Pedina l’amante del marito: condannata. Esclusa però l’ipotesi dello stalking

Condanna più lieve per la donna che ha preso di mira l’amante del marito. La sua condotta è catalogata come mera molestia e comporta una pena di un mese di arresto. Decisiva la constatazione che ella ha tenuto un comportamento invadente e infastidente nei confronti della ‘rivale’.

Pedinare l’ex amante del proprio marito vale una condanna. Impossibile però parlare di stalking, più logico catalogare quella condotta come molestia Cassazione, sentenza n. 11198/20, sez. I Penale, depositata il 2 aprile . Pedinamenti. Riflettori puntati su una donna, Flavia – nome di fantasia – che per diversi mesi, dall’inizio dell’anno alla fine dell’estate, ha pedinato quella che ha scoperto essere l’amante – Daria, nome di fantasia – del marito. Inevitabile il processo, centrato sull’accusa di stalking, e inevitabile la condanna. Per i giudici di merito è inequivocabile la condotta tenuta da Flavia. Tuttavia, mentre in primo grado la condanna è relativa al reato di stalking, in secondo grado l’imputazione per atti persecutori viene ridimensionata in semplice molestia, e ciò comporta una riduzione della pena, fissata in un mese di arresto. Per i giudici d’appello non vi è alcun dubbio sul fatto che Flavia ha ripetutamente molestato Daria, in ragione della relazione sentimentale extraconiugale da quest’ultima allacciata con suo marito e a tale scopo l’ha pedinata e le ha inviato messaggi ingiuriosi e minacciosi per circa otto mesi. Tuttavia, manca un effettivo nesso causale , aggiungono i giudici, tra tale condotta e la pretesa alterazione delle abitudini di vita della vittima , nesso che avrebbe permesso di contestare il reato più grave, cioè lo stalking. E a questo proposito viene anche osservato che il tentativo di suicidio posto in essere da Dario si doveva non alle molestie subite ma alla decisione dell’uomo di rompere la relazione e riprendere la convivenza coniugale con Flavia. Turbamento . Nonostante la parziale vittoria in appello, però, Flavia ritiene doveroso ricorrere in Cassazione per mettere in discussione anche la condanna per il reato di molestie. E in questa ottica ella mette sul tavolo, tramite il proprio legale, le incertezze e le contraddizioni del narrato della vittima, in particolare quanto all’esatta collocazione nel tempo dei pretesi pedinamenti, mentre l’invio dei messaggi è smentito , sostiene, ai tabulati telefonici. Subito dopo Flavia aggiunge anche che comunque i pretesi pedinamenti non hanno interferito con l’altrui vita privata e difettano del requisito della petulanza , e anche per questo ipotizza l’applicazione della non punibilità per particolare tenuità del fatto . La visione difensiva proposta dalla donna non convince però i giudici della Cassazione, che ne confermano la condanna per molestie e la pena, cioè un mese di arresto. I magistrati tengono a sottolineare che il reato di molestia o disturbo alle persone”, come previsto dal Codice Penale, può essere integrato anche da una condotta consistente nel seguire insistentemente la persona offesa o il suo veicolo, in modo da interferire nella sfera di libertà di lei e da arrecarle fastidio o turbamento . Allo stesso tempo, però, il turbamento non va confuso con più gravi situazioni, materiali o morali, quali lo stato di ansia o paura, il timore per l’incolumità propria o altrui e l’alterazione delle abitudini di vita che consentono invece di parlare del più grave reato di atti persecutori . In questo caso, gli insistiti pedinamenti messi in atto da Flavia nei confronti di Daria, pur se limitati ad un ambito temporale ristretto, sono stati comunque significativa e il loro carattere invadente e infastidente è palese. Proprio quest’ultimo dettaglio permette, infine, di escludere l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’articolo 131-bis del Codice Penale, viste l’insistenza e la durata delle molestie e preso atto del danno morale arrecato a Daria.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 18 febbraio – 2 aprile 2020, n. 11198 Presidente Aprile – Relatore Centofanti Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Ancona, in parziale riforma della decisione di condanna di primo grado, qualificava l'imputazione di atti persecutori, elevata a carico di Ga. Or., nei termini di cui all'art. 660 cod. pen., riducendo la pena a un mese di arresto. Riteneva, dunque, il giudice distrettuale che l'imputata avesse ripetutamente molestato la vittima, Si. Co., in ragione della relazione sentimentale extraconiugale da quest'ultima allacciata con suo marito, Gi. Pa. e che, a talo scopo, l'avesse pedinata e le avesse inviato SMS ingiuriosi e minacciosi, con certezza peraltro soltanto nel periodo compreso dall'inizio 2013 e sino alla fine dell'estate del medesimo anno, come testimoniato dai medesimi Co. e Pa Tuttavia, secondo lo stesso giudice, difettava un effettivo nesso causale tra tale condotta e la pretesa alterazione delle abitudini di vita della vittima, evento che avrebbe integrato il reato più grave. Il tentativo di suicidio, posto in essere da Co., si doveva non alle molestie subite, ma alla decisione dell'uomo di riprendere la convivenza coniugale. 