Detenzione di droga per uso personale e valutazione da parte del giudice

In tema di sostanze stupefacenti, il solo dato ponderale dello stupefacente rinvenuto e l’eventuale superamento dei limiti tabellari non determina alcuna presunzione di destinazione della droga ad un uso non personale, dovendo il giudice valutare globalmente, anche sulla base degli ulteriori parametri normativi, se, assieme al dato quantitativo, le modalità di presentazione e le altre circostanze dell’azione siano tali da escludere una finalità.

Lo ha stabilito la Cassazione con sentenza n. 25254/20, depositata l’8 settembre. Il Tribunale condannava l’imputato per detenzione di droga ai fini di spaccio e la decisione veniva confermata dalla Corte d’Appello. Avverso la decisione propone ricorso l’imputato deducendo che detenesse le sostanze droganti per uso personale e che il Giudice non avesse tenuto conto che non erano state rinvenute presso la sua dimora le strumentazioni finalizzate allo spaccio come gli strumenti da taglio e neppure banconote frutto della vendita di droga . La Cassazione, ritenendo manifestatamente infondato il ricorso, ricorda che in tema di sostanze stupefacenti, il solo dato ponderale dello stupefacente rinvenuto - e l’eventuale superamento dei limiti tabellari indicati dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73-bis, comma 1, lett. a , - non determina alcuna presunzione di destinazione della droga ad un uso non personale , dovendo il giudice valutare globalmente, anche sulla base degli ulteriori parametri normativi, se, assieme al dato quantitativo che acquista maggiore rilevanza indiziaria al crescere del numero delle dosi ricavabili , le modalità di presentazione e le altre circostanze dell’azione siano tali da escludere una finalità meramente personale della detenzione . Chiarito questo il ricorso viene dichiarato inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 25 giugno – 8 settembre 2020, n. 25254 Presidente Rosi – Relatore Macrì Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 23 gennaio 2019 il Tribunale di Bari ha condannato P.G. , con la diminuente del rito, alla pena di anni 1, mesi 8 di reclusione ed Euro 3.500,00 di multa, per la violazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, consistente nella detenzione a fini di spaccio di 122 grammi di hashish e 28 di marijuana, in omissis Con sentenza dell’11 luglio 2019 la Corte di appello di Bari ha confermato la sentenza di primo grado. 2. Con un unico motivo di ricorso l’imputato deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all’uso personale della sostanza sequestrata. Precisa che il solo dato ponderale non costituiva elemento decisivo per ritenere la destinazione della droga ad uso non personale dovendo il giudice valutare globalmente, anche sulla base di ulteriori parametri normativi, se, oltre al dato quantitativo, le modalità di presentazione e le altre circostanze dell’azione fossero tali da escludere una finalità meramente personale della detenzione. Ritiene che la sentenza impugnata non avesse fatto buon governo dei principi di diritto, atteso il suo comportamento processuale collaborativo, l’esito negativo della perquisizione personale, l’omessa perquisizione domiciliare, il mancato rinvenimento di ogni strumento utile al confezionamento o alla pesatura, l’assenza di sostanza da taglio e di banconote che potessero presumersi provento dell’attività di spaccio, la circostanza che non fosse stato mai attenzionato dai Carabinieri di Cassano delle Murge nè fosse stata rinvenuta documentazione relativa a fermi, pur risiedendo in un piccolo centro cittadino. L’esame complessivo degli elementi raccolti avrebbe dovuto indurre la Corte a ritenere carente la prova della colpevolezza o, quanto meno, a fornire una motivazione adeguata della non attendibilità delle prove contrarie. Le modalità dei fatti, come emersi dalle indagini della polizia giudiziaria, non costituivano un elemento significativo e decisivo per ritenere accertata la finalità di spaccio. Lamenta che i Giudici di merito non avevano valutato il contesto della vicenda pervenendo alla condanna solo a seguito di una presunzione assoluta derivante dal dato ponderale, dalla suddivisione in dosi, dall’atteggiamento di fuga alla vista dei militari, dall’orario serale. Non era stata valutata invece la disponibilità di denaro di provenienza lecita, quale l’indennità di disoccupazione di Euro 1.400 mensili. Conclude chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato. Considerato in diritto 3. Il ricorso è manifestamente infondato perché consiste in generiche doglianze di fatto già disattese con corretta motivazione giuridica da parte dei Giudici di merito. Con motivazione logica e razionale la Corte territoriale ha concluso che non vi erano dubbi sulla destinazione dello stupefacente allo spaccio. Il P. era stato trovato in zona periferica ed in ora serale con hashish e marijuana suddivisa in 31 porzioni confezionate alla vista dei militari, aveva arrestato la marcia del veicolo e si era disfatto del borsello lanciandolo a terra all’epoca dei fatti era disoccupato e la compagna, che lavorava come cucitrice, non guadagnava abbastanza aveva già un precedente specifico. La decisione è in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità secondo cui, in tema di sostanze stupefacenti, il solo dato ponderale dello stupefacente rinvenuto - e l’eventuale superamento dei limiti tabellari indicati dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73-bis, comma 1, lett. a , - non determina alcuna presunzione di destinazione della droga ad un uso non personale, dovendo il giudice valutare globalmente, anche sulla base degli ulteriori parametri normativi, se, assieme al dato quantitativo che acquista maggiore rilevanza indiziaria al crescere del numero delle dosi ricavabili , le modalità di presentazione e le altre circostanze dell’azione siano tali da escludere una finalità meramente personale della detenzione tra le più recenti, Cass. Sez. 3, n. 46610 del 09/10/2014, Salaman, Rv. 260991 - 01 . Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.