Alla Corte Costituzionale la quaestio sull’applicazione del 41-bis agli internati

Non può ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis ord. pen. nella parte in cui prevede la facoltà di sospendere l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla stessa legge, con l’adozione obbligatoria delle misure enunciate nel comma 2-quater, nei confronti degli internati, assoggettati a misura di sicurezza detentiva.

Così la Prima sezione di legittimità che sospende il procedimento e manda gli atti alla Consulta. Due i versanti in cui si nutrono i dubbi di contrasto con la Costituzione 1 quello attinente al principio di legalità anche nella sua veste convenzionale ex art. 7 CEDU , unito all’irragionevolezza dell’ eadem disciplina per detenuti e internati , dal momento che, rendendo sostanzialmente identico, per i soggetti sottoposti al regime differenziato, il concreto regime applicativo della pena e della misura di sicurezza assoggettano alla medesima regolamentazione istituti funzionalmente differenti, obliterando la distinzione, riconosciuta anche in Costituzione, tra gli stessi 2 la funzione rieducativa della pena, in quanto – preso atto che in caso di applicazione cumulativa di pena e misura di sicurezza si avrà una sanzione complessiva sproporzionata rispetto al quantum della colpevolezza dell’agente – fino a quando l’internato è sottoposto al regime del 41- bis non potrà accedere a misure extramurarie licenze trattamentali o finali di esperimento rendendo pressoché impossibile la sperimentazione di un percorso di recupero e perciò anche la revoca o comunque la sostituzione della misura di sicurezza detentiva . La fattispecie concreta. Un uomo viene condannato a tre diverse sentenze di condanna per associazione a delinquere di stampo mafioso, incendio e tentata estorsione, unificate nel cumulo a quattordici anni di reclusione, con l’applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di due anni. Finita di espiare la pena il 4 gennaio 2016, l’esecuzione della misura di sicurezza ha avuto inizio il 6 gennaio 2016, con fine dell’esecuzione prevista attuale per il 6 gennaio 2021, dopo due ordinanze di proroga del magistrato di sorveglianza. L’internato continua ad essere sottoposto al carcere duro, dal 2010, con ultima proroga con decreto ministeriale del 24 luglio 2018. Provvedimento che veniva impugnato dinanzi al tribunale di sorveglianza capitolino e poi, il relativo rigetto, con ricorso per cassazione. Il perimetro del sindacato di legittimità. La Suprema Corte ricorda che il decreto che dispone il carcere duro è limitato alla violazione di legge, sicché il sindacato di cassazione non può estendersi al controllo dell’iter giustificativo della decisione, a meno che questo sia del tutto mancante o apparente . Non è il caso in esame in quanto, per gli ermellini, le censure appaiono afferire a difetti di motivazione, mentre invece il tribunale di sorveglianza romano – laddove aggancia il 41- bis al rischio di riannodare i legami col sodalizio di appartenenza – ha assolto all’obbligo di una motivazione giuridicamente corretta e logicamente congrua. Permangono apprezzabili differenze tra pena e misura di sicurezza. Viene accolta invece la richiesta difensiva di sollevare incidente di costituzionalità nella misura in cui si consente di applicare il regime differenziato agli internati. Punto di partenza della ritenuta fondatezza della questione è anzitutto che, pur essendosi assottigliate nel tempo le differenze tra pena e misura di sicurezza, le stesse mantengono sul piano dei presupposti applicativi, della natura e degli scopi 1 in primo luogo i luoghi di detenzione, diversi tra condannati e internati 2 per poi continuare con la diversità delle misure extramurarie applicabili alle due tipologie di sanzione penale solo agli internati può essere concessa la licenza finale di esperimento, ma non i permessi premio per gli internati l’unica misura alternativa concedibile è la semilibertà e che soltanto per loro può essere disposta in ogni tempo in quanto le misure di sicurezza sono legate alla ‘pericolosità sociale’, mancando delle componente retributiva tipica della pena e del principio di proporzionalità . Il nodo centrale il carcere duro omologa le due sanzioni penali. Tuttavia, per la Suprema Corte, qualora l’internato venga sottoposto al 41- bis , si assiste alla sospensione degli istituti trattamentali fondamentali lavoro, istruzione, contatti con l’esterno e misure extramurarie , la quale comporta una sostanziale omologazione della misura di sicurezza alla pena detentiva, non distinguendosi più il contenuto delle due sanzioni penali . Peraltro, l’interpolazione alla norma, da parte della legge n. 94 del 2009 da può comportare a comporta ha eliminato qualsiasi discrezionalità nell’articolazione delle limitazioni poste a fondamento del trattamento penitenziario. Pertanto, come hanno rilevato i difensori del ricorrente, il regime differenziato vanifica qualsiasi obiettivo che si dovrebbe raggiungere con la casa di lavoro. Misura di sicurezza, questa, che prevede lo svolgimento di attività lavorative, ma essendo in 41- bis non possono trovare alcuno spazio, in quanto il detenuto è costretto a restare chiuso nella propria camera detentiva per 21 o 22 ore al giorno. Il richiamo alla giurisprudenza della Corte EDU. La Cassazione dubita quindi di tale regime applicativo che svilisce, identificandole sul piano contenutistico, pena e misura di sicurezza. Si richiama anche la giurisprudenza EDU sulla Sicherungsverwahrung tedesca ossia una misura di sicurezza di durata indeterminata, rivolta ai delinquenti per tendenza, equiparabile alle misure di sicurezza italiane della colonia agricola e casa di lavoro che, una volta riconosciuta la natura dissuasiva e punitiva della sanzione penale, ne ha stigmatizzato il suo dispiegarsi secondi i canoni della pena e non, come dovrebbe essere, assumere gli specifici connotati della misura di sicurezza volta ad eliminare la pericolosità sociale e non a punire per la colpevolezza Corte Edu, 17 dicembre 2009, M. contro Germania . Contrasto con il principio di legalità e la necessità di discipline differenti. Finisce in sostanza per ledersi, in combinato disposto, il principio di legalità per le misure di sicurezza, di fatto vanificato dall’applicazione anche all’internato del carcere duro e della mancata differenziazione tra pena e misura di sicurezza che, per colpa del 41- bis , finiscono per essere incostituzionalmente e irragionevolmente equiparate. Il 41- bis non può essere l’escamotage per allungare la sanzione penale in misura sproporzionata. Non solo, ma i giudici di legittimità affermano che l'applicazione dell'articolo 41- bis ord. pen. costituisce un elemento che influisce in maniera essenziale sui meccanismi della proroga della restrizione in regime sostanzialmente carcerario, concorrendo a rendere tale misura una sorta di pena aggiuntiva sganciata però dal fatto e determinabile solo, in astratto, nei massimi edittali perciò sostanzialmente ‘indeterminata’. Il limite massimo, oltre il quale la misura non può essere ulteriormente prorogata così di certo dopo il d.l. n. 52/2014 , non significa anche che la durata, ancorché determinabile nella sua massima estensione, sia anche determinata, atteso che la misura potrà essere ripetutamente prorogata senza che ciò possa essere all'origine previsto , fino al massimo edittale della pena prevista per il reato più grave e, dunque, per una durata comunemente assai superiore rispetto a quella della pena in concreto inflitta. Alterato il meccanismo delle proporre e vanificato il percorso di recupero dell’internato. La sottoposizione al regime dell'articolo 41- bis ord. pen. di un internato in misura di sicurezza detentiva altera, anche il fisiologico meccanismo delle proroghe, non consentendo al sottoposto di accedere alle misure volte a un graduale reinserimento e ostacolando, ontologicamente, gli ordinari elementi del trattamento tra cui i frequenti contatti con l'ambiente familiare , per questa via consentendo la sottoposizione dell'internato a una sanzione restrittiva di durata tendenzialmente indeterminata.