Condannato definitivo chiede la rideterminazione del trattamento sanzionatorio ma ha già espiato la pena detentiva…

Il rapporto esecutivo deve intendersi unitariamente se riguarda pene concorrenti inflitte con condanne diverse per reati commessi prima dell’inizio dell’esecuzione pertanto, qualora subentri una pronuncia di illegittimità costituzionale che imponga una rideterminazione della pena, nell’ipotesi in cui la pena pecuniaria non sia stata riscossa, ai fini della pendenza del rapporto esecutivo, è irrilevante che la pena detentiva sia stata integralmente espiata.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13072/20, depositata il 27 aprile. Il caso. Un soggetto condannato per reati in materia di stupefacenti ha chiesto la rideterminazione della pena, con incidente di esecuzione, pur avendo già espiato la pena detentiva. La condanna è divenuta irrevocabile ma la sanzione pecuniaria non è stata riscossa. L’interesse nasce a seguito della pronuncia di illegittimità costituzionale 2014 di alcune norme stabilite nel testo unico in materia di stupefacenti. Ad avviso del ricorrente il rapporto esecutivo non era esaurito nonostante fosse stata integralmente espiata la sanzione detentiva la pena pecuniaria, infatti, non è stata riscossa. Rideterminazione della pena inflitta. L’interesse concreto e attuale del condannato alla rideterminazione della pena inflitta con sentenza irrevocabile, sulla base di parametri edittali più favorevoli vigenti a seguito di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale riguardante il trattamento sanzionatorio, sussiste non solo se la pena non sia stata ancora interamente espiata ma anche quando una quota della pena espiata in eccesso, rispetto alla sopravvenuta cornice edittale più favorevole, possa essere imputata alla condanna per altro reato, sempre che la detenzione in eccesso sia sofferta dopo la commissione del reato per cui si chiede la fungibilità. Effetti della sentenza di illegittimità costituzionale. Il limite alla reversibilità degli effetti della sentenza di incostituzionalità è costituito dall’avvenuta esecuzione della sanzione applicata, nel senso che gli effetti non devono essere reversibili. La legge infatti impone di rimuovere tutti gli effetti pregiudizievoli del giudicato non divenuti nel frattempo irrevocabili, ossia quelli che non possono essere rimossi perché già consumati come nel caso di pena scontata . Origine e termine del rapporto esecutivo. Il rapporto esecutivo penale trae origine dal titolo irrevocabile di condanna e si conclude soltanto con l’espiazione oppure con l’estinzione della pena. Ne consegue che se l’esecuzione è perdurante, il rapporto esecutivo non può ritenersi esaurito e risente degli effetti della norma dichiarata costituzionalmente illegittima, effetti che dovranno essere rimossi con un intervento del giudice dell’esecuzione, cui compete, in generale, assumere le decisioni, aventi efficacia giurisdizionale su ogni questione inerente al rapporto esecutivo. Se, invece, l’esecuzione non sia pendente, l’ordinamento non consente l’esperimento di alcuna azione o rimedio per il suo definitivo esaurimento. La tesi contraria alla rideterminazione nell’ipotesi in cui la pena detentiva sia stata espiata Un orientamento di legittimità ritiene inammissibile l’istanza rivolta al giudice dell’esecuzione di rideterminazione della pena illegale derivante da dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio qualora la pena detentiva sia stata interamente eseguita, in quanto il rapporto esecutivo si esaurisce con l’espiazione della pena e non rileverebbe che la pena pecuniaria debba ancora essere riscossa. Secondo tale filone il valore dell’intangibilità del giudicato soccomberebbe solo rispetto al diritto fondamentale alla libertà personale. In altri termini, la cosa giudicata non osterebbe alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio stabilito con sentenza irrevocabile di condanna nei casi in cui la pena debba subire modificazioni imposte a tutela dei diritti primari della persona diverso sarebbe invece riguardo alla pena pecuniaria. ma il Collegio giudicante è di opinione diversa. Secondo il Collegio, invece, la questione merita opposta soluzione in sede esecutiva, è possibile pervenire alla rideterminazione della pena irrogata sulla base di una cornice edittale vigente prima del deposito della sentenza di illegittimità costituzionale nel caso in cui, pur essendo stata espiata la pena detentiva, quella pecuniaria non sia stata ancora eseguita. Ciò perché