Istanza di riparazione per ingiusta detenzione e valutazione del comportamento del detenuto

In tema di ingiustizia c.d. formale ex art. 314, comma 2, c.p.p., l’apporto sinergico del detenuto, ostativo alla riparazione, va accertato non soltanto in relazione alla genesi della misura, ma anche rispetto al suo mantenimento .

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13885/20, depositata il 7 maggio. Il fatto. La Corte d’Appello di Salerno rigettava l’istanza di riparazione presentata da un uomo per l’ingiusta detenzione in carcere subita per circa un mese nell’ambito di un procedimento che lo vedeva accusato di estorsione. Il Tribunale del riesame aveva infatti annullato l’ordinanza di custodia cautelare per insussistenza di gravi indizi e il ricorrente era stata poi assolto con sentenza divenuta irrevocabile. La decisione della Corte era fondata su comportamenti gravemente colposi del richiedente, inoltre, posto che al momento dell’adozione della misura cautelare non erano ancora stati resi gli interrogatori che hanno poi portato all’esclusione della responsabilità dell’uomo, non è invocabile la sentenza delle Sezioni Unite D’Ambrosio n. 32383/20 . Secondo tale arresto giurisprudenziale, la circostanza di aver dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave non opera come condizione ostativa all’equa riparazione se l’accertamento dell’insussistenza delle condizioni di applicabilità della misura ad orgine avviene sulla base dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare. Ingiustizia c.d. formale. Il ricorrente ha impugnato la pronuncia dinanzi alla Suprema Corte invocando la c.d. ingiustizia formale di cui al comma 2 dell’art. 314 c.p Richiamando la pronuncia D’Ambrosio summenzionata, il Collegio sottolinea come sia ontologicamente da escludere un apporto sinergico nell’adozione della misura, da parte del detenuto, in termini di dolo o colpa grave, allorquando sia acclarata l’inesistenza originaria delle condizioni legittimanti il titolo, sulla base del medesimo patrimonio conoscitivo che era a disposizione del GIP all’atto dell’adozione della misura . Tale affermazione può essere estesa anche ai casi in cui il patrimonio conoscitivo del GIP sia accresciuto da fatti o elementi che avrebbero imposto la revoca della misura cautelare, poiché essi devono costituire motivo di verifica della legalità della misura ai sensi dell’art. 299, comma 1, c.p.p. . In conclusione, la sentenza afferma il principio secondo cui anche in tema di ingiustizia c.d. formale, contemplata nel secondo comma dell’art. 314 c.p.p., l’apporto sinergico del detenuto, ostativo alla riparazione, va accertato non soltanto in relazione alla genesi della misura, ma anche rispetto al suo mantenimento risultano quindi rilevanti, nella prospettiva del giudice di riparazione, gli elementi sopravvenuti che avrebbero potuto determinare e hanno poi determinato il venire meno delle condizioni di permanenza della stessa, delle quali il GIP sia stato portato a conoscenza prima dell’adozione del provvedimento che ha accertato l’insussistenza delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p. . Posto che nel caso di specie gli interrogatori di garanzia dei coindagati erano stati resi innanzi al GIP che aveva adottato la misura, entrando pertanto nel suo patrimonio conoscitivo, egli avrebbe dovuto tenerne conto ai fini del mantenimento della misura prima dell’intervento del Tribunale del riesame. Il provvedimento impugnato viene dunque annullato con rinvio al giudice della riparazione per un nuovo esame.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 19 febbraio – 7 maggio 2020, n. 13885 Presidente Dovere – Relatore Bruno Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza emessa in data 20/11/2019, la Corte di appello di Salerno ha rigettato l’istanza di riparazione presentata da S.V. per la dedotta ingiusta detenzione sofferta in carcere dal 6.7.2017 al 28.7.2017, nell’ambito di un procedimento in cui il predetto era chiamato a rispondere del delitto di estorsione, per avere preteso, con minaccia, somme di danaro da taluni automobilisti per il parcheggio delle vetture in una determinata zona della città di . Il Tribunale del riesame, evidenzia il Giudice della riparazione, aveva annullato l’ordinanza di custodia cautelare per insussistenza dei gravi indizi ed il ricorrente era stato successivamente assolto con sentenza divenuta irrevocabile. 2. La Corte distrettuale ha individuato comportamenti gravemente colposi in capo al richiedente, mettendo in rilievo che il S. era stato sorpreso dalle Forze dell’Ordine nella zona in cui veniva esercitata l’attività di guardiania abusiva da parte di un gruppo di soggetti che imponeva agli automobilisti, con minaccia, il pagamento di somme di danaro. Ha altresì evidenziato che il ricorrente era stato più volte osservato sul luogo dei fatti, insieme ad altri individui, suoi originari coindagati, i quali davano indicazioni agli automobilisti su dove parcheggiare, riscuotendo somme di danaro. In motivazione viene affrontato il problema sollevato dalla difesa, riproposto anche in questa sede, riguardante l’identità del materiale probatorio esistente innanzi al G.i.p. rispetto a quello portato all’attenzione del Tribunale del riesame, che era pervenuto alla decisione di annullamento della ordinanza cautelare custodiate per insussistenza dei gravi indizi. A questo proposito la Corte territoriale nega che vi sia tale identità, sostenendo che, all’atto dell’adozione della misura, non erano stati ancora resi gli interrogatori di garanzia degli altri coindagati, colpiti dalla medesima ordinanza, che in quella sede avevano scagionato il S. , dichiarando concordemente che costui era estraneo all’attività illecita che gli era contestata. Poiché gli interrogatori di garanzia, si legge nella ordinanza, erano intervenuti dopo l’emissione della misura, non ricorrerebbero i presupposti per ritenere operanti i principi stabiliti nella nota sentenza a Sezioni Unite D’Ambrosio Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, Rv. 247663 - 01 in virtù dei quali la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave non opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione, nei casi in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha reso il provvedimento cautelare. 3. Il ricorrente, a mezzo del difensore, impugna il provvedimento di rigetto, lamentando, con particolare riguardo all’ipotesi di ingiustizia formale di cui all’art. 314 c.p., comma 2, violazione di legge e vizio di motivazione. Rileva che la Corte di appello non ha considerato che gli interrogatori di garanzia dei coindagati erano stati comunque resi innanzi al G.i.p. che aveva adottato la misura, pertanto erano entrati a fare parte del suo patrimonio conoscitivo. Di conseguenza, egli avrebbe dovuto tenerne conto ai fini del mantenimento della misura prima dell’intervento del Tribunale del riesame. 4. Il Procuratore Generale, con requisitoria scritta, ha chiesto il rigetto del ricorso. 5. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, a mezzo dell’Avvocatura di Stato, ha concluso per la inammissibilità del ricorso o, in subordine, per il suo rigetto. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato e deve essere accolto nei termini di seguito specificati. Il ricorrente ha invocato il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, ponendo la questione della cosiddetta ingiustizia formale, contemplata dall’art. 314 c.p., comma 2, a mente del quale l’indennizzo spetta anche al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p In relazione a tale profilo, le Sezioni Unite di questa Corte Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, D’Ambrosio, Rv. 247663 - 01 , come ricordato nello stesso provvedimento impugnato, hanno stabilito che la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, anche in relazione alle misure disposte in difetto delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p Il Supremo consesso ha tuttavia precisato che tale operatività non può concretamente esplicarsi, in forza del meccanismo causale che governa l’indicata condizione ostativa, nei casi in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha reso il provvedimento cautelare, in ragione unicamente di una loro diversa valutazione. Nella motivazione della citata pronuncia si precisa che, in tali casi, la possibilità del diniego del diritto alla riparazione per effetto della condizione ostativa della condotta sinergica del soggetto rimane preclusa non per una diversa configurazione strutturale di tale diritto, sibbene in forza dello stesso meccanismo causale che governa l’operatività della condizione in parola , aggiungendo, per maggiore chiarezza, che Allorquando, in effetti, si riconosce che il GIP era oggettivamente nelle condizioni di negare o revocare la misura, con ciò stesso si esclude la ravvisabilità di una coefficienza causale nella sua determinazione da parte del soggetto passivo. La rilevanza della condotta ostativa si misura infatti non sull’influenzabilità della persona del singolo giudice, bensì sull’idoneità a indurre in errore la struttura giudiziaria preposta alla trattazione del caso, complessivamente e oggettivamente intesa cfr. Cass., Sez. 4, 15 marzo 1995, Sorrentino . Ai fini delle verifiche di pertinenza del giudice della riparazione diviene, quindi, particolarmente importante appurare se l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale sia avvenuto vuoi nel procedimento cautelare vuoi nel procedimento di merito sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela, o alla stregua di un materiale contrassegnato da diversità purché rilevante ai fini della decisione rispetto ad essi, posto che la problematica della condotta sinergica viene praticamente in rilievo solo nel secondo e non anche nel primo dei suddetti casi . Alla luce di tali puntuali argomentazioni occorre qui ribadire come sia ontologicamente da escludere un apporto sinergico nell’adozione della misura, da parte del detenuto, in termini di dolo o colpa grave, allorquando sia acclarata l’inesistenza originaria delle condizioni legittimanti il titolo, sulla base del medesimo patrimonio conoscitivo che era a disposizione del G.i.p. all’atto dell’adozione della misura. Il dictum può essere esteso, considerata l’eadem ratio che lo informa, anche ai casi nei quali il patrimonio conoscitivo del G.i.p., garante permanente della legalità della misura nella fase delle indagini, sia accresciuto da fatti o elementi che avrebbero imposto la revoca della misura cautelare, poiché essi devono costituire motivo di verifica della legalità della misura ai sensi dell’art. 299 c.p.p., comma 1. Sul versante del giudizio da compiersi in sede di riparazione, nel caso in cui venga in rilievo l’ipotesi della ingiustizia formale , l’aspetto riguardante la medesimezza del patrimonio conoscitivo del giudice della cautela rispetto al giudice del riesame dovrà riguardare non solo gli originari elementi che hanno determinato il giudice ad adottare la misura ma anche ogni altro elemento successivo determinante ai fini della sua revoca, della cui conoscenza il giudice della cautela sia stato investito. Da quanto precede discende la formulazione del seguente principio di diritto Anche in tema di ingiustizia cd. formale, contemplata nell’art. 314 c.p.p., comma 2, l’apporto sinergico del detenuto, ostativo alla riparazione, va accertato non soltanto in relazione alla genesi della misura, ma anche rispetto al suo mantenimento risultano quindi rilevanti, nella prospettiva del giudice della riparazione, gli elementi sopravvenuti che avrebbero potuto determinare e hanno poi determinato il venire meno delle condizioni di permanenza della stessa, delle quali il G.i.p. sia stato portato a conoscenza prima dell’adozione del provvedimento che ha accertato l’insussistenza delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p. . 2. Tutto ciò premesso, deve ritenersi che bene abbia fatto la Corte di merito ad interrogarsi sul tema dell’identità degli elementi indiziari in possesso del giudice della cautela rispetto a quelli in possesso del Tribunale del riesame. Deve tuttavia rilevarsi come la osservazione secondo la quale il patrimonio conoscitivo del Tribunale del riesame si sia arricchito del contenuto dell’interrogatorio di garanzia del ricorrente e degli altri soggetti colpiti dalla misura cautelare, sia inesatta. È evidente come le dichiarazioni rese dal S. e dagli altri originari coindagati, veicolate attraverso l’interrogatorio di garanzia, siano divenute note al giudice della cautela nel momento in cui furono a lui rese in quella sede. Ne deriva che non è sostenibile che il G.i.p. non ne avesse avuto cognizione. In conclusione, l’obiezione difensiva è fondata e di ciò dovrà tenere conto il Giudice della riparazione ai fini della compiuta disamina del caso nei termini sopra precisati. Deve pertanto disporsi l’annullamento della ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Salerno cui è demandata anche la regolamentazione delle spese tra le parti del giudizio di legittimità. P.Q.M. Annulla il provvedimento impugnato con rinvio alla Corte d’appello di Salerno per nuovo esame, demandandole anche la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.