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, ordinanza 10 settembre – 2 novembre 2020, n. 30408 Presidente Di Tomassi – Relatore Renoldi Ritenuto in fatto 1. N.S. è stato definitivamente condannato 1 con sentenza in data 30 novembre 2007 del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Napoli, irrevocabile il 27 luglio 2008, per il reato continuato di incendio aggravato in concorso artt. 110 e 423 c.p., art. 112 c.p., comma 1, n. 1, art. 61 c.p., n. 2, D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7 , commesso il OMISSIS e di tentata estorsione in concorso artt. 56 e 110 c.p., art. 629 c.p., commi 1 e 2, art. 112 c.p., comma 1, n. 1 , commesso in epoca anteriore e prossima al OMISSIS , alla pena di quattro anni di reclusione e di 1.200,00 Euro di multa pena detentiva eseguita dal 1 agosto 2004 al 1 agosto 2008 2 con sentenza in data 22 aprile 2013 della Corte di appello di Napoli, irrevocabile il 25 novembre 2014, che in riforma della sentenza in data 22 marzo 2004 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, lo ha ritenuto responsabile del reato associazione di tipo mafioso art. 416-bis c.p., commi 1, 3, 4, 5 e 8 accertato fino al 1996, con condotta perdurante, alla pena di dieci anni di reclusione, così rideterminata a seguito del riconoscimento della continuazione con i fatti oggetto della sentenza sub 1 e in essa assorbita la pena inflitta con quest'ultima, con applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di due anni 3 con sentenza in data 6 dicembre 2013 della Corte di appello di Napoli, emessa in riforma della sentenza in data 20 luglio 2011 pronunciata in esito a giudizio abbreviato dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Napoli, irrevocabile il 17 febbraio 2015, alla pena di otto anni di reclusione, per il reato di associazione di tipo mafioso art. 416-bis c.p., commi 1, 3, 4, 5 e 8 , con la recidiva reiterata specifica art. 99 c.p., commi 1, comma 2, n. 1 e comma 4 , accertato dal OMISSIS , con applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di due anni. Dette condanne sono state, poi, unificate nel provvedimento di cumulo emesso il 15 dicembre 2015 dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Napoli, notificato il 4 gennaio 2016, che ha determinato la pena da scontare in quattordici di anni reclusione, con applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di due anni. Da tale pena principale sono stati detratti, a seguito di due provvedimenti emessi ex art. 657 c.p.p. dal Procuratore generale della Repubblica di Napoli, rispettivamente in data 29 dicembre 2015 e 4 gennaio 2016, il periodo di reclusione patita dal 1 agosto 2004 al 1 agosto 2008 corrispondente all'espiazione della pena inflitta in relazione alla sentenza indicata sub 1 , il periodo di un anno, undici mesi, tre giorni di reclusione, corrispondente alla custodia cautelare applicata in relazione alla sentenza indicata sub 2 , pronunciata il 22 aprile 2013 dalla Corte di appello di Napoli dal 30 aprile 1998 al 2 aprile 2000 , nonchè il periodo di quattrocentocinque giorni di riduzione della pena per liberazione anticipata relativamente ai semestri dal 31 marzo 2010 al 30 settembre 2014, disposta con ordinanza in data 14 ottobre 2015 del Magistrato di sorveglianza di Milano, sicchè la pena residua da eseguire è stata determinata in otto anni, nove mesi e sedici giorni di reclusione. Pena che, secondo quanto riportato nella posizione giuridica agli atti, è stata integralmente espiata dal 31 marzo 2010 al 4 gennaio 2016. Va rilevato, inoltre, che nel corso del periodo di esecuzione della predetta pena detentiva 1 con ordinanza in data 13 gennaio 2012 della Corte di assise di appello di Napoli era stata disposta la custodia cautelare in carcere di N., notificata in pari data all'interessato, il quale era stato condannato, con sentenza della stessa Corte in data 19 dicembre 2011, emessa in riforma di quella della Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere del 5 aprile 2007, alla pena dell'ergastolo per omicidio pluriaggravato, commesso al fine di agevolare e consolidare il predominio dell'associazione camorristica di appartenenza clan dei casalesi , misura rimasta in esecuzione fino al 9 maggio 2013, data nella quale la Corte di cassazione ha annullato, con rinvio, la sentenza di condanna e, con essa, anche la misura cautelare, disponendone contestualmente la immediata cessazione non risultando che la condanna sia stata confermata nel giudizio di rinvio, nè che la custodia cautelare subita sia stata riconosciuta in fungibilità con le pene detentive definitive 2 con ordinanza del Magistrato di sorveglianza di Milano in data 25 ottobre 2013, notificata il 31 ottobre 2013, è stata, quindi, disposta nei confronti di N. l'applicazione della misura di sicurezza della casa di lavoro, per la durata di due anni, in conseguenza della dichiarazione di delinquenza abituale pronunciata a suo carico ex art. 103 c.p., da cui è derivata l'emissione, da parte della Procura milanese, dell'ordine di consegna e di accompagnamento del 25 marzo 2014. L'esecuzione della misura di sicurezza ha avuto inizio a partire dal 6 gennaio 2016, con fine dell'esecuzione prevista, attualmente, per il 6 gennaio 2021, essendo stata prorogata con le ordinanze del Magistrato di sorveglianza di Udine in data 26 ottobre 2017 e in data 20 novembre 2019, rispettivamente per il periodo di due anni e di un anno. Inoltre, per quanto di interesse in questa sede, va ricordato che, nei confronti dello stesso N., è stata disposta, con decreto del Ministro della Giustizia del 24 luglio 2018, la proroga, per la durata di due anni, del regime differenziato previsto dall'art. 41-bis, comma 2, Ord. pen., applicatogli a partire dal 31 luglio 2010 e già prorogato, in precedenza, con decreto ministeriale in data 28 luglio 2016. 1.1. Avverso l'ultimo provvedimento di proroga del regime differenziato, il Difensore dell'internato ha presentato reclamo al Tribunale di sorveglianza di Roma, deducendo, da un lato, l'illegittimità costituzionale dell'art. 41-bis Ord. pen. nella parte in cui dispone che tale regime possa essere applicato anche all'internato, con una sostanziale equiparazione tra la misura di sicurezza e la reclusione vera e propria, senza un termine prestabilito, censurandosi che la sottoposizione al regime speciale abbia reso impossibile lo svolgimento di attività trattamentali presso la casa di lavoro e, dall'altro lato, l'assenza di circostanze nuove idonee ad affermare il rischio di attuali collegamenti con l'organizzazione criminale di appartenenza, lamentando, altresì, la mancata considerazione dell'annullamento con rinvio di una sentenza di condanna per omicidio, disposto dalla Corte di cassazione. 1.2. Con ordinanza del 12 dicembre 2019, il Tribunale di sorveglianza ha respinto il reclamo. Dopo avere premesso che la proroga del regime differenziato deve essere disposta, in base al comma 2-bis dell'art. 41-bis Ord. pen., nel caso in cui risulti la persistente capacità del detenuto o dell'internato di tenere contatti con le organizzazioni criminali, senza che ciò debba necessariamente tradursi nella presenza di elementi nuovi e diversi rispetto a quelli già posti alla base delle precedenti proroghe, quando quelli già esistenti, in assenza di elementi di senso contrario, per la loro consistenza e pregnanza siano in grado di dimostrare la persistenza attuale della capacità del detenuto di mantenere i collegamenti con l'associazione criminale di appartenenza, il Collegio capitolino ha ritenuto sussistente il concreto pericolo che N.S., ove sottoposto al regime detentivo ordinario, possa mantenere i suddetti contatti, contribuendo, con le proprie personali conoscenze e capacità professionali, a sostenere e a gestire, in termini decisionali, le attività illecite del gruppo malavitoso di appartenenza. Ciò in ragione, innanzitutto, del suo spessore criminale , ritenuto alla luce del fatto che N. è stato condannato per associazione di stampo mafioso, commesso fino al 2009 a suo carico risulta pendente un procedimento per un duplice omicidio, pur risalente nel tempo, commesso nell'ambito del sodalizio criminale di appartenenza, per il quale è stato condannato in sede di merito, benchè la sentenza di appello sia stata annullata, con rinvio, dalla Corte di cassazione dalle note informative degli organi investigativi emerge che egli è elemento di rilievo del clan dei Casalesi e, in particolare, di una delle articolazioni interne più potenti, facente capo a Z.M., al cui interno ha mostrato una notevole capacità di far brillare gli ordigni utilizzati per le estorsioni e ha realizzato alcuni dei bunker per la latitanza del capo del clan, durata 15 anni e terminata soltanto nel 2011. Inoltre, il predetto giudizio è stato fondato sull'attuale operatività del clan di riferimento, ritenuta comprovata dalle recenti indagini che hanno coinvolto il clan S., alleato a quello degli Z., e quello dei C., a riprova della attuale fibrillazione del panorama criminale presente sul territorio dall'emissione di tredici ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di amministratori pubblici e imprenditori affiliati al clan che hanno monopolizzato gli appalti per la manutenzione della rete idrica regionale, di ventiquattro misure cautelari riguardanti gli appalti dell'Ospedale civile di Caserta, nonchè dal sequestro di un centro commerciale ritenuto nella disponibilità del capo del clan, Z.M., del valore di 60 milioni di Euro, il cui acquisto sarebbe avvenuto grazie agli investimenti e alle attività svolte in suo sostegno dal clan dalle numerose operazioni che hanno interessato esponenti di vertice, affiliati e fiancheggiatori del clan, tra cui l'ordinanza di custodia cautelare in carcere eseguita il 3 marzo 2018 nei confronti di B.M. e altri, ritenuti affiliati al clan dei Casalesi e responsabili di ricettazione aggravata dal metodo mafioso, associazione mafiosa, estorsione, detenzione di armi da guerra e materiale esplosivo, nonchè detenzione e porto di armi clandestine, nonchè dall'ordinanza di custodia cautelare in carcere, eseguita il 12 aprile 2018, nei confronti di I.N., affiliato al clan e ritenuto responsabile di associazione mafiosa dallo stato in libertà di N.A., fedelissimo del boss Z.M., di S.W., figlio del capo del clan F., di Z.C., di S.I. e di R.C Quanto all'eccezione di incostituzionalità sollevata dalla difesa, il Tribunale ha osservato che non vi sono elementi comprovanti che il regime speciale applicato a N.S. abbia trasformato la misura di sicurezza in una vera e propria pena detentiva, peraltro senza limiti di durata, considerato che dalla relazione comportamentale della Casa circondariale di Tolmezzo in data 6 dicembre 2019 è risultato che egli ha svolto attività lavorativa presso la locale serra, in qualità di ortolano e che, al momento, il medesimo lavora con mansioni di addetto alle pulizie e alla distribuzione dei pasti all'interno della sezione di appartenenza. 2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione lo stesso N., per mezzo dei difensori di fiducia, avv.ti Valerio Vianello Accorretti e Piera Farina, deducendo due distinti motivi di impugnazione. 2.1. Con il primo motivo, il ricorso denuncia l'illegittimità costituzionale dell'art. 41-bis Ord. pen., in relazione agli artt. 208 e 216 c.p., per violazione dell'art. 3 Cost., art. 27 Cost., comma 3 e dell'art. 117 Cost. in relazione all'art. 3 Convenzione EDU, nella parte in cui tale disposizione prevede che il regime differenziato possa applicarsi anche ai soggetti internati eccezione già presentata nella fase di merito e ritenuta manifestamente infondata dal Tribunale di sorveglianza sul rilievo che non sussisterebbero elementi per ritenere che il regime speciale concretamente applicato a N. svuoti di contenuto la misura di sicurezza cui è sottoposto, trasformandola in una vera e propria pena detentiva senza limiti di durata. Dopo aver ricordato che, nel vigente ordinamento, le misure di sicurezza personali non hanno un carattere punitivo, ma svolgono una finalità rieducativo-risocializzante finalizzata a neutralizzare gli elementi di pericolosità sociale che ne hanno giustificato l'applicazione, il ricorso lamenta che in caso di applicazione di una misura detentiva, la sottoposizione al regime differenziato previsto dall'art. 41-bis Ord. pen. rischierebbe di assoggettare l'internato a una misura perpetua, atteso che proprio la proroga di tale regime finirebbe per sottoporlo, senza un limite temporale prevedibile, a una vera e propria detenzione inframurarià, dopo l'intera espiazione della sua condanna. E ciò tanto più ove si consideri che le caratteristiche del regime differenziato, che sottopone l'internato alla chiusura nella propria camera detentiva per 21 o 22 ore al giorno, renderebbero vani gli obiettivi trattamentali della casa di lavoro, posto che le ore rimanenti non sarebbero, comunque, sufficienti a svolgere l'eventuale attività lavorativa. Sotto altro profilo, la contemporanea applicazione della misura di sicurezza e del regime detentivo differenziato ex art. 41-bis Ord. pen. non consentirebbe, di fatto, l'accesso alle licenze trattamentali di cui all'art. 53 Ord. pen., sempre negate all'internato, impedendogli di ottenere, nelle successive valutazioni sulla pericolosità da parte del magistrato di sorveglianza, una positiva valutazione del suo percorso in misura di sicurezza. Dunque, la contestuale applicazione di una misura di sicurezza detentiva e del regime di cui all'art. 41-bis Ord. pen. concretizzerebbe anche una discriminazione, in violazione dell'art. 3 Cost. e dell'art. 14Cedu, rispetto agli altri internati, sottoposti alla medesima misura ma non ristretti in regime ex art. 41-bis Ord. pen., i quali sarebbero posti nella possibilità di svolgere le attività tipiche della casa di lavoro e di ottenere una pronuncia di cessata pericolosità da parte del giudice competente. Inoltre, la contemporanea applicazione di questi istituti violerebbe l'art. 27 Cost., comma 3, poichè annullerebbe il fine rieducativo e risocializzante della misura, non permettendo al soggetto di esservi sottoposto in maniera adeguata nonchè l'art. 117 Cost. e l'art. 3 della Convenzione Edu, atteso che la misura di sicurezza verrebbe trasformata in una illegittima prosecuzione della pena detentiva, già interamente scontata, sottoponendo il soggetto internato a un trattamento detentivo equivalente senza alcun titolo di condanna e senza alcuna scadenza temporale prevedibile. 2.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b , la inosservanza o erronea applicazione dell'art. 41-bis Ord. pen., in ragione della apparenza della motivazione dell'ordinanza impugnata, in quanto non concretamente riferibile alla posizione del ricorrente, non pertinente rispetto agli argomenti difensivi sviluppati in sede di reclamo e distorsiva rispetto a quanto stabilito nelle sentenze di merito relative al ricorrente, con conseguente configurabilità del vizio di violazione di legge. Benchè il reclamo abbia evidenziato come le risultanze investigative valorizzate dal provvedimento di proroga concernessero fatti ormai datati nel tempo, e come N. non fosse più detenuto, ma solo internato presso la casa di lavoro, il Tribunale di sorveglianza si sarebbe limitato a menzionare soltanto le condanne subite dal soggetto e le ultime operazioni di polizia che avrebbero interessato il clan di appartenenza, affermando che tali elementi giustificassero la proroga del regime detentivo differenziato. In questo modo, tuttavia, l'ordinanza avrebbe obliterato il fatto che N. aveva ricoperto, all'interno della consorteria mafiosa, il ruolo di mero affiliato di Z.M., senza ricoprire alcun ruolo apicale che in relazione all'imputazione di omicidio la Corte di cassazione, nel disporre l'annullamento della sentenza di appello, aveva sottolineato le carenze della motivazione in relazione alla rilevanza causale della condotta ascritta allo stesso N. che la nota della D.N. A. del 18 luglio 2018 avrebbe riferito che, secondo le stesse Forze di polizia, la famiglia Z., di cui l'ordinanza impugnata non avrebbe dimostrato la continuità operativa , non sarebbe più attiva, in quanto, dal 2009, non verrebbero commessi omicidi che il Tribunale di sorveglianza sarebbe rimasto indifferente al fatto che la condotta partecipativa di N. si arresterebbe al 2006 e che, dopo tale data, non vi sarebbero ulteriori addebiti riferiti all'internato, nonchè alla circostanza che la maggior parte dei sodali del clan sarebbe detenuto e che N. avrebbe integralmente espiato la pena inflittagli e avrebbe, infine, obliterato gli esiti del trattamento rieducativo sin qui portato avanti. In questo modo, dunque, il Tribunale capitolino non avrebbe motivato in modo autonomo e non si sarebbe soffermato sulla concreta e attuale pericolosità dell'odierno ricorrente, analizzando la potenziale sussistenza di contatti con la criminalità organizzata, tali da impedire l'esecuzione della misura di sicurezza presso la casa di lavoro, di fatto ponendo a carico dell'internato l'onere di dimostrare la cessazione dei collegamenti con la criminalità organizzata, in patente contrasto con la consolidata giurisprudenza, di legittimità, in tal modo pervenendo a una interpretazione che renderebbe incostituzionale il comma 2-bis dell'art. 41-bis Ord. pen. Nè l'ordinanza avrebbe indicato i soggetti, attualmente in libertà e appartenenti al clan, che potrebbero rimettersi in contatto con lo stesso N 3. In data 15 maggio 2020, è pervenuta in Cancelleria la requisitoria scritta del Procuratore generale presso questa Corte, con la quale è stata sollecitata la declaratoria di inammissibilità del ricorso. Quanto alla doglianza prospettata nel primo motivo di impugnazione, la questione sarebbe manifestamente infondata, in quanto, premessa la legittimità costituzionale dell'art. 41-bis Ord. pen., non contrastante con la funzione rieducativa della pena si cita Corte costituzionale, ordinanze 13 dicembre 2004, n. 417 e 25 maggio 2010, n. 190 , l'equiparazione tra i detenuti e gli internati non sarebbe affatto irragionevole, dal momento che per entrambe le categorie di ristretti potrebbero ricorrere le esigenze di sicurezza che, con il suddetto regime, si intenderebbero tutelare. Quanto al secondo motivo, ricordato che in subiecta materia il ricorso è ammissibile unicamente per violazione di legge, si osserva che la motivazione dell'ordinanza impugnata risulterebbe coerente con il dato normativo e con i principi di diritto fissati in materia dalla costante interpretazione giurisprudenziale. 4. In data 15 giugno 2020 è pervenuta una memoria a firma degli avv.ti Piera Farina e Valerio Vianello Accorretti, contenente note di replica alla requisitoria del Procuratore generale, con la quale i due difensori chiedono, nell'interesse di N.S., che il Collegio voglia sollevare, in relazione al primo motivo del ricorso, questione di costituzionalità dell'art. 41-bis Ord. pen., atteso che, come già dedotto dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Roma, la contemporanea applicazione del regime differenziato e della misura di sicurezza detentiva snaturerebbe la ratio e gli obiettivi di quest'ultima. Ciò in quanto le regole del regime derogatorio impedirebbero di fruire degli strumenti rieducativi e trattamentali tipici della casa di lavoro, rendendo il periodo di sottoposizione nella sostanza una prosecuzione - senza scadenza prefissata e senza titolo esecutivo - di una vera e propria detenzione, tra l'altro con le restrizioni derogatorie peculiari del regime di cui all'art. 41-bis Ord. pen Inoltre, la sentenza n. 417 del 2004 della Corte costituzionale non riguarderebbe la coerenza tra il regime di cui all'art. 41-bis Ord. pen. e la finalità rieducativa della pena, bensì la ritenuta costituzionalità di alcune innovazioni legislative che, in tesi, avrebbero introdotto una presunzione di pericolosità, con applicazioni indiscriminate del regime derogatorio, superabili con uno sforzo dimostrativo a carico della sola difesa. Del pari, la sentenza n. 190 del 2010 della Corte costituzionale, si sarebbe occupata soltanto della ritenuta eliminazione, a seguito della riforma del 2009, di ogni controllo sulla legalità del provvedimento ministeriale e della legittimità del limite delle due ore d'aria. Con la sentenza n. 376 del 1997, invece, il Giudice delle Leggi, nel ritenere compatibile il regime dell'art. 41-bis Ord. pen. con la finalità rieducativa della pena, avrebbe specificato che la sottoposizione a tale disciplina di rigore possa considerarsi legittima solo quando non comporti la soppressione o la sospensione delle attività di osservazione e di trattamento individualizzato previste dall'art. 13 Ord. pen., nè la preclusione alla partecipazione del detenuto ad attività culturali, ricreative, sportive e di altro genere, volte alla realizzazione della sua personalità, le quali dovrebbero semmai essere organizzate, per i detenuti soggetti a tale regime, con modalità idonee a impedire i contatti e i collegamenti che il provvedimento ministeriale intende evitare. E a riprova di ciò, la stessa Corte costituzionale, negli anni, avrebbe censurato alcune disposizioni penitenziarie che regolamentavano aspetti del regime differenziato estranei alle esigenze di eccezionale tutela della sicurezza che lo giustificavano. In ogni caso, con tale pronuncia la Consulta non avrebbe minimamente affrontato la questione della particolare posizione dell'internato sottoposto al regime dell'art. 41-bis, che secondo la difesa sarebbe chiaramente diversa rispetto al detenuto, che si trovi in attesa di giudizio o in esecuzione di una condanna. Fermo restando che essa avrebbe comunque ribadito che l'applicazione del regime derogatorio è legittima sempre che non snaturi del tutto le finalità della pena, ovvero, nel caso di specie, della misura di sicurezza, travolgendo la necessità di bilanciare i due interessi in gioco. Nel caso in esame, invero, l'applicazione dell'art. 41-bis Ord. pen. non lascerebbe alcuno spazio al percorso trattamentale tipico della casa di lavoro, configurando chiaramente una mera forma di detenzione, priva finanche delle possibilità trattamentali proprie della pena. Per quanto, invece, attiene alle due sentenze emesse dalla Corte di cassazione, entrambe richiamate dal Procuratore generale, la n. 4880 del 2015, pronunciata dalle Sezioni unite, avrebbe riguardato la natura giuridica della confisca nell'ambito delle misure di prevenzione personali mentre la n. 22083 dl 2011 della Prima Sezione penale, occupandosi della questione qui invocata, avrebbe, da un lato, ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità relativamente alla violazione del principio rieducativo della pena e non della misura di sicurezza e, dall'altro lato, avrebbe considerato la questione come una generale petizione di principio , atteso che il ricorrente, in quel caso, in coincidenza con il giudizio del Tribunale di sorveglianza di Roma sul reclamo, si trovava a espiare la pena. Al contrario, N. sarebbe sottoposto, da anni, pur essendo internato, alle medesime regole penitenziarie applicate ai detenuti condannati assoggettati al regime dell'art. 41-bis, senza poter individuare, diversamente da quanto avviene per i detenuti, alcun traguardo temporale ben definito. E pacificamente egli non starebbe fruendo, neanche in parte, del percorso trattamentale tipico delle misure di sicurezza detentive, nè tanto meno del trattamento rieducativo proposto ai detenuti in esecuzione pena, trovandosi a eseguire una restrizione meramente punitiva e non preventiva, non comprendendosi su quali aspetti si potrebbe valutare, in futuro, l'evoluzione della sua personalità. In questo modo, la sottoposizione al regime differenziato dell'internato paleserebbe quell'indebito sbilanciamento a favore delle esigenze di sicurezza, peraltro incerte nella loro prospettiva temporale e senza alcuna protezione delle finalità risocializzanti tipiche della misura di sicurezza detentiva, che, contrasterebbe con la prospettiva delineata dalla Corte costituzionale con la già citata sentenza n. 376 del 1997. Considerato in diritto 1. Osserva il Collegio che la questione di legittimità costituzionale dedotta con il primo motivo di ricorso, e ulteriormente articolata in sede di memoria difensiva, è certamente rilevante ai fini del presente giudizio e non appare manifestamente infondata. 2. In punto di rilevanza, deve infatti osservarsi, preliminarmente, che, essendo oggetto del ricorso la proroga del regime differenziato dettato dall'art. 41-bis Ord. pen., il controllo di legittimità è limitato alla violazione di legge, sicchè il sindacato della Corte non può estendersi al controllo dell'iter giustificativo della decisione, a meno che questo sia del tutto mancante o apparente. Tanto posto, le censure articolate nel secondo motivo di ricorso, che, se fondate, renderebbero irrilevanti le questioni poste con il primo, appaiono nella sostanza afferire a dedotti difetti della motivazione che, però, non solo non appare mancante o apparente, ma risulta anche corretta in diritto e coerente nella esposizione degli argomenti esposti. Correttamente il Tribunale di sorveglianza capitolino ha, in particolare, ricordato che la proroga del regime detentivo differenziato di cui all'art. 41-bis Ord. pen. può essere disposta ove sia stato accertato che la capacità del condannato di tenere contatti con l'associazione criminale non sia venuta meno, tenuto conto di una serie di indicatori sintomatici dell'attualità del pericolo di collegamenti con l'esterno, indicati in termini non esaustivi dal comma 2-bis del citato articolo e non necessariamente sopravvenuti Sez. 1, n. 2660 del 9 ottobre 2018, dep. 2019, Vinciguerra, Rv. 274912 , quali il profilo criminale del soggetto, la posizione dal medesimo rivestita in seno all'associazione, la perdurante operatività del sodalizio e la sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, anche considerata l'assenza di elementi di fatto dimostrativi di un sopravvenuto venir meno di tale pericolo Sez. 5, n. 40673 del 30 maggio 2012, Badagliacca, Rv. 253713 , che non possono identificarsi con il mero trascorrere del tempo dalla prima applicazione del regime differenziato, nè essere rappresentati da un apodittico e generico riferimento a non meglio precisati risultati dell'attività di trattamento penitenziario Sez. 1, n. 32337 del 3 luglio 2019, Graviano, Rv. 276720 . E lungo tale cornice di riferimento, normativa e giurisprudenziale, sono stati indicati gli elementi di fatto idonei a sorreggere il giudizio di probabilità di un ristabilimento dei collegamenti con la cosca di riferimento, ovvero che N. potesse riannodare, ove sottratto al rigoroso regime penitenziario volto a impedire i contatti con l'esterno, i legami con il sodalizio di appartenenza, avuto riguardo al suo spessore criminale e all'accertata operatività del gruppo criminale al quale era risultato affiliato. 2.1. In questo modo, il Tribunale di sorveglianza capitolino ha certamente assolto all'obbligo di una motivazione giuridicamente corretta e logicamente congrua, che peraltro si connota in termini di autonomia rispetto al provvedimento ministeriale oggetto di impugnazione, i cui passaggi valutativi sono stati fatti oggetto di scrutinio giudiziale e non già di un acritico recepimento, sia pure a partire dal medesimo corredo fattuale. Pertanto, non possono condividersi i rilievi difensivi fondati sulla prospettazione di vizi della motivazione di tale gravità da ridondare sulla sua stessa esistenza e, in particolare, le censure relative alla asserita pretermissione di elementi asseritamente decisivi dedotti in sede di reclamo, quali la circostanza che N. non avesse ricoperto, all'interno della consorteria mafiosa, un ruolo apicale che la sua responsabilità per il duplice omicidio non sarebbe stata ancora accertata e, soprattutto, che la famiglia Z. non sarebbe più attiva, in quanto dal 2009 non verrebbero commessi omicidi e che la maggior parte dei sodali del clan sarebbe detenuto. Come evidenziato nella parte in fatto al p. 1.2. il Tribunale di sorveglianza non solo ha esaminato tali rilievi difensivi, ma ha anche dato ad essi risposte plausibili, affermando come l'internato, pur non rivestendo posizioni autenticamente apicali, fosse, comunque, molto vicino al capo indiscusso del sodalizio, al quale era legato, oltre che da un rapporto di parentela, da una relazione strettamente fiduciaria riconoscendo che il duplice omicidio costituiva un semplice carico pendente, dando atto anche dall'annullamento con rinvio disposto da parte della Corte di cassazione evidenziando come l'attuale operatività del clan emergesse da plurimi elementi di fatto, rispetto ai quali il ricorso non ha saputo offrire specifici elementi in grado di confutarne la rilevanza argomentativa, limitandosi a richiamare indimostrate circostanze di fatto o a suggerire conclusioni nella sostanza ipotetiche. Sicchè le censure paiono essere anche aspecifiche, oltre che prive del necessario connotato di decisività. 2.2. Ne consegue che i dubbi di legittimità costituzione articolati nel primo motivo di ricorso assumono una precisa rilevanza ai fini del presente giudizio, atteso che, ricorrendo le condizioni per la proroga della sottoposizione di N.S. al regime di cui all'art. 41-bis Ord. pen., l'eventuale riconoscimento della fondatezza delle questioni proposte dispiegherebbe immediati effetti sul procedimento qui trattato. 3. Punto di partenza dell'analisi della questione sollevata è la considerazione che, storicamente, pena e misura di sicurezza svolgono, nel sistema penale, funzioni ben distinte. La prima è castigo inflitto per l'offesa arrecata con il reato funzione retributiva , promessa di un male rivolto ai consociati in funzione della osservanza del precetto penale funzione di prevenzione generale e, al contempo, concreto intervento sanzionatorio sull'autore dell'illecito finalizzata a impedire la ricaduta nel reato funzione di prevenzione speciale la seconda, benchè non sia priva di connotazioni generai-preventive ed assuma di fatto un evidente carattere afflittivo, si connota essenzialmente in chiave di prevenzione speciale, attuando un intervento finalizzato a impedire, per il futuro, la commissione di un reato da parte di chi un reato abbia commesso salve le ipotesi di quasi reato di cui all'art. 202 c.p., comma 3 e rispetto al quale sia probabile, in base agli indici dell'art. 133 c.p., la commissione di nuove violazioni della legge penale cfr. art. 203 c.p., comma 2 . 4. Con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana e con la progressiva evoluzione della giurisprudenza costituzionale, tale distinzione, inizialmente ben nitida, è progressivamente divenuta meno apprezzabile. Infatti, la funzione di prevenzione generale e quella retributiva, consustanziali all'ontologia della pena, hanno progressivamente perso, nel quadro di una ricostruzione polifunzionale del complesso dei suoi scopi, l'originaria centralità a favore della finalità rieducativa, che l'art. 27 Cost., comma 3, significativamente individua come indefettibile obiettivo della pena e che la Corte costituzionale ha affermato non possa mai essere obliterata rispetto alle altre funzioni cfr. Corte Cost. n. 149 del 2018, che ha espressamente affermato il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull'altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena . Con riferimento alle misure di sicurezza, il profilo specialpreventivo resta, invece, assolutamente centrale sul piano non solo funzionale ma anche necessariamente strutturale, essendo ormai consolidato il principio secondo cui esse ex se tendono ad un risultato che eguaglia quella rieducazione, cui deve mirare la pena v. Corte Cost. n. 19 del 1974 negli stessi termini v. sentenze n. 168 del 1972 e 68 del 1967 . E tutto ciò in un quadro complessivo in cui la funzione di prevenzione speciale, cui l'intervento rieducativo certamente pertiene, è riferita sia alla pena, sia alla misura di sicurezza, come ben rammentato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 291 del 2013, ove si afferma che la tutela preventiva dei beni giuridici, e, dunque, la prevenzione, nelle sue forme, generale e speciale, connota, sia le misure di prevenzione, sia la pena, nonchè le misure di sicurezza, che, quindi, condividono tutte una finalità preventiva . E del resto, coerentemente, non va dimenticato che gli artt. 1 e 13 Ord. pen. orientano il trattamento penitenziario in chiave risocializzante sia per i detenuti che per gli internati e che analoga previsione è contenuta nel D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 1, comma 2, recante il Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà afferma che il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonchè delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale . 5. Se alla misura di sicurezza appare estranea, quantomeno in via di principio, la funzione retributiva, ad essa appartiene, invece, pienamente e indefettibilmente quella di risocializzazione, che costituisce, nella prospettiva de primato della persona umana art. 2 Cost. , il significato proprio che deve essere attribuito alla parola rieducazione . Infatti, per gli internati imputabili, cui per ragioni di sintesi è bene circoscrivere la presente disamina, il trattamento previsto consiste in misure risocializzanti realizzate attraverso interventi rieducativi degli operatori penitenziari educatore, psicologo, criminologo ecc. , di sperimentazione esterna licenze trattamentali e finali di esperimento , interventi di sostegno esterno da parte dell'Uepe su famiglia, lavoro, ambiente sociale in genere . Coerentemente, sul piano strettamente normativo, il trattamento penitenziario previsto per i detenuti e per gli internati presenta talune significative differenze, pur innestantesi in un assetto regolativo abbastanza simile, atteso che, come detto, le rispettive funzioni si sono andate progressivamente soprapponendo, anche se pena e misura di sicurezza non possono certamente considerarsi equivalenti. E, proprio in ragione delle differenze, che tuttora permangono, sul piano dei presupposti che ne legittimano l'applicazione, della natura e degli scopi, l'ordinamento penitenziario ha previsto la realizzazione di istituti o di sezioni di istituti dedicati all'esecuzione delle misure di sicurezza, i quali devono essere distinti da quelli per l'esecuzione della pena v. artt. 62 e 64 Ord. pen. . E per la stessa ragione, l'ordinamento contempla delle differenze che, attengono, in particolare, alle misure extramurarie applicabili alle due tipologie di sanzione penale, come nel caso della cd. licenza finale di esperimento ex art. 53, comma 4, Ord. pen., prevista solo per le misure di sicurezza, in relazione alle quali non sono invece concedibili permessi premio, o nel caso della applicazione della semilibertà, unica misura alternativa prevista per gli internati e che soltanto per loro può essere disposta in ogni tempo art. 50, comma 2, periodo 2, Ord. pen. e non dopo l'espiazione di una determinata quota della pena, come invece avviene per i detenuti. 6. Nondimeno, in caso di sottoposizione dell'internato al regime dell'art. 41-bis Ord. pen., si assiste a una fortissima compressione degli istituti trattamentali fondamentali lavoro, istruzione, contatti con l'esterno e, appunto, misure extramurarie , la quale comporta una sostanziale omologazione della misura di sicurezza alla pena detentiva, delineando un regime contenutistico, anche in relazione alle misure esterne applicabili, sostanzialmente identico tra internati e detenuti in regime di cui all'art. 41-bis Ord. pen Ciò soprattutto in considerazione del fatto che con la modifica, ad opera della L. 15 luglio 2009, n. 94, art. 2, comma 25, lett. n, n. 1, dell'art. 41-bis, comma 2-quater, Ord. pen., è stata inserita, in luogo dell'espressione può comportare , quella di prevede , eliminando così qualunque discrezionalità nella concreta articolazione delle limitazioni poste al trattamento penitenziario, per le pene come per le misure di sicurezza, alle quali ultime detto regime, secondo la pacifica giurisprudenza di legittimità, si applica cfr. Sez. 1, n. 10619 del 27 novembre 2017, dep. 2018, Nobis, Rv. 272310 Sez. 1, n. 22083 del 9 marzo 2011, Di Martino, Rv. 250436 . Infatti, la circostanza che il comma 2-quater faccia riferimento, nel primo periodo, ai soli detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione , statuendo che essi devono essere ristretti all'interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all'interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell'istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria , non significa che la previsione del periodo successivo, che dalle lettere da a a t , definisce il concreto contenuto del regime differenziato, non si applichi anche agli internati. Anche a prescindere dal fatto che le relative disposizioni sono espressamente riferite, in alcuni casi, anche agli internati - è il caso delle lettere a , che richiama la necessità di prevenire l'interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione, e d , che riguarda l'esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati - appare assorbente un duplice rilievo. Da un lato, l'ultimo periodo del comma 2-quater, prima di specificare il contenuto delle limitazioni fa riferimento alla sospensione delle regole di trattamento e degli istituti di cui al comma 2 , con ciò rinviando a una disposizione che menziona gli internati, accanto ai detenuti, quale destinatari del provvedimento del Ministro della giustizia che disponga la sospensione dell'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. E, dall'altro lato, ipotizzando la mancata determinazione, per via legislativa, delle limitazioni alle regole ordinarie del trattamento applicabili agli internati, si lascerebbe all'Amministrazione una libertà assoluta nella articolazione del relativo regime, in evidente radicale contrasto con la ratio della riforma del 2009, che intendeva, al contrario, comprimere ogni discrezionalità proprio attraverso l'introduzione di un elenco di restrizioni tassativamente indicate dalla legge cfr. Corte Cost., n. 190 del 2010 . Ne consegue che in caso di assoggettamento al regime differenziato, la piattaforma trattamentale finisce con l'essere, da un punto di vista strettamente normativo, sostanzialmente uniforme per i detenuti e gli internati sottoposti al regime dell'art. 41-bis Ord. pen. e ciò riguarda anche il piano delle misure extramurarie, naturalmente precluse ai soggetti sottoposti al regime differenziato in ragione della impossibilità, per costoro, di avere contatti con l'esterno, se si eccettuano i difensori e, con moltissime cautele, i familiari più stretti. 7. Già sotto il profilo indicato, dunque, appare non manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale di un regime applicativo, dettato dalla norma primaria, che sostanzialmente identifica, sul piano contenutistico, pena e misura di sicurezza. In proposito, va, infatti, ricordata la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo sulla Sicherungsverwahrung tedesca misura di sicurezza detentiva di durata indeterminata, rivolta ai delinquenti per tendenza , che può considerarsi sostanzialmente equivalente, nei suoi essenziali tratti funzionali, alle misure della colonia agricola e casa di lavoro previste nel nostro ordinamento dall'art. 216 c.p. ss Nel caso M. c. Germania v. sent. 17 dicembre 2009, ric. n. 9359/04 , la Corte Edu - nel riconoscere che la custodia di sicurezza prevista dall'ordinamento tedesco deve considerarsi una vera e propria pena sotto il profilo dell'art. 7 Cedu essendo applicata da un giudice, in connessione causale con una sentenza e avendo carattere di afflittività - ha fortemente stigmatizzato che il trattamento offerto agli internati in custodia di sicurezza non abbia contenuti specifici rispetto alla esecuzione della pena in senso formale, come del resto ritenuto assolutamente necessario, nei decenni, dalla più autorevole dottrina italiana. Ne consegue che non può ritenersi manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., nonchè all'art. 117 Cost. in relazione all'art. 7 Cedu, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, nella parte in cui prevede la facoltà di sospendere l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla stessa legge, con adozione obbligatoria delle misure enunciate nel comma 2-quater, nei confronti degli internati, assoggettati a misura di sicurezza detentiva, dal momento che, rendendo sostanzialmente identico, per i soggetti sottoposti al regime differenziato, il concreto regime applicativo della pena e della misura di sicurezza detentiva, assoggettano alla medesima regolamentazione istituti funzionalmente differenti, obliterando la distinzione, riconosciuta anche in Costituzione, tra gli stessi. 8. Sotto altro aspetto, va evidenziato che la sottoposizione al regime differenziato dell'art. 41-bis Ord. pen. incide sulla durata della sanzione penale in maniera differente a seconda che al medesimo venga assoggettato il detenuto definitivo o l'internato. Nel primo caso, infatti, l'art. 41-bis Ord. pen. impedisce, chiaramente, l'ammissione a misure alternative per l'intera durata della detenzione. E tuttavia, fuori dei casi di condanna alla pena dell'ergastolo, la sua applicazione non produce effetti sulla durata della carcerazione. In tali casi, invero, l'imputato viene condannato, con sentenza definitiva, alla pena ritenuta giusta , e cioè proporzionata, nel rispetto dell'art. 27 Cost., al disvalore del fatto e alla sua colpevolezza, e la sconta sino al termine di essa, salve le eventuali riduzioni disposte per liberazione anticipata. Nel caso della misura di sicurezza, invece, l'applicazione dell'art. 41-bis Ord. pen. costituisce un elemento che influisce in maniera essenziale sui meccanismi della proroga della restrizione in regime sostanzialmente carcerario, concorrendo a rendere tale misura una sorta di pena aggiuntiva sganciata però dal fatto e determinabile solo, in astratto, nei massimi edittali perciò sostanzialmente indeterminata . E' vero, infatti, che, dopo l'entrata in vigore del D.L. 31 marzo 2014, n. 52, art. 1, comma 1-quater, deve ritenersi ormai superato, quantomeno per le misure di sicurezza detentive, il precedente regime, il quale consentiva il cd. ergastolo bianco, ovvero un meccanismo di proroga senza alcun limite massimo di durata temporale, essendo stato oggi un siffatto limite legislativamente introdotto Corte Cost., n. 83 del 2017 Sez. 1, n. 42899 del 27 maggio 2019, Guttadauro, in motivazione Sez. 1, n. 12490 del 27 novembre 2018, dep. 2019, Minuto, in motivazione , ed essendo lo stesso rinvenibile nel massimo edittale previsto per il reato in relazione al quale la misura di sicurezza è stata disposta con applicazione, in caso di misura di sicurezza applicata a seguito di dichiarazione di abitualità nel reato, come nel caso in esame, nel massimo edittale previsto per il reato più grave tra quelli per cui vi è stata condanna Sez. 1, n. 41230 del 13 giugno 2019, N., in motivazione . Tuttavia, il fatto che esista un limite massimo, oltre il quale la misura non può essere ulteriormente prorogata, non significa anche che la durata, ancorchè determinabile nella sua massima estensione, sia anche determinata, atteso che la misura potrà essere ripetutamente prorogata senza che ciò possa essere all'origine previsto , fino al massimo edittale della pena prevista per il reato più grave e, dunque, per una durata comunemente assai superiore rispetto a quella della pena in concreto inflitta. In questo modo, l'attuale assetto normativo delineato dall'intrecciarsi delle norme sulla proroga delle misure di sicurezza e di quelle sul regime differenziato realizza una lesione del principio di proporzione rispetto ai reati già commessi, consentendosi l'applicazione di una sanzione penale - che già la Corte di Strasburgo, nella già ricordata sentenza 17 dicembre 2009, ric. n. 9359/04, M. c. Germania, ha qualificato come pena - non più proporzionata alla colpevolezza dell'autore per il reato commesso intesa come giudizio di rimproverabilità soggettiva parametrata alla gravità della violazione E', inoltre, evidente che sino a quando l'internato sarà sottoposto al regime dell'art. 41-bis Ord. pen. non potrà accedere a misure extramurarie licenze trattamentali o finali di esperimento rendendo pressochè impossibile la sperimentazione di un effettivo percorso di recupero e perciò anche la revoca o comunque la sostituzione della misura di sicurezza detentiva tanto più che il perdurare della applicazione del regime differenziato, avendo come presupposto la mera possibilità di riprendere i collegamenti con la criminalità organizzata, presuppone una situazione che non consente di escludere la perdurante pericolosità sociale del soggetto. La sottoposizione al regime dell'art. 41-bis Ord. pen. di un internato in misura di sicurezza detentiva altera, così, anche il fisiologico meccanismo delle proroghe, non consentendo al sottoposto di accedere alle misure volte a un graduale reinserimento e ostacolando, ontologicamente, gli ordinari elementi del trattamento tra cui i frequenti contatti con l'ambiente familiare , per questa via consentendo la sottoposizione dell'internato a una sanzione restrittiva di durata tendenzialmente indeterminata ancorchè determinabile, come detto, nella sua massima estensione . Ciò in quanto la proroga della misura di sicurezza tendenzialmente conduce alla proroga dell'art. 41-bis Ord. pen. e viceversa, secondo una relazione di reciproca interferenza. Soprattutto, però, la disciplina censurata comporta, come anticipato, un effetto moltiplicatore del trattamento sanzionatorio, che viene sostanzialmente replicato, al di fuori del giusto processo di cognizione, con caratteri di assoluta identità, per una durata ulteriore che può essere addirittura superiore a quella ritenuta proporzionata alla gravità dell'offesa realizzata dal reato e potenzialmente pari quantomeno alla pena già applicata, con un effetto quantomeno di duplicazione della limitazione della libertà personale in caso di condanna inferiore al massimo edittale, con un effetto più che duplicato . Non appare manifestamente infondato, dunque, il dubbio che il descritto effetto di duplicazione dell'intervento sanzionatorio si ponga in contrasto, oltrechè con gli artt. 3 e 25 Cost., con l'art. 117 Cost., in relazione all'art. 7 Cedu, con gli artt. 27 e 111 Cost. e con il divieto di bis in idem affermato, in più occasioni, dalla Corte di Strasburgo in base all'art. 4, comma 1, Protocollo n. 7 alla Convenzione Europea. Infatti, come già osservato, la Corte Edu, con la sua giurisprudenza sulla Sicherungsverwahrung tedesca, ha sottolineato come tale misura di sicurezza costituisca, sostanzialmente, una pena, condividendone funzione e modalità esecutive. E l'effetto di duplicazione finisce per rendere il sistema dualista accolto dal nostro ordinamento uno strumento che, per i soggetti imputabili, realizza un aggravamento eccessivo della risposta sanzionatoria, al di là dei limiti della colpevolezza, in mera funzione di contenimento della pericolosità sociale, senza che il principio di proporzione, radicato negli artt. 3 e 27 Cost., consenta di realizzare quell'argine alle istanze preventive che gli è proprio. Dunque, non può ritenersi manifestamente infondato il dubbio che, nello spazio giuridico Europeo, le misure di sicurezza per soggetti imputabili siano incompatibili con la garanzia fondamentale del ne bis in idem se le stesse non risultano realmente differenziabili dalla pena, non soltanto a causa della loro diversa finalità, ma soprattutto in ragione di modalità di esecuzione radicalmente differenziate. Ne consegue, conclusivamente, un ulteriore profilo di non manifesta infondatezza del ventilato contrasto tra l'art. 41-bis, commi 2 e 2-quater, Ord. pen e, per il tramite del parametro interposto dell'art. 117 Cost., l'art. 4, comma 1, Protocollo n. 7 alla Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo, che, stabilendo che nessuno può essere nuovamente punito per lo stesso reato . punished again . for an offence for which he has already been finally . convicted . , parrebbe non consentire nemmeno una sostanziale duplicazione della pena, realizzata attraverso l'applicazione di un regime restrittivo che, al di là del diverso nomen juris, non è connotato da alcuna differenziazione, in positivo, del relativo trattamento penitenziario. 9. Alla luce delle considerazioni che precedono, deve ritenersi rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3,25,27 e 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, quest'ultimo in relazione all'art. 7 Cedu e art. 4, protocollo n. 7 Cedu, la questione di legittimità costituzionale della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 41-bis, commi 2 e 2-quater Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà , come modificato dalla L. 15 luglio 2009, n. 94, art. 2, comma 25, lett. f , n. 3 , Disposizioni in materia di sicurezza pubblica , nella parte in cui prevedono la facoltà di sospendere l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla stessa legge, con adozione obbligatoria delle misure enunciate nel comma 2-quater, nei confronti degli internati, assoggettati a misura di sicurezza detentiva. P.Q.M. visto la L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 25, 27 e 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, quest'ultimo in relazione all'art. 7 Cedu e art. 4, protocollo n. 7 Cedu, la questione di legittimità costituzionale della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 41-bis, commi 2 e 2-quater, ordinamento penitenziario , nella parte in cui prevedono la facoltà di sospendere l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla stessa legge, con adozione obbligatoria delle misure enunciate nel comma 2-quater, nei confronti degli internati, assoggettati a misura di sicurezza detentiva. Sospende il presente procedimento. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti previsti dalla L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, u.c