la prospettazione accusatoria tra gli organismi notificati Europei e quindi certifica in modo invalido la sussistenza dei requisiti tecnici del prodotto. La marcatura CE attesta la conformità del prodotto a standard minimi di qualità ma la fattispecie di cui all’art. 517 c.p. sanziona la vendita di prodotti industriali con segni mendaci sicché nel caso di specie non ricorre questo delitto poiché si ipotizza la mera assenza di regolare documentazione comprovante la corretta marcatura. Il tribunale omette di spiegare in che termini la condotta del C. possa essere qualificata come ricettazione, in quanto non spiega quale sia il delitto presupposto del delitto di ricettazione e se e in che termini emerga la consapevolezza del ricorrente in ordine alla provenienza delittuosa dei beni ricevuti. 2.2 violazione di legge processuale per carenza assoluta di motivazione per mancata valutazione dei motivi di riesame concernenti l’elemento psicologico del reato poiché il tribunale non si occupa di valutare l’elemento psicologico del reato previsto dall’art. 517 c.p. e trascura di considerare che l’azienda di cui l’indagato è amministratore aveva ottenuto le dovute certificazioni di qualità la consegna del materiale era avvenuta a fronte del pagamento con regolari bonifici a favore del fornitore cinese e previo sdoganamento della merce la merce aveva superato i controlli doganali sulla base del solo sospetto di una irregolarità della certificazione in suo possesso la Centro accessori si era rivolta spontaneamente all’istituto G. e aveva deciso di sospendere le vendite e l’acquisto delle ulteriori mascherine contestando i fatti al fornitore cinese e chiedendo la restituzione senza ritardo della somma pari ad Euro 154.000. 2.3 Violazione di legge processuale per carenza assoluta di motivazione sotto il profilo del periculum in mora e per mancata valutazione delle prove addotte dalla difesa in quanto il tribunale ha collegato il pericolo alla possibilità astratta di vendita delle mascherine, senza considerare che la cessione dei beni era stata volontariamente interrotta dall’indagato. 2.4 Violazione ed errata applicazione del D.L. n. 18 del 2020, art. 15 in quanto il tribunale afferma che la restituzione delle mascherine è comunque preclusa trattandosi di cose soggette a confisca obbligatoria, senza tuttavia esporre i presupposti di fatto da cui deriva la misura di sicurezza e quale sarebbe in concreto la categoria entro la quale ricadono i detti beni tra quelli indicati dall’art. 240 c.p Il tribunale omette poi di confrontarsi con le deduzioni della difesa e afferma che la procedura attivata dalla società per regolarizzare in deroga i prodotti acquistati sarebbe irrilevante, poiché una volta ottenuta la deroga alla certificazione la società avrebbe fatto ad essa ricorso al fine di essere legittimata a venderle come dispositivi di protezione individuale e non come mascherine chirurgiche. La confisca invece risulta incompatibile con la deroga introdotta dal legislatore con decretazione d’urgenza alle eventuali irregolarità nella marcatura attraverso la procedura di validazione il tribunale pertanto avrebbe dovuto annullare il provvedimento impugnato in quanto mancante di motivazione circa la ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari, non essendo neppure suscettibile di integrazione la dicitura contenuta nel decreto del gip del 25 maggio 2020 con cui si afferma apoditticamente che le mascherine sono comunque destinate a futura confisca . Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile sulla scorta delle seguenti considerazioni. In tema di riesame delle misura cautelari reali, nella nozione di violazione di legge per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a norma dell’art. 325 c.p.p., comma 1, rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali ne consegue che non possono essere dedotti con il predetto mezzo di impugnazione vizi della motivazione, atteso che nel predetto concetto di violazione di legge , come indicato nell’art. 111 Cost. e art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b e c , non rientrano anche la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione, che sono invece separatamente previsti come motivo di ricorso peraltro non applicabile al ricorso ex art. 325 c.p.p. dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e , Cass. SS.UU., 28.1.2004 n. 5876 . Il sindacato demandato alla Corte di Cassazione in subiecta materia ha pertanto un orizzonte circoscritto, dovendo essere limitato, per espresso disposto normativo, alla assoluta mancanza di motivazione ovvero alla presenza di motivazione meramente apparente. E la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo altresì di evidenziare Cass. sez. 2, 22.5.1997 n. 3513 , con riferimento alla problematica del riesame delle misure cautelari, che il legislatore ha in tal modo inteso sanzionare l’elusione da parte del giudice del riesame del suo compito istituzionale di controllo in concreto del provvedimento impugnato, riconducibile alla prescrizione dell’obbligo di motivazione di cui all’art. 125 c.p.p., comma 3, sanzionato a pena di nullità, e dunque deducibile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c . Deve aggiungersi che la verifica delle condizioni di legittimità della misura, da parte prima del Tribunale e poi della Corte di legittimità, non può tradursi in un’anticipata decisione della questione di merito, concernente la responsabilità del soggetto indagato, in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale ipotizzata, mediante una valutazione prioritaria dell’antigiuridicità del fatto. Nel caso di specie il giudice del riesame ha fatto corretta applicazione dei principi espressi dalla giurisprudenza, palesando di avere esaminato e valutato gli elementi accusatori e quelli prospettati dalla difesa e, all’esito, di essere pervenuto all’affermazione di sussistenza del fumus di cui ha dato conto nel provvedimento in questa sede censurato con motivazione asciutta ma sufficiente. Occorre premettere che le censure formulate dal ricorrente si riferiscono tutte al decreto di convalida del sequestro preventivo eseguito sulle mascherine e non al contestuale decreto di convalida del sequestro probatorio, rispetto al quale non vi sono nel ricorso riferimenti specifici. 1.1 Il primo motivo di ricorso relativo alla sussistenza del fumus dei reati ipotizzati a carico dell’indagato non è fondato, poiché nel provvedimento il tribunale richiama quel consolidato orientamento secondo cui l’acquirente di prodotti con marchi contraffatti non destinati al proprio uso e consumo personale risponde del delitto di ricettazione. Quanto all’apposizione della marcatura CE, il ricorrente sembra ipotizzare che non ricorra una condotta di contraffazione ma di mera irregolarità della procedura ma risulta di logica evidenza che se il marchio è apposto da ente non autorizzato ricorre un’ipotesi di contraffazione e questa Corte ha già avuto modo di riconoscere che tale condotta è astrattamente riconducibile alla fattispecie contemplata dall’art. 515 c.p. sez. 3, 14 febbraio 2103, n. 9310 sez. 3, 16 luglio 2010, n. 27704 . Deve in particolare ricordarsi che la funzione della marcatura CE è la tutela degli interessi pubblici della salute e sicurezza degli utilizzatori dei prodotti mediante la attestazione della rispondenza alle disposizioni comunitarie che ne prevedono l’utilizzo la stessa, pur non fungendo da marchio di qualità o di origine, costituisce comunque un marchio amministrativo, che evidenzia la possibilità di libera circolazione del prodotto nel mercato comunitario sez. 2, n. 18 settembre 2009, 36228 . La marcatura CE attesta la conformità del prodotto a standard minimi di qualità e costituisce, pertanto, una garanzia della qualità e della sicurezza della merce che si acquista sez. 3, 9 giugno 2009, n. 23819, concernente proprio un’ipotesi di tentativo di frode in commercio posto in essere anche attraverso la commercializzazione di prodotti recanti il marchio CE contraffatto, indicativo della locuzione China - Export . Invero, se, come si è già affermato, l’interesse tutelato dalla disposizione in esame è quello dello Stato e del consumatore al leale esercizio del commercio ed il reato in essa previsto è integrato dalla semplice messa in vendita di un bene difforme da quello dichiarato, è evidente che la consegna di merce recante una marcatura contraffatta, attestante la rispondenza a specifiche costruttive che assicurano la sussistenza dei requisiti di sicurezza e qualità richiesti dalla normativa comunitaria, determina senz’altro quella divergenza qualitativa che si ritiene necessaria per configurare l’illecito penale. 1.2 Il secondo motivo è manifestamente infondato poiché non va dimenticato che nel caso di misura cautelare reale non è necessaria la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza ma è sufficiente l’esistenza di indizi di reato e nel caso di specie certamente la ricezione di mascherine su cui è stato apposto un marchio CE in assenza delle dovute autorizzazioni integra il fumus necessario presupposto per disporre il sequestro, sicché tale carenza motivazionale non integra violazione di legge ma al più un difetto di motivazione che non può essere dedotto in questa sede. Inoltre è stato precisato che la mancata consegna da parte di colui che pone in vendita prodotti che recano il marchio CE, nel corso di un controllo, della documentazione che attesta la regolarità dell’apposizione di tale marchio, integrando l’omissione di una condotta richiesta agli operatori economici, costituisce un comportamento significativo, in assenza di elementi contrari, della irregolarità dell’apposizione, non comportando un’inammissibile inversione dell’onere della prova della sussistenza del reato di tentativo di frode nell’esercizio del commercio di cui all’art. 515 c.p. In motivazione, la Corte ha precisato che la disciplina del marchio CE - che attesta che il prodotto rispetta i requisiti previsti dall’UE in materia di sicurezza, salute e tutela dell’ambiente - è prevista dal Regolamento n. 765 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 luglio 2008 e dalla decisione n. 768 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 luglio 2008 da cui emerge, tra l’altro, che i distributori devono poter dimostrare che hanno agito con la dovuta diligenza, verificando la regolarità del suddetto marchio, e devono essere in grado di assistere le autorità nazionali nel reperire la necessaria documentazione dimostrativa . Sez. 3, n. 50783 del 26/09/2019 - dep. 16/12/2019, SHI LIANFENG, Rv. 27768801 . 1.3 Non ricorre il vizio di mancanza di motivazione in ordine al periculum in mora poiché il tribunale ha premesso nel corpo della motivazione che dalla documentazione acquisita emerge che le dette mascherine erano state vendute a numerosi clienti e che il sequestro si rendeva necessario per evitare ulteriori commercializzazioni, sicché non assume rilevanza dirimente la circostanza che l’indagato abbia successivamente sospeso le vendite. 1.4 Il quarto motivo non è fondato poiché è intuitivo che le mascherine recanti un marchio CE irregolare, e cioè contraffatto o comunque idoneo ad evocare il marchio CE, debbano essere oggetto di confisca obbligatoria in quanto corpo del reato di cui all’art. 517 c.p Il ricorrente sottolinea l’avvenuta attivazione della procedura di validazione prevista dal D.L. n. 18 del 2020, art. 15 ma va al riguardo osservato che il sequestro preventivo non necessariamente deve esitare nella confisca, poiché ha una funzione cautelare, e la procedura di validazione, ove positivamente esitata, non inficia la validità genetica del vincolo cautelare, ma può rilevare in sede di revoca e quindi potrà preludere all’eventuale restituzione. In conclusione il provvedimento impugnato presenta una motivazione succinta ma idonea alla fase processuale in cui interviene e alla natura reale del vincolo oggetto del riesame e si presenta immune dalle violazioni di legge dedotte. 2.Si impone pertanto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000 in favore della Cassa delle Ammende.