Il figlio diventa collaboratore di giustizia, scattano ostilità e aggressioni verso i genitori: riconosciuto il metodo mafioso

Condanna definitiva per un vicino di casa che ha preso di mira la coppia di anziani, dopo che il loro figlio ha deciso di pentirsi e di collaborare con la giustizia. All’uomo sono addebitati i reati di tentata violenza privata e lesioni volontarie, reati aggravati dall’utilizzo del metodo mafioso. Decisivo per i giudici il contesto in cui si è mosso l’uomo.

Il figlio, componente di un clan, decide di collaborare con la giustizia, divenendo così per i suoi ex sodali uno odiato pentito. E per questo i genitori debbono subire i comportamenti aggressivi e violenti di un vicino di casa, che viene conseguentemente condannato per i reati di tentata violenza privata e lesioni volontarie, reati resi più gravi, secondo i giudici, dal ricorso al metodo mafioso. Cassazione, sentenza n. 32533/20, sez. V penale, depositata il 19 novembre . Scenario della vicenda è la provincia pugliese. All’origine del caso giudiziario c’è la decisione di un esponente di un clan criminale di diventare collaboratore di giustizia . Immaginabile la reazione dei suoi ex sodali A rimetterci sono però anche i genitori del pentito, presi di mira da un vicino di casa proprio dopo la decisione assunta dal figlio. Le condotte aggressive tenute dall’uomo nei confronti della coppia di anziani sono così gravi – minacce e aggressione – da avere uno strascico giudiziario. E per i giudici di merito l’uomo è evidentemente colpevole dei reati di tentata violenza privata e lesioni volontarie , aggravati dal ricorso al metodo mafioso . In sostanza, le azioni ai danni dei due anziani sono state compiute con tipiche modalità mafiose, in quanto volte a punirli per la scelta presa dal figlio, cioè collaborare con la giustizia. Col ricorso in Cassazione l’avvocato contesta l’applicazione dell’aggravante prevista per i reati commessi con metodo mafioso . In particolare, il legale sostiene che i fatti contestati sono stati commessi nel contesto dei deteriorati rapporti di vicinato tra il suo cliente e le vittime, e, quindi, non costituiscono una ritorsione di stampo mafioso per la collaborazione con la giustizia intrapresa dal figlio della coppia . A questo proposito, il difensore parla di mera ipotesi suggestiva, ispirata esclusivamente dalle dichiarazioni rese a posteriori dal pentito e rimaste prive di riscontri , e aggiunge che il suo cliente non ha agito per conto o nell’interesse di una organizzazione mafiosa, condizione invece necessaria per la configurabilità dell’aggravante , non essendoci prove di una sua vicinanza ad ambienti mafiosi, avendo egli al contrario operato costantemente nell’ambito della microcriminalità, come del resto testimoniato dalla bassa caratura dei precedenti penali da cui risulta gravato . Peraltro, lo stesso clan a cui si fa riferimento non può ritenersi sodalizio effettivamente caratterizzato dalla necessaria connotazione mafiosa, assurgendo al più ad una mera associazione a delinquere ordinaria , conclude il legale. Le obiezioni difensive non convincono però i giudici della Cassazione , che confermano in toto la condanna pronunciata in appello. In premessa, i magistrati ricordano che l’aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso non presuppone necessariamente l’esistenza di un’associazione riconducibile all’art. 416- bis c.p., essendo sufficiente, ai fini della sua configurabilità, il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso . Ciò significa che l’aggravante è configurabile, pertanto, con riferimento tanto ai reati-fine commessi nell’ambito di un’associazione criminale comune, quanto nel caso di reati posti in essere anche da soggetti estranei al contesto associativo . Tirando le somme, per la sussistenza dell’aggravante è sufficiente che la condotta assuma veste tipicamente mafiosa e cioè che il soggetto ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio criminale . Tornando alla vicenda, i giudici della Cassazione ritengono irrilevante il richiamo difensivo alla mancata dimostrazione di eventuali legami tra l’uomo sotto processo ed organizzazioni dal comprovato carattere mafioso . Ciò che conta, invece, è la peculiarità della condotta attribuita all’uomo, ritenuta idonea per riconoscere l’aggravante del metodo mafioso . A completare il quadro, infine, anche le dichiarazioni del pentito e la vicenda relativa alla sua scelta collaborativa, poiché, osservano i giudici, tali elementi forniscono una valida spiegazione del contesto in cui è stata realizzata l’azione criminosa , contesto sfruttato per fini personali dall’uomo nelle condotte aggressive tenute nei confronti della coppia di anziani.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 27 ottobre – 19 novembre 2020, n. 32533 Presidente Palla – Relatore Pistorelli Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata la Corte d'appello di Bari ha confermato la condanna di Si. Ma. per i reati di tentata violenza privata e lesioni volontarie aggravati ai sensi dell'articolo 416-bis. 1 c.p. dal ricorso del metodo mafioso, commessi ai danni di Ta. Ro. e Iu. Ca., genitori di Ta. Vi. An. collaboratore di giustizia. 2. Avverso la sentenza ricorre l'imputato deducendo erronea applicazione della legge penale in merito alla configurabilità dell'aggravante di cui all'articolo 416-bis.1 c.p. In proposito osserva come i fatti contestati sarebbero stati commessi nel contesto dei deteriorati rapporti di vicinato tra l'imputato e le vittime, ma non costituirebbero una ritorsione di stampo mafioso per la collaborazione intrapresa dal figlio della coppia. Ed infatti, secondo il ricorrente, alcun elemento è stato individuato dalla Corte a sostegno di quella che risulterebbe essere una mera ipotesi suggestiva, ispirata esclusivamente dalle dichiarazioni rese a posteriori dal Ta. Vi. An. e rimaste prive di riscontri. In realtà alcuna evidenza dimostra che l'imputato abbia agito per conto o nell'interesse di una organizzazione mafiosa, condizione invece necessaria per la configurabilità dell'aggravante di cui si tratta, o anche solo la sua vicinanza ad ambienti mafiosi, avendo egli al contrario operato costantemente nell'ambito della microcriminalità, come del resto testimoniato dalla bassa caratura dei precedenti penali da cui risulta gravato. Peraltro lo stesso clan Di Cataldo per conto del quale la sentenza ipotizza abbia agito nemmeno può ritenersi sodalizio effettivamente caratterizzato dalla necessaria connotazione mafiosa assurgendo al più ad una mera associazione a delinquere ordinaria. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato e deve pertanto essere rigettato. 2. Va anzitutto ricordato come, secondo l'orientamento decisamente maggioritario nella giurisprudenza di questa Corte, l'aggravante dell'utilizzo del metodo mafioso non presuppone necessariamente l'esistenza di un'associazione riconducibile all'articolo 416-bis c.p., essendo sufficiente, ai fini della sua configurabilità, il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell'agire mafioso. La stessa è pertanto configurabile con riferimento tanto ai reati-fine commessi nell'ambito di un'associazione criminale comune, quanto nel caso di reati posti in essere anche da soggetti estranei al contesto associativo ex multis Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, P.M. in proc. Vicidomini, Rv. 271103 Sez. 2, n. 36431 del 02/07/2019, Bruzzese, Rv. 277033 . In altri termini per la sussistenza dell'aggravante nella forma evocata è sufficiente che la condotta assuma veste tipicamente mafiosa e cioè che l'agente ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio del genere anzidetto Sez. 2, n. 38094 del 05/06/2013, P.M. in proc. De Paola, Rv. 257065 . Conseguentemente infondate sono le censure in diritto svolte dal ricorrente in merito alla mancata dimostrazione di eventuali legami tra l'imputato ed organizzazioni dal comprovato carattere mafioso. La Corte territoriale ha invece evidenziato i caratteri della condotta attribuita all'imputato - ricostruzione che nella sua oggettività non è stata contestata dal ricorso, nel quale anzi si ammette che il Si. si sia reso autore dei fatti addebitatigli - ritenuti idonei e di per sé sufficienti ad integrare l'indicata aggravante, illustrazione con la quale sostanzialmente il ricorso non si è confrontato. La sentenza ha poi valorizzato le dichiarazioni del Ta. e la vicenda relativa alla sua scelta collaborativa, precisando come tali elementi forniscano una valida spiegazione del contesto in cui è stata realizzata l'azione criminosa, senza però affermare che l'imputato abbia per forza agito per conto del sodalizio dal quale il citato Ta. si è dissociato, piuttosto che limitarsi a sfruttare tale contesto per propri fini personali, eventualità che di per sé non pregiudica la connotazione oggettiva del metodo utilizzato per minacciare ed aggredire le vittime dei reati contestati. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.