2. L'imputata ricorre per cassazione, con il ministero del difensore di fiducia, sulla base di tre motivi. Con il primo motivo, la ricorrente deduce vizio della motivazione. La Corte territoriale non avrebbe dato adeguato peso alle incertezze e contraddizioni del narrato della vittima, in particolare quanto all'esatta collocazione nel tempo dei pretesi pedinamenti, mentre l'invio degli SMS sarebbe smentito dai tabulati telefonici. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione dell'art. 660 cod. pen., in quanto, in assenza degli SMS, i pretesi pedinamenti, non interferenti con l'altrui vita privata, come ammesso dalla sentenza impugnata, difetterebbero del requisito della petulanza. Mancherebbe così l'elemento oggettivo del reato. Con il terzo motivo, la ricorrente deduce la violazione dell'art. 131-bis cod. pen. e vizio della motivazione in ordine alla ritenuta esclusione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. 3. In vista dell'odierna udienza la difesa della parte civile costituita, Si. Co., ha depositato memoria, con cui insiste per la declaratoria di inammissibilità o infondatezza del proposto ricorso. Considerato in diritto 1. La memoria di parte civile risulta tardiva, in quanto presentata solo in data 12 febbraio 2020, e quindi oltre il termine dei quindici giorni antecedenti l'udienza odierna, stabilito dall'art. 611, comma 1, cod. proc. pen. Né la stessa può essere considerata una memoria di replica , cui applicare il minor termine dei cinque giorni, giacché l'imputato non aveva antecedentemente depositato una sua memoria, alle cui argomentazioni fosse dato contrapporsi Sez. 2, n. 32033 del 21/03/2019, Berni, Rv. 277512-01 . 2. Il ricorso è manifestamente infondato e, come tale, deve essere dichiarato inammissibile. Tale declaratoria, impedendo la valida instaurazione del giudizio d'impugnazione, non consente neppure di rilevare la prescrizione del reato maturata in sede di legittimità Sez. 7, n. 6935 del 17/04/2015, dep. 2016, Azzini, Rv. 266172 . 3. Manifestamente infondati sono, anzitutto, i primi due motivi, connessi e da esaminare congiuntamente. Il reato di molestia o disturbo alle persone, incriminato dall'art. 660 cod. pen., può essere integrato anche da una condotta consistente nel seguire insistentemente la persona offesa, o il suo veicolo Sez. 1, n. 18117 del 11/02/2014, Scognamillo, Rv. 259295-01 , in modo da interferire nella sfera di libertà di lei e da arrecarle fastidio o turbamento. Quest'ultimo, del resto, non va confuso con più gravi situazioni, materiali o morali, quali lo stato di ansia o paura, il timore per l'incolumità propria o altrui e l'alterazione delle abitudini di vita, che sono gli eventi che, disgiuntamente Sez. 5, n. 36139 del 04/04/2019, D., Rv. 277027-01 , integrano il più grave reato di atti persecutori ex art. 612-bis cod. pen. La condotta, necessaria e sufficiente alla consumazione del reato meno grave, quale quello ex art. 660 cod. pen. ritenuto dalla sentenza impugnata -ossia, almeno, gli insistiti pedinamenti, per un ambito temporale ristretto rispetto all'imputazione ma comunque significativo, e il loro carattere invadente e infastidente - emerge ineccepibilmente dalla sentenza stessa, che sul punto palesemente resiste alle censure, reiterative, e di tipo controfattuale, di cui all'impugnazione odierna. 4. Il diniego di applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen. è parimenti motivato, in sentenza, in modo logicamente compiuto, con il richiamo all'insistenza e durata delle molestie, e al danno morale arrecato, e il relativo apprezzamento non si presta, in tutta evidenza, a censure di legittimità. Manifestamento infondato appare, pertanto, anche il terzo e conclusivo motivo. 5. Alla declaratoria di inammissibilità segue, ai sensi dell'art. 616 cod. pen., la condanna dell'imputata al pagamento delle spese processuali e - per i profili di colpa correlati all'irritualità dell'impugnazione Corte cost., sentenza n. 186 del 2000 - di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in tremila Euro. L'imputata deve essere altresì condannata alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla costituita parte civile, che, tenuto conto dell'impegno defensionale profuso, si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Co. Si. nella misura di Euro 4.000,00, oltre il 15% per spese generali, CPA e IVA come per legge.