La Cassazione torna sul tema dell’illegalità della pena

La pena è illegale laddove non corrisponde, per specie ovvero per quantità sia in difetto che in eccesso a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice, collocandosi così al di fuori del sistema sanzionatorio delineato dal legislatore.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 23517/20, depositata il 4 agosto, decidendo sul ricorso proposto dal Procuratore generale della Corte d’Appello di Trento per l’annullamento di una sentenza ex art. 444 c.p.p. con cui è stato disposto un aumento di pena per il reato di maltrattamenti in famiglia ed un altro sulla pena recata da una precedente sentenza passata in giudicato relativa al reato di resistenza. Secondo il ricorrente la pena disposta sarebbe illegale in quanto inferiore al minimo edittale del reato satellite di cui all’art. 572 c.p. con conseguente violazione delle regole in tema di continuazione tra reati. Il ricorso risulta privo di fondamento. Il Collegio ricorda che la nozione di pena illegale” è frutto dell’elaborazione giurisprudenziale e viene definita come illegalità sopraggiunta della pena. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 33040/15, in materia di stupefacenti, hanno chiarivo che la pena è illegale laddove non corrisponde, per specie ovvero per quantità sia in difetto che in eccesso a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice, collocandosi così al di fuori del sistema sanzionatorio delineato dal legislatore. Le Sezioni Unite hanno aggiunto che mentre non configura un’ipotesi di illegalità della pena il trattamento sanzionatorio che risulti complessivamente legittimo, anche se frutto di un vizio del percorso argomentativo attraverso il quale il giudice giunge alla conclusiva determinazione dell’entità della condanna, diversamente, con riferimento ad una pena inflitta extra o contra legem , la giurisprudenza ha sempre ribadito come in tali casi essa debba essere rimossa non solo con i rimedi previsti in sede di cognizione, ma anche dal giudice di esecuzione, dopo il passaggio in giudicato della sentenza . Nel caso di specie però non ci si trova di fronte ad un’ipotesi di violazione attinente alla determinazione in concreto di una pena diversa da quella prevista dalla legge. Il tema è piuttosto quello dell’individuazione in concreto del reato più grave sulla base del quale le parti si sono determinate all’accordo di patteggiamento poi ratificato dal giudice. Ed infatti, come si legge nella pronuncia, nel caso di continuazione tra reati in parte decisi con sentenza definitiva ed in parte sub iudice , come nel caso in esame, il presupposto, ai fini della determinazione della pena, è costituito dalla valutazione della maggiore gravità delle violazioni che deve essere compiuta confrontando la pena irrogata per i fatti già giudicati con quella irroganda per i reati al vaglio del decidente, attesa la necessità di rispettare le valutazioni in punto di determinazione della pena già coperte da giudicato e, nello stesso tempo, di rapportare grandezze omogenee . Nel caso in esame, dunque, non si verte in una ipotesi di illegalità della pena, ma in un errore concernente la misura della pena , quale effetto indiretto della valutazione del giudice, e prima delle parti, valutazione che si traduce nella erronea applicazione della legge penale, non deducibile con il ricorso per cassazione in ipotesi di definizione del procedimento con applicazione pena, e che non trasmoda nella determinazione della pena illegale la cui nozione resta circoscritta alla pena inflitta extra o contra legem . Per questi motivi, il ricorso viene dichiarato inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 9 luglio – 4 agosto 2020, n. 23517 Presidente Fidelbo – Relatore Giordano Ritenuto in fatto 1. Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Trento ha proposto ricorso per l’annullamento della sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., con la quale è stata disposto l’aumento della pena nella misura di mesi cinque di reclusione per il reato di maltrattamenti in famiglia ed altro sulla pena recata da precedente sentenza passata in giudicato relativa al reato di resistenza e parimenti emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p 2. Deduce il ricorrente, con motivi sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p., nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, che la determinazione della pena in mesi cinque di reclusione per i reati di cui all’art. 612 c.p., comma 2, commessi il omissis artt. 56 e 610 c.p., commesso il omissis art. 674 c.p., commesso il omissis art. 341 c.p., commesso il omissis art. 572 c.p., commesso quantomeno dal omissis e, comunque in data antecedente e prossima al omissis , è illegale dal momento che risulta inferiore al minimo edittale del reato satellite di cui all’art. 572 c.p. ovvero anni due di reclusione e, quindi determinata in violazione delle regole che disciplinano l’istituto della continuazione fra reati. Considerato in diritto 1. Il ricorso è proposto per motivi manifestamente infondati. 2. Con la sentenza impugnata il giudice monocratico di Trento ha applicato a M.D.H. la pena di mesi cinque di reclusione, ai sensi dell’art. 81 c.p., comma 2, in aumento sulla pena di anni uno, mesi uno e giorni dieci di reclusione recata dalla sentenza del medesimo Tribunale del 6 maggio 2017 irrevocabile il 21 giugno 2017 . In questa sentenza, per i reati di cui agli artt. 337 e 56 c.p., art. 635 c.p., comma 2, n. 1 e art. 340 c.p., la pena base era stata determinata, in relazione al reato di resistenza, in mesi nove di reclusione aumentata a mesi quindici di reclusione per la recidiva e a mesi venti di reclusione per la continuazione fra reati, poi ridotta per il rito. 3. Il ricorrente Procuratore generale sostiene che la pena inflitta a M.D.H. è illegale perché inferiore al minimo edittale del reato satellite di cui all’art. 572 c.p. ovvero anni due di reclusione e nella requisitoria del Procuratore generale è richiamato un precedente di questa Corte secondo il quale in tema di patteggiamento, deve essere annullata senza rinvio ex art. 448 c.p.p., comma 2-bis, in quanto dà luogo all’applicazione di una pena illegale, la sentenza che recepisce un accordo tra le parti relativamente ad un reato continuato per il quale la pena base risulti quantificata, a seguito di una errata individuazione del reato più grave, in misura inferiore al minimo edittale di altro reato considerato satellite Sez. 5, n. 49546 del 21/09/2018, PG C/ Antinori Matteo, Rv. 274600 . 4. In premessa va rilevato che, in relazione alla data di emissione della sentenza impugnata, adottata in esito dell’udienza tenutasi il 17 luglio 2019 sia pure rispetto a fatti commessi nei primi mesi dell’anno 2017, la decisione può essere impugnata con ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 448 c.p.p., comma 2-bis, introdotto dalla L. 23 giugno 2017, n. 103, in vigore dal 03/08/2017 solo per ragioni attinenti fra le altre, non operanti nel caso in esame all’applicazione di una pena illegale. 5. La nozione di pena illegale è frutto della elaborazione giurisprudenziale, per vero a tratti sovrapposta, soprattutto nelle più risalenti sentenze a quella di pena illegittima, e, da ultimo è stata ricostruita, sul piano sistematico e con maggiore precisione concettuale e terminologica, nella sentenza a Sezioni Unite n. 33040 del 26 febbraio 2015 Jazouli, Rv. 264205 . Tale decisione, che ha individuato, in relazione alla sentenza di applicazione pena, una fattispecie di pena illegale in presenza di l’illegalità sopraggiunta della pena in materia di stupefacenti per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014, è di particolare rilevanza nel caso in esame proprio perché ha esaminato il tema della illegalità della pena nel rapporto tra i limiti fissati dal legislatore e l’applicazione in concreto da parte del giudice. 6. Le Sezioni Unite hanno rilevato che la giurisprudenza si riferisce alla pena illegale quando questa non corrisponde, per specie ovvero per quantità sia in difetto che in eccesso , a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale. Nella nozione di pena illegale rientrano altresì i classici casi di illegalità ab origine, costituiti, ad esempio, dalla determinazione in concreto di una pena diversa, per specie, da quella che la legge stabilisce per quel certo reato, ovvero inferiore o superiore, per quantità, ai relativi limiti edittali tra le tante, Sez. 6, n. 32243 del 15/07/2014, Tanzi, Rv. 260326 Sez. 6, n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255729 Sez. 2, n. 20275 del 07/05/2013, Stagno, Rv. 255197 . Le Sezioni Unite, analizzando la giurisprudenza di legittimità, sono pervenute alla conclusione che mentre non configura un’ipotesi di illegalità della pena il trattamento sanzionatorio che risulti complessivamente legittimo, anche se frutto di un vizio del percorso argomentativo attraverso il quale il giudice giunge alla conclusiva determinazione dell’entità della condanna, diversamente, con riferimento ad una pena inflitta extra o contra legem, la giurisprudenza ha sempre ribadito come in tali casi essa debba essere rimossa non solo con i rimedi previsti in sede di cognizione, ma anche dal giudice di esecuzione, dopo il passaggio in giudicato della sentenza. In sintesi, si osserva, la Corte di cassazione ha sempre ritenuto illegale la pena non prevista dall’ordinamento giuridico oppure eccedente per specie e quantità il limite legale con un’affermazione di principio, riferibile sia alle pene detentive sia alle pene pecuniarie, che vieta che una pena che non trovi fondamento in una norma di legge - anche se inflitta con sentenza non più soggetta ad impugnazione ordinaria - possa avere esecuzione, essendo avulsa da una pretesa punitiva dello Stato Sez. 1, n. 38712 del 23/10/2013, Villirillo, Rv. 256879 Sez. 5, n. 809 del 29/04/1985, Rv. 169333 . La sentenza Jazouli ha esaminato, in relazione alla sentenza di applicazione pena, anche il rapporto tra l’illegalità della pena e la validità dell’accordo sottostante. A questo riguardo ha precisato che la giurisprudenza ha sempre ritenuto inammissibile, in materia di patteggiamento il ricorso per cassazione che proponga motivi concernenti la misura della pena , ma, allo stesso tempo, ha anche affermato che l’illegalità della pena applicata all’esito del patteggiamento rende invalido l’accordo concluso dalle parti e ratificato dal giudice, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza che l’ha recepito, così reintegrando le parti nella facoltà di rinegoziare l’accordo stesso su basi corrette . Certamente nella nozione di pena illegale non rientrano ipotesi di mero errore materiale o di calcolo che possono essere rettificati anche dalla Corte di legittimità ma vi rientrano, invece, i casi in cui la pena era stata determinata contra legem di cui costituiscono esempio evidente quelli in cui il giudice abbia applicato una pena in misura inferiore al minimo assoluto previsto dall’art. 23 c.p. Sez. 5, n. 46790 del 25//10/2005, Grifantini Sez. 5, n. 40840 del 20/09/2004, Terzetti o indicato come pena-base una pena inferiore a quella prevista come minimo edittale per il reato unito con il vincolo della continuazione Sez. 5, n. 1411 del 22/09/2006, Braidich Sez. 3, n. 34302 del 14/06/2007, Catuogno ovvero individuato la pena applicata, in esito al cumulo ex art. 81 cpv. c.p., con un valore inferiore al minimo fissato per il reato più grave tra quelli in continuazione Sez. 6, n. 44336 del 05/10/2004, Mastrolorenzi . In linea con tale ricostruzione si pone la sentenza di questa Corte richiamata nella requisitoria del Procuratore generale, e che, nella motivazione, richiama diffusamente proprio la sentenza Jazouli, oltre alle sentenze ora indicate. 7. Tale conclusione, tuttavia, non è sovrapponibile alla fattispecie in esame nella quale non vengono in rilievo violazioni attinenti alla determinazione in concreto di una pena diversa, per specie, da quella che la legge stabilisce per quel certo reato, ovvero inferiore o superiore, per quantità, ai relativi limiti edittali nella specie il reato di maltrattamenti in famiglia, punito con la pena minima di anni due di reclusione, e superiore al minimo edittale previsto dal reato di resistenza, secondo la prospettazione del ricorrente ma la individuazione in concreto del reato più grave sulla base del quale le parti si sono determinate all’accordo poi ratificato dal giudice. In altre parole - e ve ne è eco anche nella enunciazione dei motivi di ricorso e nella requisitoria del Procuratore generale - non sono state violate le regole che attengono alla individuazione dei limiti edittali di pena semmai le regole che presidiano la individuazione del reato più grave, violazione che, tuttavia, non incorre nella comminatoria di una pena illegale, secondo la nozione innanzi delineata, e che ricorre quando l’errore di determinazione della pena, illegittimamente ratificata dal giudice di merito, sia consistito nell’avere indicato come pena base una pena inferiore a quella prevista come minimo edittale per i reati affasciati con il vincolo della continuazione contemporaneamente giudicati dallo stesso giudice. Ed invero, nel caso di continuazione tra reati in parte decisi con sentenza definitiva ed in parte sub iudice , come nel caso in esame, il presupposto, ai fini della determinazione della pena, è costituito dalla valutazione della maggiore gravità delle violazioni che deve essere compiuta confrontando la pena irrogata per i fatti già giudicati con quella irroganda per i reati al vaglio del decidente, attesa la necessità