l’esecuzione della pena pecuniaria è suscettibile di incidere, in modo diretto o indiretto conversione in lavoro sostitutivo, libertà controllata, permanenza domiciliare , sulla libertà personale bene di rango costituzionale . Sebbene meno rispetto al passato, l’applicazione della pena pecuniaria è in grado di determinare una limitazione della libertà personale, sia pure solo in caso di colpa del condannato. Il rapporto esecutivo è esaurito se è riscossa anche la pena pecuniaria. La nozione di esaurimento del rapporto esecutivo ostativo alla rideterminazione della pena deve essere intesa nella sua accezione più ampia, comprensiva sia della sanzione detentiva che di quella pecuniaria. Il soggetto che abbia scontato una pena detentiva superiore a quella ricalcolata per effetto dell’intervento del giudice costituzionale e non abbia ancora pagato l’importo dovuto a titolo di multa mantiene interesse alla complessiva rideterminazione del trattamento sanzionatorio quantomeno in vista dell’abbattimento, previa conversione del periodo detentivo espiato in eccesso nella corrispondente pena pecuniaria, del quantum da versare. Nel caso di non avvenuta esecuzione della sola multa, la rideterminazione deve interessare anche quella detentiva, eventualmente anche in funzione di commisurazione, in caso di esecuzione di pene concorrenti, della pena residua da espiare. Ne deriva che in tema di esecuzione delle pene concorrenti inflitte con condanne diverse opera il principio dell’unità del rapporto esecutivo, alla stregua del quale le pene inflitte per reati commessi prima dell’inizio dell’esecuzione vanno considerate come pena unica. Il giudizio in ordine all’esaurimento del rapporto esecutivo dipendente da una condanna colpita da una pronuncia di illegittimità costituzionale richiede l’esame del complessivo rapporto esecutivo che riguarda il condannato e, successivamente, verificando se la complessiva pena determinata nel cumulo sia stata o meno espiata interamente.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 3 marzo – 27 aprile 2020, n. 13072 Presidente Siani – Relatore Cappuccio Ritenuto in fatto 1. Con decreto del 4 settembre 2019 la Corte di appello di Napoli, quale giudice dell'esecuzione, ha dichiarato l'inammissibilità, ai sensi dell'art. 666 c.p.p., comma 2, dell'istanza presentata nell'interesse di C.G. ed intesa alla rideterminazione, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, della pena di sei anni di reclusione e 30.000 Euro di multa, irrogata con sentenza della Corte di appello di Palermo del 7 gennaio 2010, diventa irrevocabile l'1 luglio 2010. Ha, in proposito, esposto che l'istanza costituisce pedissequa riproposizione di altra, avente contenuto analogo, già rigettata in esito a procedimento definito dalla Corte di cassazione con sentenza n. 39724 del 10/09/2015, sul presupposto dell'avvenuta espiazione della pena in epoca precedente all'intervento del giudice delle leggi, sopraggiunto, pertanto, quando il rapporto esecutivo si era ormai esaurito. Per tale via, ha aggiunto, è stasa disattesa la prospettazione della parte, che ancorava la persistenza dell'interesse alla possibilità di sottrarre la quota di sanzione ingiustamente patita dal quantum di pena da espiare, eventualmente, ad altro titolo. 2. C.G. propone, con il ministero dell'avv. Sergio Mottola, ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, con il quale deduce violazione di legge e vizio di motivazione per avere il giudice dell'esecuzione trascurato che la nuova istanza non è riproduttiva della prima in quanto proposta a seguito dell'emissione, il 24 maggio 2018, da parte della Procura generale presso la Corte di appello di Napoli, di provvedimento di esecuzione di pene concorrenti che comprende anche la sanzione inflitta dalla Corte di appello di Palermo il 7 gennaio 2010, mai eseguita con riferimento alla pena pecuniaria. 3. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato e merita, pertanto, accoglimento. 2. La Corte di appello di Napoli ha dichiarato, ai sensi dell'art. 666 c.p.p., comma 2, l'inammissibilità dell'istanza di rideterminazione della pena presentata nell'interesse di C.G. perchè meramente iterativa di quella in precedenza vagliata, con esito sfavorevole al richiedente, dalla Corte di appello di Palermo. Ha, specificamente, segnalato che, in quella sede, l'istante aveva dedotto di avere interesse alla rideterminazione, a dispetto dell'intervenuta esecuzione della pena, nella prospettiva di potersi avvalere dell'istituto della fungibilità in caso di eventuali, ulteriori condanne definitive. 3. Il vaglio critico della decisione impugnata postula la nitida messa a fuoco dell'oggetto del precedente incidente di esecuzione e dell'estensione della preclusione che ne è conseguita. E' opportuno, dunque, precisare che la Corte di cassazione, nella motivazione della sentenza n. 39724 del 10/09/2015, con cui venne rigettato il ricorso di C. avverso l'ordinanza reiettiva dell'originaria richiesta di rideterminazione della pena, reputò - dopo avere tracciato le coordinate ermeneutiche che governano la rideterminazione in executivis conseguente ad una pronunzia della Corte costituzionale incidente sulla misura del trattamento sanzionatorio - le considerazioni difensive destituite di giuridico pregio, poichè, oltre a non essere correlate, se non in termini di generico dissenso, con gli indicati principi e, per l'effetto, con il contenuto della decisione impugnata, neppure esprimono, rinviando in modo aspecifico all'affermata esistenza di altre condanne e pendenze, la sussistenza di un interesse concreto e attuale del ricorrente ad avere una decisione che, apprezzando la sua richiesta, si traduca, in termini di attualità, riferiti alla specifica posizione esecutiva dedotta, nella rimozione di una situazione di svantaggio processuale ovvero nel conseguimento di una utilità processuale, secondo condivisi principi tra le altre, Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, Rv. 251693 . L'istanza introduttiva dell'incidente di esecuzione nell'ambito del quale è stato emesso il provvedimento impugnato muove, invece, dal rilievo che, in epoca successiva alla menzionata decisione della Corte di cassazione, e precisamente il 19 febbraio 2016, è divenuta definitiva la condanna di C.G. alla pena di nove anni di reclusione. La circostanza trova conferma nel certificato del casellario giudiziale e, tra l'altro, ha giustificato lo spostamento della competenza verso la Corte di appello di Napoli, che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo. Essa, come rivendicato dall'odierno ricorrente sin dalla proposizione dell'istanza ex art. 666 c.p.p., costituisce elemento di novità idoneo, in potenza, a superare l'intrinseco deficit di concretezza ed attualità che ha inciso sull'esito sfavorevole del precedente incidente di esecuzione. Nella medesima direzione si colloca, peraltro, l'inserimento della pena della cui rideterminazione si discute, ancora da eseguire nella porzione pecuniaria, nel provvedimento di esecuzione di pene concorrenti emesso dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli il 24 maggio 2018, cioè dopo l'introduzione del più recente incidente di esecuzione ma prima della discussione, in camera di consiglio, dell'istanza poi rigettata dalla Corte di appello partenopea. Pertinente si palesa, al riguardo, il richiamo al condiviso indirizzo ermeneutico secondo cui L'interesse concreto ed attuale del condannato alla rideterminazione della pena inflitta con sentenza irrevocabile sulla base di parametri edittali più favorevoli vigenti a seguito di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale riguardante il trattamento sanzionatorio, sussiste non solo se la pena non sia stata ancora interamente espiata, ma anche quando una quota della pena espiata in eccesso rispetto alla sopravvenuta cornice edittale più favorevole, possa essere imputata alla condanna per altro reato, ai sensi dell'art. 657 c.p.p., comma 3, sempre che la detenzione in eccesso sia sofferta dopo la commissione del reato per cui si chiede la fungibilità Sez. 6, n. 27403 del 10/06/2016, Crivello, Rv. 267365 Sez. 1, n. 32205 del 26/06/2015, Gomes Toscani, Rv. 264620 . Dalle superiori considerazioni discende, al cospetto di nuovi elementi di fatto cronologicamente sopravvenuti alla decisione, l'inoperatività della preclusione derivante dal cosiddetto giudicato esecutivo, pacificamente attestata dalla giurisprudenza di legittimità Sez. 1, n. 7877 del 21/01/2015, Conti, Rv. 262596 più in generale, sulla portata della preclusione processuale in sede esecutiva, cfr. Sez. U, n. 18288 del 21/01/2010, Beschi, in motivazione e, quindi, la fallacia del ragionamento sotteso alla censurata declaratoria di inammissibilità ex art. 666 c.p.p., comma 2. 4. Occorre, a questo punto, esaminare, nel rispetto delle indicazioni che si traggono dalla giurisprudenza di legittimità Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260699 Sez. 4, n. 12261 del 01/02/2018, Occhiuto, Rv. 272346 Sez. 5, n. 15362 del 12/01/2016, Gaccione, Rv. 266564 Sez. 1, n. 32193 del 28/05/2015, Quaresima, Rv. 264257 , l'ulteriore profilo controverso, che attiene alla verifica della permanenza - recte del non esaurimento - del rapporto esecutivo quale condizione necessaria, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 4,, per operare la rideterminazione. Nella motivazione della già citata sentenza n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, le Sezioni Unite hanno precisato il significato del riferimento all'avvenuta esecuzione della sanzione applicata in forza di una norma penale diversa da quella incriminatrice, quale limite alla reversibilità degli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale, rimarcando che l'aspetto decisivo, che segna invece il limite non discutibile di impermeabilità e insensibilità del giudicato anche alla situazione di sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma applicata, è costituito dalla non reversibilità degli effetti, giacchè la L. n. 87 del 1953, art. 30 impone di rimuovere tutti gli effetti pregiudizievoli del giudicato non divenuti nel frattempo irreversibili, ossia quelli che non possono essere rimossi, perchè già consumati , come nel caso di condannato che abbia già scontato la pena . Le Sezioni Unite, ponendosi in continuità con l'orientamento già espresso dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 127 del 1966 e 58 del 1967, hanno, al riguardo, rilevato come il rapporto esecutivo penale tragga origine dal titolo irrevocabile di condanna e si concluda soltanto con l'espiazione, oppure con l'estinzione della pena. Ergo, se l'esecuzione è perdurante, il rapporto esecutivo non può ritenersi esaurito e risente degli effetti della norma dichiarata costituzionalmente illegittima, che dovranno essere rimossi con un intervento del giudice dell'esecuzione, cui compete in linea generale assumere le decisioni, aventi efficacia giurisdizionale, su ogni questione inerente al rapporto esecutivo al contrario, qualora non vi sia più un'esecuzione pendente per il suo definitivo esaurimento, l'ordinamento non consente l'esperimento di alcuna azione o rimedio, secondo i principi invocabili in materia Corte Cost., n. 58 del 1967 . 5. Con riferimento al caso di specie, sostiene il ricorrente che dall'integrale espiazione della sanzione detentiva non è derivato l'integrale esaurimento del rapporto esecutivo, a ciò ostando l'omessa riscossione di quella pecuniaria, pari a 30.000 Euro e, proprio in quanto ancora dovuta, inserita dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli nel provvedimento di esecuzione di pene concorrenti del 24 maggio 2018. l rapporto esecutivo viene unitariamente riferito, in questa prospettiva, all'intero trattamento sanzionatorio, in coerenza, peraltro, con gli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 che - diversamente da quanto accaduto con la più recente pronunzia n. 40 del 2019, pure afferente alla cornice edittale del reato ex D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 - hanno riguardato sia la reclusione che la multa. 6. In questo senso si è orientata, in passato, la giurisprudenza di legittimità in alcuni dei - invero rari - casi in cui la questione dell'incidenza della riscossione della multa sul rapporto esecutivo è stata, sia pure incidentalmente, esaminata, statuendo, specificamente, che la rideterminazione in melius, in sede esecutiva, di una multa già pagata non abilita l'interessato ad ottenere la restituzione della differenza tra quanto versato e l'importo rideterminato, risultato inibito, appunto, dall'avvenuto esaurimento del rapporto esecutivo conseguente alla corresponsione della sanzione pecuniaria Sez. 1, n. 39237 del 19/04/2017, Malorgio, Rv. 271047 . 7. Di segno opposto è una più recente decisione di questa Sezione che, con riferimento a fattispecie analoga a quella in esame, ha ritenuto inammissibile l'istanza rivolta al giudice dell'esecuzione di rideterminazione della pena illegale, derivante da dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, qualora la pena detentiva sia stata interamente eseguita, in quanto, agli effetti della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, il rapporto esecutivo si esaurisce con l'espiazione di detta pena, a nulla rilevando che debba ancora essere riscossa l'eventuale pena pecuniaria contestualmente irrogata Sez. 1, n. 20248 del 19/10/2018, dep. 2019, Rv. 275811 . Tale decisione muove dalla considerazione che la sentenza delle Sezioni Unite n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, e tutto il filone giurisprudenziale successivo, che ne ha ricalcato ed elaborato le linee ermeneutiche, circoscrivono il loro ambito applicativo alla sola pena detentiva, in quanto l'elaborazione giuridica ivi illustrata si fonda principalmente sul richiamo ai seguenti principi a la forza del giudicato derivante dall'esigenza di porre un limite all'intervento dello Stato nella sfera individuale b il diritto fondamentale alla libertà personale c l'esigenza di rideterminare la pena non interamente espiata . Tanto, a dimostrazione del fatto che il valore dell'intangibilità del giudicato soccombe rispetto al diritto fondamentale alla libertà personale qualora debbano essere rimossi gli effetti ancora perduranti della violazione conseguente all'applicazione di tale norma incidente sulla determinazione della sanzione, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale dopo la sentenza irrevocabile. La cosa giudicata, dunque, non osterebbe alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna, nei casi in cui la pena debba subire modificazioni necessarie imposte dal sistema a tutela dei diritti primari della persona, in ossequio ad un principio di più ampia portata, già stabilito dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 115 del 1987, 267 del 1987 e 282 del 1989. Il massimo consesso nomofilattico avrebbe, in altri termini, espresso principi che, in quanto evocativi dei temi della libertà personale e della pena detentiva, non potrebbero essere estesi sic et simpliciter alla pena pecuniaria. 8. Ritiene il Collegio che la questione controversa meriti soluzione opposta a quella avallata dall'indirizzo ermeneutico testè richiamato - e ripreso, da ultimo, da Sez. 1, n. 51274 del 03/10/2019, Schiaroli, non massimata - e che debba affermarsi la possibilità di pervenire alla rideterminazione in executivis della pena irrogata sulla base della cornice edittale del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, vigente prima del deposito della sentenza Corte costituzionale n. 32 del 2014, nelle ipotesi in cui, interamente espiata la pena detentiva, non sia stata, invece, eseguita quella pecuniaria. Se è vero, infatti, che la cedevolezza del giudicato costituisce portato del rango costituzionale del bene, la libertà personale, che reclama preminente tutela, non è meno vero, per converso, che l'esecuzione della pena pecuniaria è suscettibile di incidere, in modo diretto o indiretto, su tale diritto fondamentale, per come è dato apprezzarsi dalla seguente, sintetica esposizione volta ad enucleare, attraverso il riferimento alla normativa storicamente succedutasi ed agli interventi della Corte costituzionale, i non marginali, ancorchè in larga misura indiretti, riflessi dell'esecuzione della pena detentiva sulla libertà personale del condannato. 9. E' noto come l'ordinamento distingua le pene principali limitative della libertà personale arresto, reclusione, ergastolo, permanenza domiciliare, lavoro di pubblica utilità da quelle pecuniarie ammenda, multa , per il rispettivo contenuto, integrato, in un caso, dalla limitazione più o meno durevole della libertà personale e, nell'altro, dal pagamento di una somma di denaro in favore dello Stato. Il diverso grado di afflittività delle sanzioni trova pendant nella differente rilevanza costituzionale degli interessi colpiti, la libertà personale rientrando nel novero dei diritti inviolabili dal quale è, invece, escluso il patrimonio. Nel testo originario del codice penale, la separazione tra le pene limitative della libertà personale e le pene pecuniarie era tratteggiata da una linea di confine non sempre chiaramente visibile. L'art. 136 c.p. prevedeva, infatti, che qualora, a causa dell'insolvibilità del condannato, non fosse possibile dare esecuzione alla pena della multa o dell'ammenda, queste dovessero essere convertite, rispettivamente, nella reclusione per non oltre tre anni e nell'arresto per non oltre due anni. Tale disciplina dimostrava che anche le pene pecuniarie erano suscettibili di incidere sulla libertà personale, sia pure in maniera indiretta, attraverso i meccanismi di conversione. L'entrata in vigore della Costituzione indusse l'insorgere di perplessità sulla conformità alla Corta fondamentale di detta normativa, connotata da tangibile diseguaglianza di trattamento in pregiudizio dei condannati economicamente svantaggiati. La relativa questione di legittimità costituzionale fu, in prima battuta, dichiarata non fondata con la sentenza n. 29 del 1962 in ragione della preminente rilevanza costituzionale del principio di inderogabilità della sanzione, idoneo a giustificare l'aggravio di pena provocato alla conversione delle pene pecuniarie. Un primo passo nella direzione opposta fu compiuto con la sentenza n. 149 del 1971, dichiarativa dell'illegittimità costituzionale dell'art. 136 c.p., comma 1, nella parte in cui ammetteva, per i reati commessi dal fallito in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento, la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva prima della chiusura della procedura fallimentare. Fu, quindi, la sentenza n. 131 del 1979 a portare a compimento il percorso attraverso la complessiva dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 136 c.p Nell'occasione, la Consulta, preso atto che il principio di inderogabilità della pena giustificava meccanismi di conversione delle pene pecuniarie che, inevitabilmente, cagionavano la disuguale afflittività tra pene pecuniarie e pene convertite, affermò, discostandosi notevolmente dalla pronunzia del 1962, che, nell'ambito del bilanciamento di interessi tra il principio di inderogabilità e quello di uguaglianza, il primo non può far premio sul secondo fino al punto di legittimare la conversione delle pene pecuniarie in quelle detentive, stante la superiore afflittività delle seconde. Invitò, di conseguenza, il legislatore ad introdurre una nuova disciplina per il caso di insolvibilità del condannato, tale da realizzare un più equilibrato bilanciamento di interessi. Il suggerimento fu raccolto con l'approvazione della L. 24 novembre 1981, n. 689, che, all'art. 24, stabilì che le pene della multa e dell'ammenda, non eseguite per insolvibilità del condannato, si convertono in libertà controllata, oppure, su richiesta del condannato - evitando in tal modo la creazione di un'ipotesi di lavoro coatto, vietata dall'art. 4, comma 2, della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo - in lavoro sostitutivo. Anche la nuova disciplina è stata sottoposta, nel tempo, a scrutinio di costituzionalità, che ha sortito, fatta eccezione per qualche aspetto marginale, esito positivo. Il riferimento attiene - oltre alle sentenze nn. 440 del 1994 e 1 del 2012, che hanno inciso sul calcolo di conversione - a quella n. 206 del 1996, con cui la Corte Costituzionale ha eliminato l'originario limite posto dal legislatore del 1981 alla possibilità di convertire le pene pecuniarie in lavoro sostitutivo, costituito dalla circostanza che la pena inflitta non superasse un milione di lire oggi 516 Euro , a seguito della quale il condannato insolvente può sempre evitare l'applicazione della libertà controllata mercè la presentazione di richiesta di conversione della pena pecuniaria in lavoro sostitutivo. Il D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, istitutivo della competenza del giudice di pace anche in materia penale, ha, infine, introdotto una specifica modalità di conversione delle pene pecuniarie applicate da detto giudice per il caso di insolvibilità del condannato, prevedendo, in particolare, all'art. 55 che - fatta salva l'ipotesi che, su richiesta del condannato, la pena pecuniaria sia convertita in lavoro sostitutivo - la conversione avviene applicando la pena della permanenza domiciliare. 10. La disamina della regolamentazione dei meccanismi di conversione nel caso di insolvibilità del condannato convince del fatto che la pena pecuniaria è, anche nella sua attuale configurazione, in grado di incidere indirettamente sulla libertà personale, sia pure in misura meno pregnante che in passato e diversificata in ragione della tipologia di conversione che, in concreto, viene realizzata. Più specificamente, il grado di limitazione della libertà personale, minimo nel caso di conversione della pena pecuniaria in lavoro sostitutivo, si accresce in quelli di conversione in libertà controllata o in permanenza domiciliare, secondo quanto riconosciuto dalla stessa Corte Costituzionale nel dichiarare, con la già richiamata sentenza n. 206 del 1996, la parziale incostituzionalità della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 102, comma 1. In motivazione, il giudice delle leggi ha affermato che il lavoro sostitutivo è la misura che restringe al massimo la traslazione dell'oggetto della pena dal patrimonio alla libertà personale del condannato, dato che gli permette di produrre reddito e di surrogare in tal modo il pagamento della pena pecuniaria, non realizzatosi per mera insolvenza anzichè per colpa. Una restrizione alla libertà personale minima ma comunque apprezzabile, tanto da giustificare la classificazione, in dottrina, della pena del lavoro sostitutivo, applicabile in via principale dal giudice di pace a norma del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 52, quale pena non detentiva limitativa della libertà personale . A ciò va aggiunto che, quantunque la conversione diretta delle pene pecuniarie non eseguibili per insolvibilità del condannato in pene detentive sia stata dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 131 del 1979, il medesimo effetto può, nondimeno, prodursi in via secondaria nell'ipotesi, prevista dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 108, di violazione delle prescrizioni inerenti alla libertà controllata o al lavoro sostitutivo, conseguenti alla conversione di pene pecuniarie, nella quale la parte della pena convertita non ancora eseguita si converte, a sua volta, in un uguale periodo di reclusione o di arresto, in base alla specie della pena originariamente applicata. Risulta, in definitiva, confermato che l'applicazione di una pena pecuniaria è, ad oggi, in grado di determinare la limitazione massima della libertà personale, sia pure solo in caso di colpa del condannato, a differenza che in passato, quando l'insolvente subiva il massimo aggravio dell'afflittività della pena incolpevolmente, per il solo fatto di essere nullatenente. 11. Il precedente excursus convince, in definitiva, del fatto che la nozione di esaurimento del rapporto esecutivo ostativo alla rideterminazione della pena deve essere intesa nella sua accezione più ampia, comprensiva sia della sanzione detentiva che di quella pecuniaria. In questa direzione si è, del resto, espressa, di recente, questa Sezione con la sentenza n. 8583 del 28/01/2020, non massimata, nella quale è stato ulteriormente segnalato, a supporto di siffatta interpretazione, come essa sia coerente con la previsione, all'art. 657 c.p.p., comma 3, della fungibilità della carcerazione sine titulo nel computo, previo ragguaglio, della pena pecuniaria da eseguire. In concreto, allora, il soggetto che abbia scontato una pena detentiva superiore a quella ricalcolata per effetto dell'intervento del giudice delle leggi e non ancora pagato l'importo dovuto a titolo di multa mantiene interesse alla complessiva rideterminazione del trattamento sanzionatorio quantomeno in vista dell'abbattimento, previa conversione del periodo detentivo espiato in eccesso nella corrispondente pena pecuniaria, del quantum da versare. Logica conseguenza dell'enunciato approccio euristico è che, nel caso di non avvenuta esecuzione della sola multa, la rideterminazione debba interessare anche quella detentiva, eventualmente anche in funzione della commisurazione, in caso di esecuzione di pene concorrenti, della pena residua da espiare. A quest'ultimo proposito, è noto che, in tema di esecuzione delle pene concorrenti inflitte con condanne diverse, opera il principio dell'unità del rapporto esecutivo, alla stregua del quale le pene inflitte per reati commessi prima dell'inizio dell'esecuzione vanno, all'esito dell'operazione di cumulo da compiere ai sensi degli artt. 71 e 80 c.p., considerate come pena unica Sez. 1, 23/04/2004, Di Bella, Rv. 228138 . Il giudizio in ordine all'esaurimento del rapporto esecutivo dipendente dalla condanna interessata dalla pronuncia di incostituzionalità richiede, pertanto, l'esame del complessivo rapporto esecutivo che riguarda il condannato, secondo i principi che regolano la materia Sez. 1, 23/04/2010, Fabiano, Rv. 247076 Sez. 1, 30/06/2014, Facella, Rv. 261197 , e verificando poscia, una volta individuato il cumulo parziale che riguarda la pena inflitta con la sentenza oggetto della richiesta di rideterminazione, se la complessiva pena determinata in quel cumulo sia stata o meno interamente espiata. In questo senso si è, del resto, espressa la giurisprudenza sopra già richiamata Sez. 6, n. 27403 del 10/06/2016, Crivello, Rv. 267365 Sez. 1, n. 32205 del 26/06/2015, Gomes Toscani, Rv. 264620 , che ha riconosciuto il diritto alla rideterminazione della pena anche nel caso in cui ne possa derivare una porzione di sanzione da imputare, in quando espiata sine titulo, alla esecuzione di altra sentenza di condanna. 12. Alle precedenti considerazioni consegue l'annullamento dell'ordinanza impugnata, con rinvio alla Corte di appello di Napoli perchè proceda ad un nuovo esame dell'istanza proposta, libero nell'esito ma ossequioso dei principi di diritto sopra esposti. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte di appello di Napoli.