Come pagare l’avvocato quando si ha il patrimonio sottoposto a sequestro?

La Corte di Cassazione si occupa di un ricorso presentato dal legale rappresentante di una società al quale è stato sequestrato il patrimonio in funzione della successiva confisca e che lamenta la lesione del suo diritto di difesa, essendo impossibilitato a pagare il suo difensore.

Questo il contenuto della sentenza della Suprema Corte n. 25264/20, depositata l’8 settembre. Il Tribunale del riesame di Parma rigettava l’appello presentato da un avvocato nell’interesse del suo assistito legale rappresentante di una società contro l’ordinanza emessa dal GIP di rigetto della richiesta di dissequestro parziale dei beni oggetto di sequestro preventivo. L’attuale ricorrente impugna la decisione dinanzi alla Corte Suprema, lamentando il fatto che, a causa del sequestro integrale del patrimonio , gli era stato precluso l’esercizio del diritto di difesa, essendo impossibilitato a pagare l’avvocato. La Corte di Cassazione dichiara il ricorso manifestamente infondato , rilevando che non sussistono delle norme dirette alla tutela specifica del creditore del professionista nominato dal soggetto spossessato. La ragione di tale assenza, prosegue la Corte, è molto semplice egli va trattato come qualsiasi altro creditore chirografario o privilegiato . Ciò posto, i Giudici di legittimità sottolineano che nel caso di specie il ricorrente avrebbe dovuto presentare richiesta di ammissione al gratuito patrocinio e, in caso di diniego, avrebbe dovuto prospettare i presupposti della questione di legittimità costituzionale mediante l’impugnazione dell’atto. Non essendo ciò avvenuto, non è possibile pretendere in sede di legittimità la restituzione del denaro al fine di adempiere ad un debito da lui stesso contratto in data successiva al sequestro e, dunque, soggetto, come gli altri crediti, alla diversa disciplina dei crediti nei confronti di un soggetto il cui patrimonio è stato sequestrato ai fini della confisca. Essendo in tale sede extravagante la contestazione della violazione costituzionale del diritto di difesa , la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 a favore della Cassa delle Ammende.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 2 luglio – 8 settembre 2020, n. 25264 Presidente Rosi – Relatore Socci Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza in data 3 febbraio 2020 il Tribunale del riesame di Parma ha rigettato l’appello presentato dall’avv. Paolo Moretti nell’interesse di S.E. , in qualità di consigliere delegato della Trustanderwealth S.r.l., trustee e legale rappresentante di Trust Start, terzo sequestrato nel procedimento penale RGNR 102/18 e RG GIP 2812/19, avverso l’ordinanza di rigetto dell’istanza di dissequestro parziale dei beni oggetto del sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari di Parma il 17 ottobre 2019. 2. La parte ricorrente presenta un’unica doglianza per violazione di legge in rapporto all’art. 299 c.p.p. e all’art. 24 Cost. Espone che la Guardia di finanza aveva eseguito il sequestro preventivo disposto dal Giudice per le indagini preliminari in data 2 settembre 2019 sul suo patrimonio, ritenendo l’intestazione dei beni formale, perché sostanzialmente nella disponibilità degli indagati D. e D’. . Rappresenta inoltre che il preventivo di spesa del difensore ammontava ad Euro 4.412,37. Al fine di provvedere all’adempimento dell’obbligazione, stante l’indisponibilità di risorse economiche, con istanza del 10 ottobre 2019 la società aveva chiesto al Giudice il dissequestro parziale sul conto corrente in Unicredit. Con ordinanza del 17 ottobre 2019 il Giudice per le indagini preliminari aveva rigettato l’istanza segnalando che nell’ordinamento era previsto l’istituto del patrocinio a spese dello Stato. Nell’appello ai sensi dell’art. 322-bis c.p.p. aveva lamentato l’impraticabilità giuridica della soluzione proposta ed aveva insistito in via principale per il dissequestro parziale delle somme ed in subordine per sollevare la questione di legittimità costituzionale degli art. 321 e 299 c.p.p., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis e art. 322-ter c.p. perché non consentivano l’esercizio del diritto di difesa. Lamenta che il Tribunale, pur riconoscendo che il terzo non poteva accedere al patrocinio a spese dello Stato, aveva rigettato l’impugnazione sul presupposto che essa società costituiva uno schermo fittizio. Osserva che, in questo modo, a causa del sequestro integrale del patrimonio, le era stato precluso l’esercizio del diritto di difesa. Invece, la sua richiesta di dissequestro parziale avrebbe dovuto essere accolta, così adeguatamente bilanciando le esigenze di natura special-preventiva sottese alla misura cautelare con quelle di rango costituzionale di pari rilevanza, connesse all’esercizio del diritto di difesa. Chiede l’annullamento dell’ordinanza impugnata con ogni conseguenza di legge. Con memoria trasmessa telematicamente, la parte ricorrente evidenzia che non aveva avuto comunicazione della requisitoria scritta del Procuratore generale che si era invece pronunciato sul parallelo ricorso RG 5500/2020, rinuncia a qualsivoglia eccezione, ed insiste nell’accoglimento della domanda. Considerato in diritto 3. Il ricorso è manifestamente infondato. La parte