Rabbia sfogata contro il tavolo in cella: condanna per il detenuto

Acclarato il danneggiamento compiuto dall’uomo. A rendere più grave la sua condotta il fatto che essa abbia riguardato una cosa esistente in una struttura pubblica.

Costa carissima al detenuto la rabbia che egli sfoga su un tavolo presente nella cella. Legittima, difatti, per i Giudici, la sua condanna per il reato di danneggiamento, reso più grave dall’aver commesso il fatto su una cosa esistente in una struttura pubblica Cassazione, sentenza n. 15246/20, sez. II Penale, depositata il 18 maggio . Linea di pensiero comune per i giudici di merito, che ritengono evidente la colpevolezza dell’uomo finito sotto processo per avere lesionato un tavolo presente nella cella ove egli era ristretto. E l’episodio è considerato grave anche perché ha riguardato, osservano i Giudici, una cosa presente in un ufficio pubblico. Quest’ultima considerazione viene contestata dal legale dell’uomo. A suo dire, innanzitutto va messa in discussione la responsabilità del proprio cliente, e, soprattutto, va censurata la qualificazione dell’istituto di pena quale luogo pubblico . Le obiezioni difensive non convincono però i Giudici della Cassazione. Confermata, di conseguenza, la condanna, così come decisa in Appello. In prima battuta viene ritenuta certa la responsabilità dell’uomo per il comportamento tenuto in cella. Significativa, in quest’ottica, anche l’utilizzazione a fini probatori delle risultanze del procedimento disciplinare e delle dichiarazioni confessorie dell’uomo si tratta di materiale non contestabile poiché acquisito su accordo delle parti, e dunque pienamente utilizzabile , chiariscono i magistrati. Per quanto concerne la valutazione del contesto in cui è avvenuto il fattaccio, i Giudici ritengono evidente la natura pubblica della proprietà degli istituti penitenziari e della funzione a cui gli stessi sono destinati, unitamente alle suppellettili che li arredano , suppellettili che includono, in sostanza, anche il tavolo della cella .

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 10 dicembre 2019 – 18 maggio 2020, n. 15246 Presidente Verga – Relatore Filippini Considerato in fatto 1. La CORTE di APPELLO di PALERMO, con sentenza in data 15/10/2018, confermava la condanna alla pena ritenuta di giustizia pronunciata dal TRIBUNALE di TR., in data 28/04/2017, nei confronti di TR. PA. in relazione al reato di cui agli artt. 635 commi 1 e 2 nonché 625 n. 7 cod.pen., integrato mediante il danneggiamento di un tavolo della cella ove si trovava ristretto. 2. Propone ricorso per cassazione l'imputato, deducendo i seguenti motivi - violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 192 e 195 cod.proc.pen. invero, la condanna si fonda sulle dichiarazioni de relato del teste La., la fonte diretta non è stata ascoltata e gli atti relativi al procedimento disciplinare, contenenti dichiarazioni confessorie dell'imputato, non possono costituire idoneo fondamento della pronuncia. - violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla qualificazione dell'istituto di pena quale luogo pubblico piuttosto che come luogo aperto al pubblico. - violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all'applicazione della recidiva, non sorretta da adeguata motivazione. Ritenuto in diritto Il ricorso è inammissibile. 1. Manifestamente infondato è il primo motivo relativo alla pretesa violazione degli artt. 192 e 195 cod.proc.pen., avendo già la Corte territoriale adeguatamente contrastato le medesime questioni che vengono ora riproposte in maniera aspecifica e meramente reiterativa. Quanto al tema della mancata audizione del teste de relato, si è fatto opportuno richiamo alla condivisa giurisprudenza di legittimità in materia Sez. 3, n. 6212 del 18/10/2017,Rv. 272008 , secondo la quale l'inutilizzabilità della dichiarazione de relato resa dal testimone deriva esclusivamente dall'inosservanza della disposizione del comma 1 dell'articolo 195 cod. proc. pen., allorché il giudice, su richiesta della parte, non abbia disposto l'esame della fonte diretta, ma non anche, in assenza di tale richiesta, dal mancato esercizio, da parte del giudice, del potere d'ufficio conferitogli dall'articolo 507 cod. proc. pen. e richiamato dall'articolo 195, comma 2, cod. proc. peri, massime precedenti .conformi N. 1151 del .2006 Rv. 233170 - 01, N. 9274 del 2014 Rv. 263062 - 01 . E, nel ricorso, neppure si deduce l'esistenza di una siffatta richiesta, né comunque emerge dagli atti. Quanto al tema della utilizzazione, a fini probatori, delle risultanze del procedimento disciplinare, e delle dichiarazioni confessorie dell'imputato ivi contenute, la Corte territoriale ha evidenziato che trattasi di materiale acquisito su accordo delle parti, dunque pienamente utilizzabile. Anche tale asserzione non ha trovato puntuale confutazione o smentita nell'ambito del presente ricorso. 2. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo. Sebbene si tratti di questione non dedotta in appello, stima il Collegio trattarsi di argomento comunque suscettibile di esame, da parte di questa Corte, ex articolo 609 comma 2, cod.proc.pen. cfr. Sez. 1, n. 13387 del 16.5.2013, Rv. 259730 . Ciò posto, devesi considerare che, secondo il novellato testo dell'articolo 635, comma 2 n. 1 , cod.pen. per effetto delle modifiche normative introdotte con D.Lgs. N. 7/2016 , la rilevanza penale dei fatti di danneggiamento permane, tra le varie ipotesi, anche laddove relativi alle cose indicate nel n. 7 dell'articolo 625 cod.pen., e cioè, per quanto di interesse nella fattispecie, con riferimento alle cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici o destinate a pubblico servizio . Evidente appare, con riferimento alla fattispecie, la natura pubblica della proprietà degli istituti penitenziari e della funzione a cui gli stessi sono destinati, unitamente alle suppellettili che li arredano tra le quali rientra il tavolo della cella ove l'imputato si trovava ristretto al momento del fatto . 3. Il terzo motivo di ricorso attiene a questioni non proposte in appello, come emerge dall'esame dell'atto di gravame, e dunque risulta precluso ex articolo 606 comma 3 cod.proc.pen 4. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell'articolo 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186 , al versamento della somma, che si ritiene equa, di Euro duemila a favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende.