Inammissibile l’impugnazione cautelare proposta a mezzo PEC

L’impugnazione cautelare proposta dall’indagato mediante l’uso della posta elettronica certificata è inammissibile.

Decidendo sul ricorso proposto dall’indagato a mezzo PEC contro l’ordinanza resa in sede di riesame, la Corte di Cassazione lo ha dichiarato inammissibile per violazione delle modalità di presentazione. In particolare, sentenza n. 28088/20, la Suprema Corte ribadisce che l’impugnazione cautelare proposta dall’indagato mediante l’uso della posta elettronica certificata è inammissibile , in quanto le modalità di presentazione e di spedizione dell’impugnazione, disciplinate dall’art. 583 c.p.p. – espressamente richiamato dall’art. 309, comma 4, che, a sua volta, è richiamato dall’art. 310, comma 2, c.p.p. – sono tassative e non ammettono equipollenti, stabilendo soltanto la possibilità di spedizione dell’atto mediante lettera raccomandata o telegramma, al fine di garantire l’autenticità della provenienza e la ricezione dell’atto, mentre nessuna norma prevede la trasmissione mediante l’uso della PEC . Inoltre, aggiunge la Corte, il successivo deposito del ricorso presso la cancelleria di un diverso Tribunale non sana l’inammissibilità del ricorso, in quanto esso risulta comunque intervenuto tardivamente rispetto al termine di 10 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza e viola l’art. 311, comma 1, c.p.p

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 8 settembre – 8 ottobre 2020, n. 28088 Presidente Iasillo – Relatore Rocchi Ritenuto in fatto 1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Caltanissetta rigettava l’appello proposto ai sensi dell’art. 310 c.p.p. dal difensore di L.G. avverso quella del Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale che aveva respinto un’istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare. L.G. è sottoposto a custodia cautelare in carcere in forza di ordinanza del 21/10/2019 per l’omicidio di S.D. , aggravato dalla premeditazione e dal metodo mafioso, delitto commesso il omissis in concorso con L.N. e R.S. . L’istanza di scarcerazione chiedeva, in forza dell’art. 297 c.p.p., comma 3, di retrodatare la efficacia della misura alla data di emanazione di precedente ordinanza del 19/9/2017, emessa per i reati di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, estorsione, danneggiamenti e altri reati aggravati dalla finalità mafiosa. Si deduceva che le due ordinanze avevano ad oggetto fatti connessi ai sensi dell’art. 12 c.p.p., tutti anteriori alla prima ordinanza ed erano basate sul medesimo assetto probatorio, con la conseguenza che gli elementi posti a fondamento della seconda ordinanza erano pienamente desumibili dagli atti all’epoca dell’emissione della prima ordinanza. I gravi indizi per i reati oggetto delle due ordinanze erano tratti dalla medesima attività di indagine, iniziata nel e terminata nel i tre indagati erano coimputati nel processo seguito alla prima ordinanza e in tale procedimento erano già presenti le trascrizioni delle intercettazioni dei colloqui in carcere sulla base delle quali era stata emessa la seconda ordinanza. Alcune intercettazioni, indicate come decisive per l’emissione della seconda ordinanza, erano già menzionate nella prima. Il G.I.P. aveva ritenuto che mancasse il requisito della connessione tra i reati oggetto delle due ordinanze nonché quello della desumibilità dagli atti. In particolare, sottolineava che l’annotazione finale della Squadra Mobile di Caltanissetta relativa alle indagini sull’omicidio era stata consegnata solo il 2/2/2018, quindi dopo l’emissione della prima ordinanza successive erano anche la C.T. fonica e l’annotazione dei Carabinieri di Gela con cui si documentava la ripulitura delle tracce audio delle intercettazioni. Il Tribunale ribadiva l’insussistenza della connessione richiesta dall’art. 297 c.p.p., comma 3 continuazione e connessione teleologica l’omicidio di S. non era contestato essere stato commesso in continuazione con i delitti contestati nella prima ordinanza, trattandosi di omicidio premeditato ed eseguito esclusivamente nell’ambito di una dimensione volontaristica di tipo individuale, e non associativa, sia pure riferita a quattro soggetti nè l’omicidio era stato commesso per eseguire uno o più reati oggetto della prima ordinanza cautelare. Il Tribunale negava anche ogni rapporto tra l’omicidio e l’attività dell’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti L. si era determinato ad uccidere S. perché non aveva onorato un grosso debito di denaro e ostacolava le sue attività criminali personali, non quelle associative. Sussisteva, piuttosto, la connessione probatoria che, peraltro, è irrilevante ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3. Quanto al requisito della desumibilità dagli atti alla data di emissione della prima ordinanza cautelare, la presenza di una serie di elementi probatori non può essere ritenuta rilevante se, al momento della loro acquisizione, non esiste già un compendio univoco che permetta di esprimere un giudizio di attendibilità e di elevata probabilità di colpevolezza dell’indagato in ordine al reato ascrittogli. La difesa, richiamando l’ordinanza emessa dallo stesso Tribunale in sede di riesame, aveva sottolineato che il quadro probatorio era già completo ed esaustivo alla data del 19/9/2017, a prescindere dall’intercettazione resa disponibile solo in un secondo momento in cui i L. confessavano espressamente di avere fatto uccidere S. da R.S. l’ordinanza afferma, al contrario, che quella emessa in sede di riesame si limitava a depotenziare il valore indiziario di tale intercettazione a fronte di tutte le altre emergenze acquisite, che già denotavano il movente e il proposito omicidiario, ma non aveva inteso argomentare sulla desumibilità dagli altri atti della prova della responsabilità per l’omicidio. Del resto, tale desumibilità era impossibile alla data della prima ordinanza cautelare in quanto tutte le risultanze non risultavano ancora assemblate e riportate in una informativa conclusiva della polizia giudiziaria si trattava, invece, di un affastellamento di intercettazioni e di dati non univoci nell’ambito di un procedimento per reati che non erano nemmeno connessi all’omicidio S. l’intercettazione della confessione dei L. aveva consentito, quindi, di dirimere ogni incertezza ed applicare agli indagati la misura cautelare aveva consentito al P.M. di passare da un quadro indiziario della volontà omicidiaria, basato sul movente e sulla programmazione dell’omicidio, ad uno gravemente indiziario e completo dal punto di vista soggettivo ed oggettivo, con l’acquisizione dell’amissione di colpevolezza espressa dopo l’esecuzione del delitto. Prima di tale acquisizione mancava un elemento concretamente riferibile all’omicidio effettivamente avvenuto ed effettivamente commesso dagli stessi indagati. In definitiva, il pubblico ministero non era in grado di avanzare richiesta di misura cautelare per detto delitto. 2. Ricorre per cassazione il difensore di L.G. deducendo violazione dell’art. 297 c.p.p., comma 3 e vizio di motivazione. Il ricorrente ribadisce la desumibilità dagli atti alla data dell’emissione della prima ordinanza cautelare, erano già noti al P.M. tutti gli elementi fondanti la successiva misura cautelare per l’omicidio S. , come del resto si ricavava dall’ordinanza resa in sede di riesame. L’informativa redatta dai Carabinieri compendiava tutte le attività di indagini e, quindi, l’informativa finale era meramente reiterativa di precedenti annotazioni di polizia giudiziaria. La trascrizione operata dai RIS era solo confermativa del resto, il compendio indiziario analizzato dall’ordinanza ex art. 309 c.p.p. valorizzava tutte le intercettazioni e non solo quella del 23/12/2015. Lo stesso Tribunale del riesame aveva ritenuto completo ed esaustivo il quadro indiziario a prescindere dalla trascrizione della frase confessoria tale frase, del resto, era già stata riportata nell’informativa iniziale dei Carabinieri di Gela. Piuttosto, erano irrilevanti la successiva informativa della Squadra Mobile e la consulenza fonica di O.A. . Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile per violazione delle modalità di presentazione. In effetti, dall’esame del fascicolo, emerge che il ricorso è stato trasmesso via mail mediante posta elettronica certificata PEC modalità del tutto irrituale e non consentita dal codice di rito. Questa Corte ha già statuito che è inammissibile l’impugnazione cautelare proposta dall’indagato mediante l’uso della posta elettronica certificata c.d. PEC , in quanto le modalità di presentazione e di spedizione dell’impugnazione, disciplinate dall’art. 583 c.p.p. - espressamente richiamato dall’art. 309, comma 4, che, a sua volta, è richiamato dall’art. 310 c.p.p., comma 2, sono tassative e non ammettono equipollenti, stabilendo soltanto la possibilità di spedizione dell’atto mediante lettera raccomandata o telegramma, al fine di garantire l’autenticità della provenienza e la ricezione dell’atto, mentre nessuna norma prevede la trasmissione mediante l’uso della PEC. Sez. 3, n. 38411 del 13/04/2018 - dep. 09/08/2018, B, Rv. 276698 . Il successivo deposito del ricorso presso la cancelleria di un diverso Tribunale non sana l’inammissibilità del ricorso, atteso che è intervenuto tardivamente rispetto al termine di dieci giorni dalla comunicazione dell’ordinanza, in violazione dell’art. 311 c.p.p., comma 1. 2. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende, emergendo profili di colpa nella presentazione del ricorso. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.