ricorrente ha eccepito la lesione del diritto di difesa perché impossibilitata a pagare l’avvocato, a causa del sequestro del patrimonio. Innanzi tutto, la società è già difesa nel processo da un difensore di fiducia, nel pieno rispetto dell’art. 24 Cost., che, evidentemente, ha maturato o maturerà, secondo gli accordi privatistici, un credito professionale. La società non è pertanto nè legittimata nè interessata ad agire per ottenere la soddisfazione del credito del professionista, il quale, invece, solo allorquando verrà accertato l’an ed il quantum della sua pretesa e questa sarà divenuta esigibile, potrà agire con gli strumenti contemplati dall’ordinamento, secondo le circostanze. Ben è vero che il debitore può avere un interesse all’adempimento e, a talune condizioni, anche un diritto, ma si tratta di una situazione giuridica soggettiva non tutelabile nella fase prematura in cui ci si trova, per giunta in assenza della domanda di pagamento ma in presenza di un sequestro preventivo di tutti i beni della società finalizzato alla confisca dei beni di indagati per reati tributari. Non consta che la giurisprudenza di legittimità si sia occupata di un caso siffatto. Nei repertori, l’attenzione è focalizzata sulla differenza della competenza tra il giudice del riesame e il giudice dell’esecuzione, secondo che l’impugnazione attenga alla verifica dei presupposti della misura cautelare o alle modalità di esecuzione e gestione della stessa ad esempio, nel frequente caso della liquidazione del compenso dell’amministratore giudiziario o del custode del patrimonio sequestrato, la giurisprudenza è ferma nell’individuare la competenza del giudice dell’esecuzione, perché atto di natura amministrativa relativo alla gestione del patrimonio tra le più recenti, Cass., Sez. 3, n. 19914 del 12/12/2018, dep. 2019, Von Einem, Rv. 275963-01 , ovvero sulle modalità di soddisfazione dei crediti che siano maturati in data anteriore al sequestro e siano assistiti da garanzia reale Cass., Sez. 6, n. 6469 del 05/11/2014, dep. 2015, Deutsche Bank Mutui S.p.A., Rv. 262338, secondo cui il titolare di un diritto di credito assistito da garanzia reale su bene sottoposto a sequestro penale può far valere il suo diritto solo in via posticipata davanti al giudice dell’esecuzione penale, a seguito della decisione definitiva sulla confisca non è invece legittimato a chiedere una tutela in via anticipata proponendo, durante la pendenza del procedimento penale, istanza di revoca della misura cautelare al fine di poter iniziare o proseguire l’azione esecutiva civile . Qualche analogia potrebbe rinvenirsi nella legge fallimentare, allorché, a seguito dello spossessamento del patrimonio del debitore, questi debba far fronte alle spese per atti personali. La L. Fall., art. 46, attualmente vigente, prevede che non siano compresi nel fallimento i beni e i diritti di natura strettamente personale gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, pensioni, salari, ciò che il fallito guadagna con la sua attività, entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia i frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto è disposto dall’art. 170 c.c. le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge. Disciplina sovrapponibile a questa si rinviene nel D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, agli art. 146 e 147, non ancora entrati in vigore. È escluso poi che il credito del difensore officiato dal fallito sia prededucibile ai sensi della L. Fall., art. 111-bis o D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, art. 222 non ancora entrato in vigore. Il D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, art. 40, relativo alla gestione dei beni sequestrati, rinvia alla L. Fall., art. 47 sugli alimenti al fallito ed ai suoi familiari, mentre l’intero titolo IV è dedicato alla tutela dei diritti dei terzi ed al rapporto con le procedure concorsuali. Non si rinvengono tuttavia norme di tutela specifica del creditore del professionista nominato dal soggetto spossessato, e ciò per la semplice ragione che va trattato alla stregua di qualsiasi creditore chirografario o privilegiato. Sennonché, certamente alla società non possono applicarsi le norme sugli alimenti e d’altra parte, avendo perso la disponibilità delle sue sostanze, non può assumere debiti nè esigere crediti, la gestione essendo passata all’autorità giudiziaria che vi provvede, se del caso, con l’ausilio del custode o dell’amministratore giudiziario. Nel caso in esame, il legale rappresentante della società avrebbe dovuto presentare l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato e, in caso di eventuale diniego, avrebbe dovuto, impugnando, prospettare i presupposti della questione di legittimità costituzionale. Non può invece pretendere in questa sede la restituzione del denaro per adempiere ad un debito che egli stesso ha contratto, sembrerebbe in data successiva al sequestro, e quindi soggetto come un qualsiasi credito alla diversa disciplina dei crediti nei confronti di un soggetto il cui patrimonio è sequestrato in funzione della successiva confisca. Ritiene il Collegio che, in questo contesto, sia del tutto extravagante la contestazione della violazione costituzionale del diritto di difesa. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.