di rispettare le valutazioni in punto di determinazione della pena già coperte da giudicato e, nello stesso tempo, di rapportare grandezze omogenee Sez. 6, n. 36402 del 04/06/2015 - dep. 09/09/2015, Fragnoli e altri, Rv. 264582 Sez. 2, n. 935 del 23/09/2015 - dep. 2016 -, Vella e altri, Rv. 265733 . Il principio che regola la materia è diverso da quello che disciplina il caso in cui i reati debbano essere contemporaneamente giudicati dallo stesso giudice, ed è solo in questo caso che la violazione più grave va individuata in astratto, in base alla pena edittale prevista per il reato ritenuto dal giudice in rapporto alle singole circostanze in cui la fattispecie si è manifestata e all’eventuale giudizio di comparazione fra di esse Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, P.G. in proc. Ciabotti e altro, Rv. 255348 . È, dunque, solo in tale evenienza che trovano applicazione - in punto di individuazione della sanzione più grave - i principi richiamati nella sentenza Antinori e nelle sentenze indicate nella sentenza Jazouli che hanno, tutte e ciascuna, ad oggetto casi nei quali l’erronea individuazione della fattispecie più grave è collegata alla pena prevista dalla fattispecie incriminatrice, cioè la pena in astratto, posta a base del calcolo della pena dal giudice che contemporaneamente giudica più reati. Nel caso in esame, invece, non si verte in una ipotesi di illegalità della pena, nei termini descritti, ma, al più, in un errore concernente la misura della pena, quale effetto indiretto della valutazione del giudice, e prima delle parti, valutazione che si traduce nella erronea applicazione della legge penale, non deducibile con il ricorso per cassazione in ipotesi di definizione del procedimento con applicazione pena, e che non trasmoda nella determinazione della pena illegale la cui nozione resta circoscritta alla pena inflitta extra o contra legem. È solo la determinazione extra o contra legem della pena da applicare che invalida la base negoziale sulla quale è maturato l’accordo e che inficia la sentenza che lo ha recepito con conseguente nullità della pronuncia ma non anche, perché non rientra nella nozione sia pure ampia di pena illegale innanzi delineata, la individuazione del reato più grave che, in caso di applicazione pena fra fatti già giudicati e fatti da giudicare si sviluppa secondo regole che involgono l’apprezzamento in concreto della gravità del reato, tra grandezze omogenee quali la pena irrogata per il reato già giudicato e quella irroganda per i fatti al vaglio del giudice, reato più grave che, nel caso in esame, è stato ritenuto essere quello di resistenza, per il quale era già intervenuta condanna, con conseguente inammissibilità del proposto ricorso. Se il legislatore, sia pure per prevalenti intenti deflettivi, ha introdotto e delimitato i casi di ammissibilità del ricorso avverso la sentenza di patteggiamento la nozione di illegalità della pena non può risolversi nel rifletto del vizio di violazione di legge tout court cfr. Sez. 6, n. 5210 del dell’11/12/2018, dep. 2019, Chiumineto, Rv. 275027 ma deve essere intesa come limitata ai soli casi di violazione delle norme che disciplinano il trattamento sanzionatorio riconducibili alla applicazione della pena extra o contra legem che ricorrono in presenza di applicazione della pena per un reato depenalizzato, per abolitio criminis o per effetto di incostituzionalità della norma penale, anche se relativa al solo trattamento sanzionatorio, ovvero quando sia applicata una pena in misura inferiore al minimo assoluto previsto dall’art. 23 c.p. o indicata come pena-base una pena inferiore a quella prevista come minimo edittale per il reato unito con il vincolo della continuazione, o, ancora individuata la pena applicata, in esito al cumulo ex art. 81 cpv. c.p., con un valore inferiore al minimo fissato per il reato più grave tra quelli in continuazione, sempre che vengano in rilievo i limiti edittali o in astratto del trattamento punitivo applicato e non già scelte discrezionali delle parti, e quindi, del giudice, nella individuazione del reato in concreto più grave o, in generale, nella individuazione della misura della pena poiché, diversamente opinando, ogni vizio di legge sostanziale e/o processuale si tradurrebbe sempre in una illegalità della comminatoria finale della pena quale effetto conclusivo del procedimento in senso lato viziato finendo, così, per assimilare il vizio di illegalità della pena a quello di violazione di legge. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso.