Vendita prevalente di droghe leggere e occasionale di droghe pesanti: può configurarsi la fattispecie di lieve entità?

La Suprema Corte chiarisce se può configurarsi la fattispecie di lieve entità oggetto del comma 5 dell’art. 73, d.P.R. n. 309/90 in presenza di più condotte criminose aventi ad oggetto tanto le droghe pesanti quanto quelle leggere.

Questo l’oggetto della sentenza della Corte di Cassazione n. 26042/20, depositata il 16 settembre. La Corte d’Appello di Firenze riformava parzialmente la pronuncia di primo grado, rideterminando la pena irrogata agli imputati per plurimi episodi di illecita detenzione e cessione di sostanze stupefacenti del tipo cocaina, hashish e marijuana. Contro tale decisione, propongono ricorso per cassazione gli imputati, lamentando, tra i diversi motivi, l’errata qualificazione giuridica del fatto, da inquadrarsi in relazione alla detenzione a fini dispaccio di cocaina nella norma di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90. Sostengono, infatti, i ricorrenti che la Corte d’Appello non abbia considerato l’ipotesi di una coesistenza normativa tra una condotta suscettibile di rientrare nella disposizione citata ed una che ne resti esclusa, con considerevoli ripercussioni sul trattamento sanzionatorio, considerando che nel caso concreto l’attività illecita da essi posta in essere aveva avuto ad oggetto prevalentemente sostanze stupefacenti leggere e solo occasionalmente droghe pesanti. La Corte di Cassazione dichiara manifestamente infondato il motivo di ricorso prospettato dai ricorrenti, rilevando come sul tema si siano espresse le Sezioni Unite . Queste ultime hanno, infatti, di recente stabilito un principio che, letto a contrario , non può accogliere la tesi sostenuta dai ricorrenti, avendo affermato che la diversità di sostanze stupefacenti oggetto della condotta non sia di per sé ostativa alla configurabilità del reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, in quanto l’accertamento della lieve entità del fatto implica una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta, selezionati in relazione a tutti gli indici sintomatici previsti nella disposizione . Da tale principio consegue che in sede di valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta il giudice deve considerare tutte le condotte criminose contestate, sia quelle aventi ad oggetto le droghe pesanti, sia quelle inerenti alle droghe leggere. Dunque, non potendo distinguere i fatti illeciti riguardanti la cocaina da quelli relativi alle droghe leggere per l’inquadramento giuridico complessivo della fattispecie concreta contestata agli imputati, e tenendo in considerazione che l’ipotesi lieve può giustificarsi solo in presenza di condotte di minor disvalore sociale non ravvisabile nel caso di specie , la Suprema Corte, anche per questi motivi, dichiara inammissibili i ricorsi.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 24 luglio – 16 settembre 2020, n. 26042 Presidente Menichetti – Relatore Ranaldi Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 12.9.2019 la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma di quella di primo grado emessa in sede di rito abbreviato , ha rideterminato la pena e per il resto ha confermato la condanna nei confronti degli imputati L.A. , L.H. e U.D.V. in relazione ai reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4, art. 80, lett. a , per plurimi episodi di illecita detenzione e cessione - anche a minorenni - di sostanze stupefacenti del tipo cocaina, hashish e marijuana. 2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorsi per cassazione i suddetti imputati, a mezzo del difensore, lamentando quanto segue. I Quanto ai capi B-C-D, errata qualificazione giuridica del fatto da inquadrarsi, quanto alla detenzione a fini di spaccio di cocaina, nella norma di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, e vizio di motivazione sul punto. Si deduce che la Corte di appello non abbia erroneamente considerato l’ipotesi di una coesistenza normativa fra una condotta suscettibile di rientrare nell’art. 73 cit., comma 5 ed una che ne resti invece esclusa, con inevitabili conseguenze sul piano del trattamento sanzionatorio. Nel caso di specie, già dai capi di imputazione può evincersi che l’attività illecita posta in essere dai ricorrenti ha avuto ad oggetto, prevalentemente, sostanze stupefacenti cosiddette leggere, e solo occasionalmente droghe pesanti. Sicché, per la modestia dei quantitativi e per il numero limitato di cessioni riguardanti la cocaina, il fatto attinente al detto stupefacente non può che essere qualificato ai sensi dell’art. 73, comma 5. La valutazione complessiva del fatto depone a favore di modalità non professionali ed occasionali in relazione allo spaccio di cocaina, ciò riverberandosi sulla qualificazione del fatto come di lieve entità. II Errata applicazione della legge penale e vizio di motivazione in riferimento all’art. 240-bis c.p Sul tema della confisca dei beni applicata nella sentenza impugnata, si afferma che è illogico l’assunto della Corte territoriale, secondo cui dagli accertamenti svolti e dalle intercettazioni ambientali è emerso che nessuno degli attuali imputati lavorava neppure a nero , posto che in sede di appello era stata prospettata l’esistenza di soggetti appartenenti al nucleo familiare ed in possesso di fonti legittime di reddito, per cui non si comprende quale rilevanza abbia, rispetto a tale prospettazione, la circostanza che gli imputati fossero privi di lavoro. III Errata applicazione degli artt. 133 e 62-bis c.p. e vizio di motivazione. Si deduce che nella valutazione delle circostanze attenuanti generiche i giudici di merito non abbiano considerato la situazione di disagio sociale emergente da una conversazione ambientale, nel corso della quale L.A. , parlando con un cliente, afferma di essere costretta a spacciare perché disoccupata, così come tutti i membri della sua famiglia. Tale condizione, unitamente all’incensuratezza, avrebbe dovuto consentire il riconoscimento del beneficio. Sul punto la difesa dei ricorrenti ha depositato una memoria aggiuntiva denominata motivi nuovi di ricorso datata 8.7.2020. Considerato in diritto 1. Il primo motivo è manifestamente infondato. La censura prospettata palesa la sua intima contraddittorietà là dove, da una parte, afferma la necessità di valutare separatamente la condotta di illecita detenzione e spaccio della droga c.d. pesante cocaina , rispetto alle altre tipologie di droghe c.d. leggere trattate dai prevenuti, al fine di qualificare la prima come di lieve entità, in ragione della modestia dei quantitativi trattati e del numero limitato di cessioni e di acquirenti dall’altra, invoca la necessità di una valutazione complessiva del fatto e quindi di tutti gli episodi criminosi concernenti tutte e tre le tipologie di sostanze stupefacenti commercializzate dai prevenuti in relazione ai parametri richiamati dalla disposizione di cui all’art. 73 cit., comma 5. Al riguardo, le Sezioni Unite della Corte regolatrice hanno, di recente, stabilito un principio che, letto a contrario, non consente di accedere alla tesi sostenuta dai ricorrenti, avendo affermato come la diversità di sostanze stupefacenti oggetto della condotta non sia di per sé ostativa alla configurabilità del reato di cui al lstu art. 73, comma 5, in quanto l’accertamento della lieve entità del fatto implica una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta, selezionati in relazione a tutti gli indici sintomatici previsti dalla disposizione Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 27407601 vedi S.U. n. 17/2000, Rv. 216668 . Ne discende che nella valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta non possono che essere considerate tutte le condotte criminose contestate, aventi ad oggetto sia le droghe pesanti sia quelle leggere . Non è possibile, pertanto, accedere alla tesi sostenuta dai ricorrenti, non potendosi distinguere i fatti illeciti riguardanti la cocaina da quelli riguardanti le droghe leggere ai fini dell’inquadramento giuridico complessivo della fattispecie concreta contestata agli odierni imputati. Giova invece ribadire come l’inquadramento della fattispecie nell’ipotesi lieve possa giustificarsi soltanto in presenza di condotte di minor disvalore sociale, suscettibili di recare una minima lesione o messa in pericolo del bene protetto dalla norma incriminatrice, che va riferito all’interesse sociale ad evitare ogni diffusione delle sostanze droganti. Situazione che risulta pertanto non configurabile allorquando ci si trovi in presenza - come motivatamente spiegato dal Giudice a quo - di un agire teso a favorire la circolazione degli stupefacenti, evidentemente distonico rispetto alla ratio della fattispecie. 2. Il secondo motivo è privo di pregio, in quanto non si confronta adeguatamente con il ragionamento della Corte territoriale, che ha diffusamente motivato in ordine ai presupposti applicativi della confisca ex art. 240-bis c.p., avendo riscontrato, da accertamenti bancari, come gli imputati si procurassero introiti soltanto attraverso i proventi del commercio della droga. I giudici di merito hanno fondatamente e congruamente risposto alle doglianze difensive, avendo rilevato la notevole consistenza dei beni acquistati dagli imputati nel giro di pochi mesi fabbricati e terreni , per un valore ben superiore ai centomila Euro, nonostante gli stessi fossero privi di redditi derivanti da attività lavorativa, neppure a nero , e quindi chiaramente sproporzionati e di cui non è stata giustificata la provenienza, neanche in virtù della documentazione fornita dalla difesa, non rapportabile agli importi indicati. Da questo punto di vista, appare irrilevante ed in fatto, e come tale inammissibile, la censura dei ricorrenti in ordine alla presenza, all’interno del loro nucleo familiare, di persone estranee all’indagine che avevano redditi documentati. 3. Quanto alle censure in merito al trattamento sanzionatorio, è appena il caso di rilevare che la pena irrogata non supera la media edittale, per cui nel caso trova applicazione il costante principio affermato da questa Corte di legittimità secondo cui la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 c.p. con espressioni del tipo pena congrua , pena equa o congruo aumento , come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro e altro, Rv. 27124301 . Per quanto attiene all’invocato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62-bis c.p., giova rammentare il costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 27126901 . Nel caso di specie, la Corte territoriale, per negare l’invocato riconoscimento di tale attenuante, ha congruamente valorizzato la mancanza di elementi positivi di sorta, neppure allegati in sede di appello, e ha soprattutto considerato la notevole gravità dei fatti, il numero dei reati commessi in sequenza, la reiterazione nel tempo delle condotte delittuose, tali da qualificarle come di significativo allarme sociale e, ancora, la capacità criminale dimostrata dai prevenuti, sotto il profilo dell’intensità del dolo, avendo gli stessi operato con continuità e assoluta spregiudicatezza. Si tratta di una ponderata e non arbitraria valutazione di merito, come tale insindacabile nella presente sede di legittimità. 4. Stante l’inammissibilità dei ricorsi, e non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte Cost. sent. n. 186/2000 , alla condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria, che si stima equo quantificare nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila ciascuno in favore della Cassa delle ammende.